Il compleanno

Sempre più alti, più rapidi ed erti. Sempre più energici erano i voli, e sempre più vicini all'ampia corona scompigliata del vecchio melo, che aveva piantato Frederiksen da giovane. Quando l'altalena con le corde tremanti per la tensione ridiscendeva dalla verde oscurità, si sentiva un sibilo, gli anelli cigolavano e si avvertiva un brusco spostamento d'aria; e sul corpo teso, in equilibrio, di Jutta, correvano le figure disegnate dall'ombra dei rami. Si lanciava in alto, rimaneva per un secondo sospesa nell'aria, poi ricadeva e alla caduta partecipavo anch'io: rapido afferravo il sedile appena mi si avvicinava velocissimo, oppure i fianchi di Jutta, o magari il suo piccolo sederino, e la spingevo in avanti, in alto, su nella chioma del melo. Come catapultata, lei saettava via con l'abito che svolazzava e le gambe divaricate, e l'aria, spostandosi, sussurrava, le modellava il corpo, le strappava indietro i capelli, oppure affilava il suo viso ossuto e scanzonato. A tutti i costi voleva fare il salto mortale con l'altalena e io cercavo di darle lo slancio necessario, ma non ci siamo mai riusciti, per quanto lei puntasse le gambe divaricate sulla tavola. Non ci siamo riusciti perché il ramo era troppo curvo o perché lo slancio non era sufficientemente forte: quella volta, nel giardino del pittore, il giorno del sessantesimo compleanno del dottor Busbeck. Quando si rese conto che non ce l'avrei fatta, si mise a sedere sul seggiolino e, sorridendo, senza più ambizioni, si lasciò dondolare, ma continuava a guardarmi in quel suo modo particolarissimo che nessuno le aveva insegnato. Poi a un tratto mi prese nella forcella delle gambe magre e scure e mi tenne stretto: non so che altro avrei potuto avvertire oltre alla sua vicinanza. In ogni caso sentii la sua vicinanza e lei lo capì, credo. Mi imposi di non muovermi e di aspettare ciò che sarebbe potuto succedere, ma non successe niente: Jutta mi baciò, un bacio secco e negligente, poi allentò la morsa delle gambe, scivolò giù dall'altalena e corse verso la casa. Ditte, affacciata a una delle quattrocento finestre, reggeva sul palmo della mano alcuni pezzi di focaccia giallo chiaro, come se stesse dando da mangiare agli uccelli.

Acchiappai il bastone e rincorsi la ragazza. A salti attraversai le aiuole e gli arbusti cercando di abbreviare la strada, ma tutti i nostri sforzi di fare in fretta non servirono: prima che Jutta o io raggiungessimo la finestra, dal capanno del giardino con il tetto di paglia vidi balzare o, più esattamente, rotolare fuori Jobst. Come una folgore impetuosa, simile a un mostro pingue ma agile, con le dita cortissime e le labbra spalancate, passò tra le zinnie e i papaveri giganti travolgendoli e calpestandoli, passò tra quei colori che parevano essersi lanciati una sfida. Naturalmente arrivò per primo sotto la finestra, strappò di mano a Ditte i pezzi di torta; due se li infilò in tasca e il terzo lo trangugiò tenendo gli occhi chiusi per assaporarne il piacere. A vederlo, nessuno avrebbe potuto nemmeno lontanamente sperare di fargli sborsare parte del suo bottino; mai aveva ceduto qualcosa che fosse finito nelle sue mani. Per questo Ditte non tentò neppure di convincerlo con buone parole, ma subito ci fece un cenno perché entrassimo nella linda, immensa sala di Bleekenwarf.

Avrei desiderato raggiungere Jutta nella tetra oscurità del vestibolo, ma lei mi aveva preceduto e non rispondeva ai miei richiami. Mentre brancolavo ancora nel buio cercandola tra una spalliera di mastelli, scope e cassette, lei aveva già aperto la porta. Non la chiuse, ma non si voltò a guardare. Quel silenzio mi rese diffidente. Senza far rumore raggiunsi la soglia, immaginai la stanza vuota e deserta e pensai: Ma dove, se non qui, festeggeranno il compleanno! Quando entrai titubante e mi girai, fui sopraffatto dallo spavento; del resto chiunque fosse entrato con le mie aspettative si sarebbe spaventato. Intorno alla stretta lunghissima tavola, sontuosamente addobbata per la festa del compleanno, sedeva con solennità un consesso di arcaici mostri marini: in silenzio bevevano il caffè, in silenzio, come immersi in una caparbia contemplazione, trangugiavano torta margherita, torta alle noci, gialla focaccia cosparsa di zucchero. Aragoste con gambe di legno, granchi marini e paguri erano appollaiati sulle superbe sedie istoriate di Bleekenwarf; qua e là membra coriacee, corazzate, emettevano un secco scricchiolio, una tazza tintinnava quando veniva appoggiata dalle branche ossute dei crostacei. Qualcuno mi sfiorò con lo sguardo: indifferenti occhi bovini mi guardavano con l'imponente indifferenza di antiche divinità pagane, suppongo. Via via quel muto consesso di mostri mi parve assumere fattezze di persone che conoscevo: due sembravano i vecchi Holmsen di Holmsenwarf, credetti anche di riconoscere il pastore Treplin e il maestro Plònnies, poi ravvisai mio padre e persino Hilke e Addi, e vicino alla delicata trota marina, che somigliava in maniera sorprendente al dottor Busbeck, sedeva, in tutto identica a un pesce persico, mia madre, con la sua faccia scostante e i capelli stretti nella crocchia. Ce n'era però uno che sguazzava libero, gracchiava e si dimenava allegro come un pesce iridescente: ed era il pittore.

E fu sempre il pittore a parlare. Fate sedere i ragazzi al tavolo piccolo, disse. Ma Ditte mi si era già avvicinata e mi spingeva verso il tavolino. Delicatamente mi calò su un arcaico scranno che mi costrinse a rimanere seduto in silenzio e a tenere il busto eretto, perché altrimenti avrei finito per scivolare dal piano leggermente inclinato del sedile. Poi mi tolse di mano il bastone ferrato con puntine da disegno e lo appoggiò sul davanzale della finestra. Invitò quindi Jutta a versarmi del latte e fece compiere al grande piatto da dolci una breve rotazione, un arco di quindici minuti. Prendete, disse con gentilezza e battendomi la mano sulla schiena, prima di ritornare in seno a quella fantasmagorica assemblea e trasformarsi immediatamente, appena seduta, in una piatta sogliola.

Dimenticai la torta, dimenticai anche il latte. Non distolsi mai lo sguardo da Jutta che mi sedeva di fronte: a un tratto mi parve molto importante che lei ricambiasse la mia attenzione. Con un muto segnale le ordinai di guardarmi, ma lei non rispose e allora la urtai sotto il tavolo una volta, due volte, finché lei ritrasse i piedi, non con aria di rimprovero ma opponendomi il viso irrigidito dall'assenza. Non sapevo a che cosa stesse pensando, che cosa sognasse e immaginasse, semplicemente guardavo nei suoi occhi scuri, assenti, nei quali brillavano le fiamme del sole già obliquo; osservavo i suoi forti incisivi che affondavano nella torta, ne staccavano piccoli pezzi, mentre il suo sguardo mi sfiorava percorrendo la sala sulla quale stava calando il silenzio di mille anni e la solitudine di tanti inverni.

L'abito a quadri bianchi e rossi di Jutta, le braccia sottili, le ciocche di capelli spioventi, le labbra pallide che a ogni istante potevano contraddire le parole appena dette: tutto ritorna con facilità alla mia memoria; inutile è invece ogni tentativo di farla ritornare al tavolino, di fronte a me. Riesco solo a rinnovare lo stupore che lei avesse potuto dimenticare tanto alla svelta l'altalena e i miei sforzi. Ma Jutta era fatta così: per un momento presente, partecipe o complice, un istante dopo si ritirava. Lo sapevo che era fatta così, ma non potevo immaginare che all'improvviso si sarebbe alzata e, facendo rigirare la focaccia fra i denti, avrebbe attraversato la sala e raggiunto la tavola. Sussurrò qualcosa ad Addi Skowronnek in un modo particolarissimo, e lui manifestò stupore ma non potè protestare. Poi con le spalle curve si allontanò verso la porta e scomparve senza neppure rivolgermi un cenno.

Rinunciai a seguirla. Misi il mio pezzo di torta sul suo piatto, versai il latte nel suo bicchiere. Mi sedetti sulla sua sedia e non lanciai nemmeno un'occhiata fuori dalla finestra, dove senza fatica avrei potuto ritrovarla in giardino, davanti alla siepe, e poco dopo sul ponte di legno privo di parapetto. Avendo davanti agli occhi quel consesso che continuava a masticare, cominciai anch'io a mangiare e poiché sul tavolino c'erano un terzo bicchiere e un terzo piatto, per precauzione mangiai tutta la torta e bevvi tutto il latte. No, è improbabile: versai il resto del latte nel piatto fondo da cucina e svegliai il gatto che dormiva sulla terza sedia, quella di Jobst, con la schiena inarcata e le zampe ripiegate sotto il ventre. Attrassi il suo sguardo obliquo, fosforescente, sul latte festivo, e il gatto, prima con aria sospetta, poi ingordamente, cominciò a leccare arrotolando la lingua. Ripulì il piatto, che io potei così rimettere sul tavolo, si stirò, si allungò, si passò la lingua sulle zampe e a passi lenti e cauti venne a sedermisi in grembo. Allora si girò e rigirò ruotando su un asse immaginario e, come era prevedibile, crollò dalla stanchezza: ficcò la zampa piegata nella mia mano e fece le fusa.

Guardai quel consesso che in silenzio continuava a trangugiare, inghiottire e biascicare e che si schiariva espressivamente la gola, sempre seduto intorno a quel tavolo lunghissimo che si perdeva nella foschia, probabilmente nella foschia delle dune sabbiose e dei canali del litorale incisi dal mare. In quel momento riconobbi anche mio nonno, Per Arne Schessel, e il sovrintendente della diga, Bultjohann, e Andersen, un capitano di Gluserup di novantadue anni che deve essere comparso nelle vesti di lupo di mare in almeno cinquantacinque documentari, perché la sua barba argentea era molto ricercata e il vuoto acquoso dei suoi occhi poteva simboleggiare la nostalgia dell'ignoto. Se elencassi tutte le persone che sedevano intorno a quel tavolo, passerebbe anche l'inverno e l'Elba sarebbe nuovamente libera dai ghiacci. Per questo motivo vorrei ricordare solamente Hilde Isenblittel e l'ex uccellatore Kohlschmidt. La individuai tra gli altri invitati scagliosi dalle labbra tumide e non mi sfuggì che quel gamberetto fosforescente, fornito di polpacci robusti, continuava a lanciarmi segnali che dovevano avere quest'unico significato: se vuoi della torta, vieni qui.

Non volevo affatto della torta. Aspettavo che avesse inizio il festeggiamento vero e proprio, ma quei signori non davano la minima impressione di voler smettere di mangiare: qualcuno sospirava o gemeva, ma nessuno capitolava di fronte alle reiterate offerte di torri di pasticcini e di torte. Meno di tutti pareva disposto ad arrendersi mio nonno, esperto di storia regionale: se ne stava appollaiato come una saggia aragosta tempestata di incrostazioni marine, e lentamente, ma meticolosamente, ingurgitava interi piatti di dolci, con l'evidente intenzione di sfidare il capitano dei documentari. Quando da noi si decideva di mangiare, si mangiava davvero, se non altro per il fatto, come diceva mio nonno, che a tavola non si invecchia. Per questo sembrava che tutti assegnassero grande importanza al cibo. Persino il nasello in uniforme, che si poteva prendere per mio padre, trangugiava cucchiaiate grosse come zoccoli di torta alle noci o di torta al miele, per garantirsi un inawertibile fluire del tempo.

Anche le donne erano impegnate a superare la resistenza del tempo: mentre si avventavano pigramente su un pezzo di torta, adocchiavano già il successivo, e quando cominciavano a strozzarsi oppure le loro mascelle si paralizzavano, facevano scorrere bollenti fiumi di caffè.

Significativi sono tutti i particolari che si possono notare osservando un gruppo di persone sedute per il caffè, servito la domenica, o in altre ricorrenze, secondo le antiche consuetudini di Gluserup: se si prescinde dall'ingordigia pronta a far ammettere a chiunque che bisogna recar danno al padrone di casa - degni di nota sono innanzi tutto i nove tipi di pasticcini protocollari che devono essere offerti secondo un ordine fìsso, poi le ciotole piene di zollette di zucchero da intingere nel caffè prima di masticarle e infine le scodelle di panna montata da schizzare nel caffè nel quale in precedenza si è versata della limpida acquavite.

Non intendo descrivere ulteriormente queste particolarità che potrebbero essere argomento di un volume e rinuncio anche a spiegare il silenzio che per tutto il tempo regnò a quella tavola. Preferisco, mi sia concessa l'impazienza, indurre il pittore ad alzarsi dalla sua imponente sedia intarsiata e a raggiungere l'estremità del tavolo, vale a dire il dottor Busbeck il quale, in ogni caso, compiva sessant'anni.

Busbeck, mentre il pittore avanzava verso di lui, pareva diventare ancor più sensitivo e imbarazzato. Come un mollusco, si sciolse al primo contatto, si fece grigio, insignificante, piegò la testa di fianco, e guardò alle sue spalle quasi si aspettasse un altro Busbeck, più disinvolto di fronte all'attenzione della quale improvvisamente era divenuto oggetto. Il pittore si chinò leggermente su di lui con meritata confidenza, gli tastò la schiena come per infondergli coraggio e disse: Caro Teo, cari amici, e il caro Teo si fece piccolo all'udire quel vocativo. I cari amici, invece, sorridendo beati sollevarono lo sguardo e contribuirono ad accrescere il disagio dell'omino, ammesso che ciò fosse possibile.

Non sono molto amante dei discorsi, disse il pittore, ed eccezionalmente ebbe ragione; si attenne davvero alle sue parole. Si limitò a ricordare a Busbeck quella sera a Colonia trent'anni addietro: se non ho capito male, Ditte doveva essere malata, era a letto non proprio in una camera gelida, ma comunque in una squallida stanza di una squallida pensione dove, forse, era tirata una corda per stendere la biancheria e la lampadina elettrica era stata svitata personalmente dalla padrona. A completare il quadro, l'affitto non veniva pagato da mesi. Dunque, Ditte era a letto, doveva respirare con grande fatica, e il pittore, che senza successo aveva concorso per un posto di insegnante in una scuola d'arte e mestieri, stava lavando le stoviglie prese in prestito. Fu allora che salì la buia scala di legno fino alla loro stanza un certo dottor Busbeck. Con sorprendente timidezza chiese di vedere qualche lavoro. Non ebbero il coraggio di rifiutare. Lo sistemarono in un angolo vicino alla finestra - almeno così mi è parso di capire - e gli diedero da vedere alcune cartelle di disegni. Poiché quell'uomo era così discreto e non si faceva né notare né sentire finirono per dimenticarlo - mi è parso di capire. A tutto pensavano ma non all'evenienza che il visitatore a un certo punto potesse avvicinarsi alla tavola, coperta di tela incerata, con dieci fogli in mano. Senza parlare mise sul tavolo quattrocento marchi oro e chiese soltanto se poteva tornare. Poiché la domanda era formulata come una preghiera, il pittore - sono parole sue - non potè opporsi.

Cose simili possono dunque accadere, e con animo sereno il pittore ricordò a se stesso e a Busbeck quella giornata di marzo a Colonia; sapeva persino la data esatta. Usando sovente il participio ringraziò poi l'amico per l'amicizia dimostrata con tanta indulgenza durante trent'anni: E ora, Teo, tu sei con noi a Bleekenwarf. Non dimentichiamo quel che tu… Per noi. A Colonia, ma anche a Lucerna e ad Amsterdam. Pensando alle lotte comuni contro il grande Schalberg… Perciò oggi, nel giorno del tuo sessantesimo compleanno, vorremmo… Guardando questa cerchia di persone… Solo generale consenso. Già, Teo.

Il gatto si svegliò di soprassalto e balzò via spaventato perché quelli, che fino a quel momento erano rimasti seduti immobili intorno al lunghissimo tavolo, si alzarono e brindarono alla salute del dottor Busbeck. Con mano tramante si portarono l'acquavite alle labbra e la sorseggiarono in modo circospetto come se prima avessero da superire una certa avversione. Producendo un gran brusio appoggiarono i bicchieri sulla tavola e con cautela riaccostarono le seggiole strascicandole. Lui, il dottor Busbeck, rimase invece in piedi, delicato e agile nel suo disagio, e pareva chiedere scusa agli astanti se per colpa sua si erano dovuti alzare. Si mise dietro la sedia. Si osservò le mani che accarezzavano lo schienale istoriato. Poi disse cose che tante volte aveva pensato: rivolse al pittore e a Ditte, ma anche agli altri, il proprio grazie ed espresse il rammarico per essere loro di peso da tanto tempo; ma lasciò intendere che quella sua vita avrebbe potuto essere per lui solo temporanea e che la dignità del passato non significava più della dignità del presente. Credo che abbia osato parlare anche della speranza di tornare un giorno a occupare il posto in cui poteva essere utile. Mentre parlava non guardò mai, nemmeno una volta, il suo pubblico. Solo a Ditte lanciava di tanto in tanto un'occhiata tenendo il collo storto e la testa inclinata, e la moglie del pittore aveva sempre un sorriso pronto per lui. Ringraziò di nuovo, e di nuovo si sentì protetto, inserito, privilegiato, sì privilegiato dall'amicizia di un uomo che fuori - disse semplicemente: fuori, e forse non pensò affatto al significato implicito, sottinteso in questa parola — era considerato uno dei più grandi drammaturghi della luce, eccetera. Alla fine fece un leggero inchino all'indirizzo di Ditte e di tutto il fantasmagorico consesso, poi con un gesto frettoloso afferrò il bicchiere passatogli dal pittore e sorseggiò l'acquavite. Visibilmente si sentiva molto più sollevato, e infatti sorrideva sereno ora a questo ora a quell'ospite, sovrastando il tavolo. Con pazienza spinse più volte i polsini inamidati della camicia dentro la manica della giacca. Pregò che gli riempissero ancora il bicchiere di acquavite. Si passò la mano sulla fronte: era contento.

Il dottor Busbeck aveva perfettamente ragione a essere contento perché vedeva come tutti noi ci interessassimo a lui. Quando Max Ludwig Nansen disse: Su, guardiamo un po' il tavolo dei regali, il dottore levò il pallido viso dai tratti poco segnati e rimase seduto. Ma due degli invitati lo sollevarono prontamente dalla sedia e gli imposero di guidare il corteo, che doveva dirigersi nello studio. Nello studio il pittore, o Ditte, o probabilmente tutti e due, avevano allestito e addobbato un tavolo su cui avevano disposto i regali. Quando si alzarono, io scivolai giù dalla mia seggiola e per primo raggiunsi la penombra del vestibolo e quindi la porta dello studio, ma un segno furente di mio padre mi attenne dall'arrivare per primo anche al tavolo con i regali - fui Però il quarto. - Che c'era sul tavolo? Quelli di Rugbull e di Glùserup che cosa avevano voluto riservare a uno che non era dei loro ed era capitato in mezzo a loro per una serie di avvenimenti che capivano solo fino a un certo punto? Ricordo benissimo la spilla da cravatta. Ricordo anche la bottiglia di acquavite di frumento e la crostata di frutta, il copricaffettiera e le calze e il libro - autore: Per Arne Schessel; editore: Per Arne Schessel - e la scatola di candele di sego. Ricordo anche il pacchetto di tabacco. Pure la sciarpa ricordo e senz'altro la bottiglia di caffè russo perché quello era il nostro regalo. Ma soprattutto ricordo il quadro intitolato Vele che si dissolvono nella luce.

Il quadro era visibile sul fondo del tavolo, appoggiato al muro. Al suo fianco montavano la guardia le bottiglie, davanti erano ripiegate, servizievoli, le calze, il copricaffettiera si pavoneggiava, la crostata di mele invitava alla fiducia, la sciarpa si snodava tra le candele di sego quasi intendesse soffocarle con delicatezza: tutti quei doni erano compresi solo di sé ma non potevano impedire che il quadro li denigrasse rinfacciando il loro semplice valore utilitario.

Incontrai lo sguardo del dottor Busbeck. Lo vidi inserirsi nella luce del quadro e avanzare, la mano protesa, titubante, secondo me incredulo. Poi lo vidi toccare leggermente la tela con i polpastrelli, indietreggiare, socchiudere gli occhi e improvvisamente stringersi nelle spalle quasi rabbrividisse. Il cielo e il mare si univano. Un morbido giallo limone persuadeva l'azzurro tenue ad annullarsi. Vele fluttuanti facevano intuire spazi lontani, facevano pensare a una storia conclusa e rinunciavano al loro candore per consentire la sognata riunificazione. Le vele si dissolvevano e, dissolvendosi, sprigionavano soltanto luce, luce che mi pareva un unico inno. Con la mano tesa in avanti il dottor Busbeck si riawicinò al quadro e allora il pittore disse: Come vedi, Teo, devo ancora lavorarci. Ma è finito, lo interruppe Busbeck, e il pittore: Il bianco, il bianco dice ancora troppo. E Teo Busbeck aggiunse: È troppo, Max, non posso accettarlo. Ma il pittore gli strizzò l'occhio e disse: Potrai dirlo quando sarà finito.

Tutti, ora, si muovevano intorno al tavolo dei regali, stimavano, confrontavano, valutavano, calcolavano in marchi e centesimi di marchi il valore di ciascun oggetto e lanciavano rapidi sguardi inquisitori per scoprire chi avesse portato questo o quel dono: un argomento di conversazione per il ritorno. Prendevano in mano i regali, esternavano interesse misto ad ammirazione, se li passavano l'un l'altro con commenti vari e non risparmiavano niente: toccarono ed esaminarono tutto. Nessuno osava considerare quei doni in fretta o con negligenza. Sollevavano le bottiglie schioccando la lingua, infilavano la mano nel copricaffettiera, per scherzo si puntavano la spilla da cravatta e intanto Per Arne Schessel tentava di propinare le sue maledette spiegazioni di storia patria sulla scorta del libro che portava in giro aperto. Chi si stupiva, chi esprimeva meraviglia ed elogiava. Chi annuiva col capo, chi fischiava tra i denti. Chi toccava, chi si informava. Andersen, il capitano dei documentari, con il suo nodoso bastone marrone indicò il quadro e disse: Pare proprio il canale della Manica, no? Nel canale della Manica c'è sempre un tempo così. E Gliiserup, disse Bultjohann, dalle mie parti, e il pittore batté a entrambi sulla spalla dando tacitamente ragione a entrambi. Tutti deposero i regali e si accalcarono intorno al quadro chiacchierando. Io li lasciai conversare, perché sul ponticello privo di parapetto, poi davanti alla siepe e tra i cespugli del giardino, Jutta correva a piedi scalzi, reggendo un oggetto che non distinguevo. Sempre attraverso i vetri la vidi infilarsi con il suo carico scuro nella porta del capanno: mi feci strada tra la folla degli ammiratori del quadro che assentivano perplessi, andai a prendere il bastone in sala e quando dalla finestra saltai in giardino mi accorsi che Addi mi seguiva. Anche lui saltò dalla finestra e attraversò l'aiuola per raggiungere il capanno. Forse anche Addi aveva visto Jutta, forse aveva ricevuto da lei un segnale, comunque mi saettò vicino e mi diede una spinta mentre mi doppiava.

Nel capanno, sul pavimento di terra battuta scuro e ondulato, giaceva la fisarmonica di Addi. Jutta era in piedi dietro lo strumento con le gambe divaricate. Pareva pronta a sostenere una discussione e attendeva con aria strafottente. Ma Addi non disse nulla, non protestò, semplicemente la fissò sbalordito e scosse la testa. Suona, disse Jutta. Addi non si mosse. Suona su, disse ancora, oggi è festa qui. Addi alzò le spalle. Suona piano, riprese e io aggiunsi: Sì, piano, solo per noi. Ma Addi fece di no col capo. Prima avevo anch'io una fisarmonica, disse Jutta, anzi ne avevo due, e sapevo suonare. Allora suona tu, intervenni io, ma lei puntò il dito in direzione di Addi e disse: E lui che deve suonare, l'aggeggio è suo. Tua madre, disse Addi rivolgendosi a me, tua madre non vuole. Ma lo vogliono gli altri, risposi. Poi simultaneamente ci girammo verso la porta da dove giungeva un'ombra: era Jobst, grasso e sogghignante, con l'aria di chi ci avesse colti in flagrante. Jobst guardò lo strumento, poi noi, poi di nuovo lo strumento. Entrò con il suo passo pesante, tolse la fisarmonica dalla custodia e slegò le cinghie di cuoio. Perché dovrei indugiare ancora, dilazionare ciò che è già deciso: Addi infilò le braccia sotto le cinghie di cuoio e con gli occhi ci lanciò un ordine preciso. Noi formammo una fila dietro di lui e, marciando e cantando, uscimmo dal capanno col tetto di paglia. Ciascuno appoggiava le mani sui fianchi dell'altro.

Jutta si aggrappò alla vita di Addi, io strinsi il sottile fianco ossuto di Jutta, e la calda pressione intorno alla mia vita era dovuta alle grasse dita di Jobst. Sul sentiero del giardino, dondolando, saltellando, ma soprattutto piegati in avanti, raggiungemmo lo studio: il vento spirava, Addi suonava, e le più belle canzoni hawaiane riempivano Bleekenwarf.

Da dentro bussarono ai vetri e agitarono le mani per salutarci, e il nostro drago musicale, ancora piuttosto corto, passò dondolando davanti allo studio e sotto le quattrocento finestre della sala. Più volte sfilammo lungo gli scuri viottoli del giardino, incitando, invitando. Ricordo ancora che Hilke fu la prima a unirsi al nostro corteo ondeggiante. Poi vennero il pastore Treplin e Holmsen e l'uccellatore Kohlschmidt e Ditte. E Ditte, passando, prese per un braccio mio padre e poi gli appoggiò una mano sul fianco. Improvvisamente il nostro corteo ebbe un proprio potere magnetico, una sua forza irresistibile che si impossessava di tutto, incorporava tutto ciò che gli intralciava il cammino: un corpo che dondolava allegramente senza lasciare neutrale chiunque si arrischiasse nelle sue vicinanze. Così la nostra fila si allungò, si allungò continuamente formando numerose insenature. Nel corteo era entrato anche il pittore, e con lui l'ispettore Bultjohann e Hilde Isenbiittel. Solo mia madre mancava, e sapevo che niente l'avrebbe indotta a unirsi a noi: la stessa ombra severa disegnata dalla sua figura, ferma sul fondo dello studio, esprimeva ancora un superbo rifiuto: lei, Gudrun Jepsen, nata Schessel. Avrebbe potuto prendere esempio dal capitano Andersen, che con i suoi novantadue anni fece per lo meno il tentativo di accompagnare il nostro dragone dinoccolato attraverso la landa di Luneburg e sulla stupenda sabbia. Il fotogenico vegliardo si infilò tra Addi e Jutta, si piegò in avanti scricchiolando, e mi parve di sentirlo frusciare come se bacche di papavero si aprissero e i semi gocciolassero giù dai suoi calzoni. Il vecchio riuscì a seguire l'ondeggiamento per alcuni metri finché finì di spargere i suoi autunnali semi di papavero, poi, con il fiato mozzo, si tirò in disparte. Addi continuava a guidarci, Jutta a tenersi aggrappata ai suoi fianchi e a pilotarlo: dopo avere attraversato il giardino, ci stringemmo per passare nella fenditura della siepe e saltellammo sul ponte, sul prato, su per la diga, e camminando sul fondo del Mare del Nord saremmo arrivati in Inghilterra se Addi non avesse deciso altrimenti. Compì una brusca virata e, quando ridiscendemmo dalla diga, il nostro lungo corpo ondeggiante ripetè quasi fedelmente i movimenti descritti dal mantice della sua fisarmonica, premuto e allentato con regolarità. Procedemmo nuovamente in direzione di gleekenwarf costeggiando la spalliera degli ontani che si specchiavano nel fossato ma non potevano compiacersi della propria immagine riflessa nell'acqua perché il vento increspava e agitava la superfìcie e i loro tronchi erano percorsi da moti brevi come per una tempesta sottomarina. Per evitare che la catena si strappasse, per lo meno vicino a me, avevo cinto la vita di Jutta con entrambe le mani e Jutta aveva stretto le braccia intorno ai fianchi di Addi; altri ancora ci avevano imitato.

Quando arrivammo al cancello, ricordo che trovammo Okko Brodersen, il portalettere senza un braccio. La sua bicicletta era appoggiata contro lo stipite esterno. In mano aveva un foglio di carta e lo teneva sollevato in alto, per segnalare che si trattava di una sosta giustificata. Unirsi, gridò Jutta, e io ripetei: unirsi. Lo assediammo per benino e lo incorporammo nel corteo, compresa la posta che aveva portato. Così di seguito: fiancheggiando la stalla color rosso ruggine, lo stagno, il granaio. Ma quando aggirammo lo studio, io mi guardai indietro e vidi che la fila indiana si era sciolta o che stava per sciogliersi, estenuata forse ed entusiasta, in ogni caso entusiasta; e mia madre non poteva non essersene accorta. Benché in sfacimento, il corteo continuò a seguire Addi. Suonando un'aria berlinese - o tale fu la nostra impressione - tornò in giardino. Allora alcuni del seguito cominciarono a portar fuori sedie e tavoli dopo una prudente ispezione del cielo sul Mare del Nord. Ci incoraggiarono le fessure luminose tra le nubi scure, le pozze di azzurro, il bianco spumoso delle nuvole che passavano rapidissime sopra di noi: trasferimmo quindi in giardino il nostro festeggiamento.

Non voglio impedire a nessuno di immaginarsi il rapido trasporto dei mobili, quel continuo sollevare e deporre, quel rimorchiare attraverso le finestre aperte su immaginari piani inclinati, e soprattutto l'allegro frastuono di un trasloco all'aperto che Addi accompagnava suonando La paloma o Rolling home. Io personalmente non ho tempo: devo cercare il mio bastone, devo assolutamente trovare il bastone ferrato con puntine da disegno che nel momento in cui si formò il corteo avevo certamente appoggiato in qualche posto. Ma dove? Nella sala? Nel soggiorno? Ripercorsi tutti i sentieri. Perlustrai gli arbusti. Cercai nella corte e nel granaio. Il bastone non era su nessun davanzale. E neppure galleggiava nello stagno. Avete visto il mio bastone? domandai ai due uomini che sostavano sulla riva. Mio padre e Max Ludwig Nansen rimasero in silenzio. Non risposero, non scossero nemmeno la testa, semplicemente tacquero, turbati. Continuai a cercare e infine ebbi un sospetto. Tornai allora allo stagno dove una vecchia coppia di anitre bianche insegnava il nuoto in formazione a quattro anatroccoli. Protetto dai tronchi recisi, ammucchiati l'uno sull'altro, mi avvicinai ai due amici di Gliiserup: attraverso un'ampia fessura balzai in uno spazio rimasto libero tra i tronchi e da una feritoia quasi regolare vidi davanti a me mio padre e il pittore come tagliati all'altezza del fianco. Mi erano così vicini che potevo vedere il rigonfiamento delle loro tasche e supporre persino che cosa ci tenessero. Il terreno del mio nascondiglio era liscio e freddo. Il vento soffiava con forza dalle fessure tra i tronchi. Se mi sollevavo o mi abbassavo, potevo rimpicciolire o ingrandire i due uomini, ma non vederne i volti. I loro volti rimanevano esclusi dalla mia prospettiva.

Per prima cosa notai che il pittore teneva tra le mani una lettera, una lettera espresso con la busta sbarrata in rosso. Doveva averla già letta, e ora, dispotico e furente, la riconsegnava a mio padre con un gesto secco. Compresi subito che mio padre, di fronte all'alternativa di ripetere a voce il contenuto della lettera o di far parlare la lettera stessa, come sempre aveva optato per la scelta che pretendeva da lui l'impegno minore. L'aveva data da leggere a Max Ludwig Nansen e adesso se la riprendeva, con quelle sue mani coperte di lanugine rossastra, e la ripiegava con cura mentre il pittore osservava: Siete pazzi, non potete pretendere una cosa simile.

Non mi sfuggì che intendeva riferirsi a un gran numero di persone e che tra queste annoverava mio padre. Non avete alcun diritto, aggiunse, e mio padre: Non l'ho scritta io, Max, io non pretendo niente, ma non riuscì a trattenere un gesto di sconforto, per quanto impreciso. Certo, disse il pittore, tu non pretendi niente, tu controlli soltanto che loro si possano permettere pretese del genere.

Ma che posso fare? chiese mio padre con freddezza, e il pittore: I quadri di due anni, ma sai almeno che cosa significa? Mi avete ingiunto di non dipingere più. Non vi basta? Che cosa escogiterete d'altro? Non potete requisire quadri che nessuno ha mai visto. Quadri che conosce solo Ditte, e naturalmente Teo. Hai letto la lettera, disse mio padre. Sì, l'ho letta, rispose il pittore. Allora saprai, disse mio padre, che è stato ordinato di confiscare tutti i quadri degli ultimi due anni: li devo consegnare domani già imballati all'ufficio di Husum.

Rimasero in silenzio. Guardai attraverso una fenditura di lato e vidi due gambe sottili e tonde come tubi di stufa, avvolte in calzoni, che uscivano dalla porta della casa. Udii una voce chiamare: Sentiamo la vostra mancanza, quando venite? E subito il pittore e mio padre risposero, gridando a loro volta: Subito, veniamo subito. La risposta tranquillizzò i tubi di stufa che se ne tornarono rigidi dentro casa. Un istante dopo sentii la voce di mio padre: Può darsi, Max, che i quadri ti vengano restituiti, un giorno. Il tribunale li esaminerà e poi ce li rispedirà. Formulate da mio padre, guardia della stazione di polizia di Rugbiill, domande o ipotesi di questo tenore suonavano credibili, e nessuno poteva presumere che un uomo come lui sapesse più di quanto comunicava. Il pittore parve molto sorpreso: gli ci vollero alcuni istanti per trovare la risposta. Jens, disse poi in un tono pieno di amarezza e insieme di indulgenza, mio Dio, Jens, quando ti accorgerai che quelli hanno paura, che soltanto la paura li spinge ad agire così: a emanare divieti di esercitare la professione, a sequestrare quadri. Credi che pensino di restituirli? In un'urna, forse. Gli zolfanelli, Jens, sono entrati al servizio della critica d'arte, o dell'osservazione artistica, come dicono loro.

Mio padre teneva testa al pittore senza disagio, riusciva addirittura a manifestare una certa impazienza che io colsi subito. E non mi sorpresi affatto quando disse: L'ordine viene da Berlino, questo basta. Tu stesso hai letto la lettera, Max. Devo chiederti di essere presente alla selezione dei quadri. Vuoi sequestrarli? domandò il pittore, e mio padre rispose asciutto e inesorabile: Stabiliremo quali quadri devono venire incamerati. Mi scriverò tutto in modo che possano essere ritirati domani.

Devo asciugarmi gli occhi, disse il pittore. Asciugateli, tanto non cambierà nulla, fu la risposta di mio padre. Non sapete più quello che fate, intervenne il pittore, e allora a mio padre sfuggì questa frase: Io faccio solo il mio dovere. Guardai le mani del pittore, mani forti, esperte. Le sollevò appena facendole scivolare lungo il corpo, poi le alzò bruscamente in aria e io notai che allargava le dita e subito le richiudeva stringendo il pugno come se questa fosse la sua decisione. Le mani di mio padre erano invece abbandonate, flosce e disponibili, lungo la cucitura dei pantaloni: quasi due oggetti ubbidienti, che passavano inosservati. Andiamo, Max? domandò. Il pittore non si mosse. Mi basta solo che quelli vedano che ho fatto il mio dovere, disse ancora mio padre. Insospettatamente il pittore aggiunse: Non vi servirà a nulla. Non è mai servito a nessuno. Prendetevi quello che vi fa paura. Requisite, fate a pezzi e bruciate: ma ciò che è stato fatto non andrà perduto.

Non puoi parlarmi in questo tono, intervenne mio padre. A te? disse il pittore, a te posso parlare benissimo anche in altro tono: se quella volta non ti avessi ripescato, tu oggi te ne staresti in fondo al mare insieme ai pesci.

Saremo pari una buona volta, disse mio padre, e il pittore: Ascolta, Jens, ci sono cose alle quali io non posso rinunciare. Non ho rinunciato quella volta quando mi sono tuffato per ripescarti e tanto meno posso rinunciarvi adesso. Perché tu non rimanga all'oscuro, sappi che continuerò a dipingere. Farò quadri invisibili. Ci sarà tanta luce che voi non vedrete niente. Quadri invisibili.

Mio padre sollevò la mano, disegnò lente falciate all'altezza del cinturone, e disse come per avvertirlo: Tu sai, Max, quali sono i miei doveri. Sì, disse il pittore, lo so, e, tanto per avvertirti, ci sputo sopra al vostro dovere. Quando voi parlate di dovere, gli altri devono prepararsi a tutto. Mio padre fece un passo verso il pittore, infilò i pollici dentro il cinturone, si irrigidì, il busto leggermente inarcato in avanti, e disse: Io non ti chiedo del disegno con i gabbiani, quindi siamo pari. Ma a partire da oggi, Max, stai attento. Non ho altro da consigliarti. Solo: stai attento. Sono pronto, sostenne il pittore. Dopo qualche istante mio padre chiese: Max, andiamo? Come vuoi, rispose il pittore, andiamo pure. Ma prima di muoversi aggiunse con voce titubante: Non far trapelare niente di tutto questo, Jens. Soprattutto lui, Teo, non deve sapere. La guardia di polizia di Rugbiill non rispose, e io immaginai che fosse d'accordo.

Sfilarono davanti alla mia feritoia, uno dietro l'altro attraversarono il cortile deserto battuto dal vento. Avrei potuto toccarli, spaventarli o sfiorarli, ma non lo feci. Mi sedetti incrociando gambe e braccia e lasciai che i due uomini, nel loro moto progressivo, crescessero nuovamente in altezza. Quando scomparvero dentro la casa, perlustrai il mio nuovo nascondiglio, misurai, verificai, e dedussi che c'era posto anche per due, insomma, per me e Jutta. Poi sgusciai fuori saltando attraverso la fessura e mi ritrovai solo, sul bordo dello stagno. Preparai alle anitre un improvviso Skagerrak facendo scaturire fontane intorno a loro. Usai calibri diversi: là si produceva un tonfo, qui un risucchio, uno zampillo, sicché le anitre erano costrette a mutare continuamente formazione per schivare i proiettili. Prima di tornare di corsa nel giardino decisi di far loro conoscere anche la sensazione del fuoco di sbarramento; fu allora che uno degli anatroccoli perse il controllo, uscì dalla formazione, corse sul pelo dell'acqua sbatacchiando le ali, e si smarrì nel quadrato di reticolo dove piovevano i miei proiettili: se fosse rimasto con i suoi genitori, non si sarebbe preso nemmeno un colpo.

Mi affrettai a tornare in giardino dove Addi suonava la canzone di una ragazza che a ogni costo, sfidando anche il preoccupante fragore delle onde, voleva raggiungere il suo marinaio lontano: i due erano evidentemente una cosa sola come il mare e il vento, eccetera eccetera. Al suono di questa melodia gli invitati si misero a ballare sul grande prato. Ma no, non ballavano: Hilde Isenbiittel in particolare, il maestro Plònnies, ma anche i due vecchi Holmsen pestavano l'erba, zampettavano, zoccolavano, tenaci e pensierosi si sfioravano e mescolavano per farsi venire appetito, essendo ormai prossima l'ora della cena. Non notai chi si abbandonasse a tutto quel movimento e chi invece, tra il vagare delle ombre, restasse seduto sulle panche e sulle sedie - mostro marino immobile ma attento - non lo notai perché subito, al primo sguardo, avevo scorto i due uomini in fondo allo studio: in piedi l'uno dietro l'altro, in diagonale, come pedine su una scacchiera, l'uno con le spalle leggermente sollevate, l'altro con il viso chino. Guardai attraverso i vetri. Erano soli nello studio, in piedi davanti al tavolo con i doni per il dottor Busbeck. Appoggiai il viso contro il vetro facendomi schermo con le mani per eliminare il rischio di venir abbagliato, e li vidi chiaramente osservare il quadro con le vele che si dissolvevano nella luce: era proprio quella tela a essere oggetto di un ostinato processo. Come per un'intimazione, il dito indice di mio padre si puntò contro il quadro, e subito il corpo del pittore gli si parò davanti a proteggerlo; richieste, rifiuti, pretese, dinieghi si alternavano nel silenzio, in quell'agitato silenzio da acquario. Compresi che discutevano e cercavano di convincersi a vicenda. Poi, a un tratto, il pittore prese un tubetto, lo schiacciò facendone uscire un corto verme di colore, si chinò sul quadro e cambiò o completò qualcosa usando prima il polpastrello, poi la costa del dito e infine, come faceva spesso, il pollice intero. Mio padre, in piedi alle sue spalle, era fermo e minaccioso come un segnale di tempesta. Il pittore si rizzò e si pulì le dita. Sul suo volto notai un'espressione di cauto disprezzo. Con gli occhi semichiusi osservò mio padre che rifletteva, annuiva, e pareva non trovasse obiezioni, almeno non così presto. Il pittore sfruttò quel momento per spingere mio padre in angoli lontanissimi, inesplorati sino ad allora: sapevo ormai come si era concluso quel processo. Mi voltai, cercai il dottor Busbeck e lo vidi camminare dando il braccio a Ditte all'ombra dei rami del vecchio melo che si proiettava sulla sua figura.

Stavo esaminando l'opportunità di saltare nella grande sala attraverso una delle finestre aperte e di infilarmi quindi inosservato nello studio, quando Addi smise di colpo di suonare, interrompendo a mezzo la canzone, e cadde a terra supino come già gli era accaduto un'altra volta; come quella volta aveva le gambe percorse da tremiti e guizzi, inarcava il busto e batteva i denti. Lo raggiunsi subito, ma prima di me arrivò Hilke. Come quella volta sulle dune Hilke era già inginocchiata al suo fianco e lo stava liberando dallo strumento, teso e incurvato, che gli cingeva il petto simile a un salvagente.

Andate via, diceva, andate via, ma gli altri sciamavano da tutte le parti e facevano ressa, stringendosi in un cerchio che pareva determinato dallo stupore e dalla meraviglia come dalla paura; non dicevano nulla, non si urtavano neppure con il gomito, si scambiavano occhiate sfiorando appena con lo sguardo Addi: il viso di lui si andava scolorendo e le labbra si serravano spasmodicamente una contro l'altra. Erano tutti là con la spalla protesa in avanti: i due Holmsen, che avevano sempre ballato, il pastore Treplin, l'uccellatore Kohlschmidt e il sovrintendente alla diga, Bultjohann; anche mio nonno guardava in silenzio come Plònnies e il capitano Andersen. Un po' discosta, fuori dal cerchio, sovrastava il gruppo mia madre: non era sorpresa, ma ostentava la sua altera indifferenza, e non osservava Addi, ma Hilke.

Uno soltanto si fece largo tra la piccola folla disposta in cerchio, pronunciando sommesse parole insistenti: il dottor Busbeck. Non aspettò. Non sentì il bisogno di informarsi prima di farsi avanti. Chiese solo permesso, che lo lasciassero passare. Si inginocchiò di fronte a Hilke, tolse di tasca il fazzoletto e asciugò il volto di Addi imperlato di sudore. A quel tocco Addi riaprì gli occhi e si guardò intorno: fiducioso, ma più ancora disorientato.

Bisogna far qualcosa, gridò il capitano addetto ai documentari, ma nessuno gli diede retta. Ora va meglio, disse Hilke, ora tutto è passato, e già Addi si puntellava con evidente fatica sui gomiti. Poi con l'aiuto del dottor Busbeck si sollevò e confuso passò in rassegna la piccola folla che lo attorniava. A Hilke non poteva venire in mente nulla di meglio che afferrare Addi per il braccio, scendere con lui fino all'altalena e quindi, prendendo per il sinuoso vialetto esterno, raggiungere il capanno del giardino: il gruppo fu costretto a disperdersi, benché alcuni, in particolare Per Arne Schessel, continuassero a osservare di sotto le pesanti palpebre il punto in cui Addi era rimasto a terra per qualche istante. Vidi poi Addi scostare il mio bastone dalla parete del capanno e mostrarlo a Hilke; doveva averle detto: E il bastone di Siggi, perché io balzai nella loro direzione levando in alto le braccia e gridando: Eccomi, eccomi. Dopo avermi scorto, Addi scagliò il bastone lontano, nel giardino, facendogli descrivere una traiettoria sghemba: quello andò a cadere sotto l'altalena, e io corsi a raccattarlo.

Stavo per salutare Addi con un gesto della mano ma mi trattenni, poiché vidi in quel momento mia madre attraversare la loro strada nel tentativo di fermarli vicino alla vecchia fonte un po' fuori mano, press'a poco in prossimità del cespuglio di serenelle. Mi sedetti allora sotto l'altalena allargai il mio fazzoletto azzurro e lo fissai al bastone con le puntine da disegno: sventolando il mio ceruleo vessillo ritornai indietro a passo di marcia e rientrai nella festa del compleanno. Sulle panche, sulle sedie, ai tavoli, gli invitati sedevano nuovamente tutti insieme a fumare, a sussurrare, a emettere sibili preoccupati. Sventolai la mia bandiera e la sollevai alta nell'aria, sebbene a Rugbull non ci fosse nessuno in grado di scorgere il mio gesto e trarne conseguenze.

Andò così fino a quel momento, per lo meno fino a quel momento: perché io, ora, non posso non dire che nell'attimo in cui sollevai in alto il mio vessillo qualcuno bussò alla porta della cella, in verità molto timidamente e moderatamente, tuttavia in modo percettibile, interrompendo il filo dei miei ricordi. Chiusi il quaderno e mi girai irritato a guardare la porta. Qualcosa si muoveva dietro allo spioncino; il marrone cancellava il bianco, un bottone luminoso cominciò a roteare, alcune saette di luce mi colpirono. Mi alzai contro voglia quando la porta si aprì con intollerabile lentezza, come in un film poliziesco: con un moto uniforme, cigolando insistente sui cardini, con una esitazione che non faceva pensare a una visita gradevole; per completare la scena mancavano solo le tende svolazzanti e un libro che si sfoglia da solo. Poiché non desideravo restare troppo a lungo lontano dalla festa di Bleekenwarf, dissi gentilmente: Avanti, c'è corrente d'aria.

Entrò rapido varcando la soglia con un saltello e lasciò a Karl Joswig, che io scorsi nel corridoio alle sue spalle, il compito di chiudere la porta dall'esterno. Era visibilmente impacciato, gli angoli della bocca gli tremavano. Nel ricordo, mi appare simile a un giovane amico degli animali che per la prima volta si arrischi in una gabbia. Dondolandosi imbarazzato, lo psicologo abbozzò un sorriso incerto ma simpatico, e accennò un breve inchino che non gli riuscì perché era troppo addossato alla porta. Aveva tre, forse cinque anni più di me, era minuto e molto pallido. Mi piaceva il suo modo di vestire: sportivo, leggermente trasandato. Non riuscii invece a spiegarmi per quale ragione tenesse la mano sinistra spasmodicamente chiusa: forse stringeva un pezzetto di zucchero che teneva pronto per me, forse nascondeva un'arma. Poiché non ero stato io a chiamarlo, mi limitai a squadrarlo in silenzio, percorrendolo con uno sguardo carico di stizzito stupore, uno sguardo che gli impose di sbrigarsi.

Il signor Jepsen? chiese con gentilezza, e io dopo un breve indugio risposi abbastanza asciutto: Certo. Questa risposta non parve scoraggiarlo affatto: staccò il sedere dalla porta e mi offrì una mano floscia dicendo: Mackenroth, Wolfgang Mackenroth. Lieto di conoscerla. Mi sorrise amichevolmente, si tolse il cappotto, lo appoggiò sul tavolo, e con una confidenza che niente aveva giustificato mi mise una mano sul braccio all'altezza del gomito, guardandomi fiducioso e chiedendomi se poteva sedersi. Io scossi la testa, come preso da rammarico: la sedia non poteva averla. Nel caso lei non lo sappia, dissi, sto lavorando: sto scrivendo il componimento che mi è stato dato per punizione.

Doveva saperlo. Il giovane psicologo sapeva che cosa mi era capitato. Non mi risparmiò i suoi complimenti, si scusò del disturbo e alluse a un permesso speciale, concessogli in via del tutto straordinaria dal dottor Himpel. La prego, disse, la prego, signor Jepsen, di aiutarmi: molto dipende da lei.

Alzai le spalle, mormorai in tono cortese: Non ungere ragazzo, nessuno aiuta nemmeno me, e per dimostrargli che non avevo tempo per lui mi sedetti sull'unica sedia della cella a giocherellare con lo specchietto. Lo specchietto tascabile prese in prestito un po' di luce dalla lampadina elettrica e fece vagare il raggio luminoso sulla stufa, sul lavandino, sulla finestra, poi si intrattenne brevemente con lo spioncino dietro al quale stava di vedetta l'occhio di Joswig, decorò il soffitto con alcune fuggevoli ghirlande luminose e senza rumore tagliò la porta della cella in strette sezioni longitudinali- Poiché il giovane psicologo non se ne andava, mi pulii anche le scarpe con il raggio di luce e feci tutte quelle cose che normalmente si fanno quando si è soli, non mi curai affatto del mio ospite, aprii il quaderno, rilessi cercando di avvicinarmi nuovamente al giardino di Bleekenwarf. Wolfgang Mackenroth non si muoveva: mi osservava con affabilità attenta quasi io fossi una sua proprietà acquistata di recente o addirittura una casa disabitata tutta da scoprire. Contro la mia stessa volontà avvertivo che quello scienziato cominciava a diventarmi simpatico, semplicemente per quel suo modo cameratesco di comportarsi. Ma poiché in quel momento la sua presenza mi era sgradita, gli chiesi se per caso non avesse sbagliato porta. Lei, signor Jepsen, rispose, lei e io dovremmo allearci. Cominciò quindi a mettermi a parte dei suoi progetti. Doveva scrivere un trattato per ottenere la specializzazione. La cosa, che lui definì la sua punizione volontaria, era importante ai fini della carriera scientifica. Arrotolando con grande perizia due sigarette, massaggiandosi il collo, mi propose di diventare oggetto del suo studio. Avrei dovuto, disse, entrare con tutto il mio essere nel suo lavoro scientifico e venire accuratamente elaborato. Avrei dunque avuto un funerale scientifico di prima classe. Quanto a lui, osservò con simpatica autoironia, avrebbe illustrato il mio caso con tutti i relativi addentellati e le possibili conseguenze. Il titolo era già pronto: Arte e criminalità illustrate dal caso di Siggij. Tuttavia, affinché questo suo lavoro non solo riuscisse ma trovasse negli ambienti scientifici la conveniente attenzione - il termine conveniente è suo - il mio aiuto era indispensabile. Strizzandomi l'occhio, mi offrì in cambio un risarcimento davvero umoristico: il singolare senso di colpa che, a suo dire, era stata la vera molla delle mie azioni passate, lo avrebbe chiamato fobia di Jepsen, il che mi garantiva la possibilità di entrare un giorno nel lessico psicologico. Dopo avermi sciorinato schiettamente, con il permesso straordinario del dottor Himpel, tutti i suoi piani, il giovane scienziato rimase in piedi accanto al tavolo, mi appoggiò una mano sulla spalla e chinò il volto verso di me inscenando un sorriso di quelli che si scambiano forse due complici, certamente non uno psicologo e un giovane detenuto. Il suo sorriso mi confuse, e non riuscii a spegnerlo con il silenzio. Lo psicologo continuava a parlare in tono sommesso, a spiegare in tono sommesso la direttrice del suo lavoro: difendermi, voleva, assolvermi e riabilitarmi; giustificare i miei furti di quadri e considerare un'iniziativa positiva la mia galleria d'arte privata allestita nel vecchio mulino. Ma, soprattutto, mi promise di fare del mio comportamento un caso limite e di richiedere per me una sentenza che non era mai stata pronunciata. Il leggero, leale fanatismo con cui mi spiegò i suoi propositi lo rendeva credibile. Devo ammetterlo: tra i milleduecento psicologi ossessionati dalla mania di ammaestrarci che hanno trasformato la nostra isola in un vero e proprio zoo scientifico, Wolfgang Mackenroth era l'unico che mi inducesse ad accordargli fiducia, sia pure con cautela.

Soltanto, mi disturbava leggermente il fatto che sapesse troppo di me. Aveva letto i miei documenti da cima a fondo ed era perfettamente edotto del mio caso. Accarezzai tuttavia in un primo momento l'idea di aiutarlo nel suo compito, che si era imposto - diceva - per castigo, e di assicurarmi quindi il suo aiuto per il mio, soprattutto se avesse accettato di rifornirmi di sigarette; ma quando sentii che era legato da amicizia al dottor Himpel, lasciai cadere il pensiero. Lo squadrai a mio piacimento: il piccolo volto pallido, il collo lungo, le mani delicate. Ascoltai con orecchio critico la sua voce e, benché quell'attento esame e il perdurare della visita non sminuissero in nulla ai miei occhi il giovane psicologo, gli risposi tuttavia che la sua offerta mi coglieva di sorpresa. Mi dispiace, dissi, e gli chiesi un po' di tempo per riflettere.

Ma venirla a trovare, insistette, posso venirla a trovare di tanto in tanto? Glielo concessi e per liberarmi di lui acconsentii anche alla sua proposta di passarmi a intervalli irregolari, sottobanco - sono parole sue - alcuni capitoli del suo studio, soprattutto i più critici. Ringraziò, e in fretta, quasi temesse di vedermi ritirare il consenso, si infilò il cappotto: Non la deluderò, Jepsen. Poi mi diede amichevolmente la mano e si avvicinò all'uscio. Bussò dall'interno e Joswig, senza farsi vedere, aprì la porta per lasciar uscire il giovane psicologo. Tesi l'orecchio e udii i suoi passi: si allontanava, aveva fretta.

Da quel momento siedo di nuovo al tavolino pieno di tacche e tento di tornare alla festa per il compleanno del dottor Busbeck, cerco di ridiscendere lungo la catena dei ricordi e di trasferirmi con la memoria a Bleekenwarf, nel giardino del pittore, tra quei maestosi mostri marini in attesa della cena. Potrei anche far servire la cena e soprattutto, in onore del dottor Busbeck, potrei schizzare un imponente tramonto sul mare dove il rosso e il giallo si intrattengono pateticamente, potrei forse descrivere il combattimento aereo che si svolse a circa ottocento metri di altezza e che assorbì la nostra attenzione per qualche minuto. Ma non posso cambiare nulla: io fui il primo a lasciare la festa. Non me ne andai spontaneamente.

Dove avvenne? Come fece ad acchiapparmi? Vicino all'altalena, nel capanno, o sul ponte di legno? In ogni caso avevo in mano la mia bandiera azzurra e stavo cercando qualcosa. Il vento era diminuito. All'improvviso mi si parò davanti, severa e molto eccitata, mia madre. Voleva dire qualcosa ma non poteva. Le riuscì solo un breve gemito: mostrò i denti giallastri come faceva spesso quando era furente, quando si sentiva umiliata e delusa. Mi afferrò per la mano. Premette la mia mano contro il suo fianco. Ruotando su se stessa con un movimento irregolare, si girò, gettò indietro la testa per quanto glielo consentiva la crocchia protetta da una reticella e assicurata da mollette - che faceva pensare a un bubbone luccicante - e mi trascinò via dal giardino, lontano dalla festa di Bleekenwarf. Con un passo terrificante che sembrava dettato dal panico, quella donna alta e piatta mi precedeva sul prato: rasentò lo studio e attraversò il cortile sempre senza dire una parola. Non badò al capitano Andersen che ci aveva gridato: Fra poco ci sarà qualcosa da mangiare, ma sempre legata a me come in un traino urtò il cancello, spalancandolo, e si precipitò sul lungo viale fiancheggiato dagli ontani che porta alla diga. Risalimmo la diga curvi e, senza mai voltarci indietro a guardare Bleekenwarf, la lasciammo alle nostre spalle per scendere alla marina. Da una certa distanza Gudrun Jepsen deve avere suscitato l'impressione di una madre che nella sua convincente disperazione decide di annullarsi nel Mare del Nord insieme al figlioletto. Stavo considerando che cosa dovessi fare e soprattutto quali fossero i miei obblighi nei confronti di mia madre, se dovessi accompagnarla sulla battigia e sprofondare ubbidiente nell'acqua insieme a lei, davanti alla boa, quando cambiò nuovamente direzione e proseguì a ridosso della diga, invisibile ormai agli occhi che probabilmente ci seguivano da Bleekenwarf. Liberò la mia mano e mi ordinò di precederla; allora, senza voltarmi, le chiesi perché avessimo abbandonato così repentinamente la festa: non ricevetti risposta. Le domandai se anche il babbo fosse venuto già via o se sarebbe andato fra poco, ma anche allora non pronunciò verbo: soltanto sbuffò piano col naso. Non disse nulla fino a quando non arrivammo al faro incappucciato di rosso. Svelto, intimò allora, su svelto, devo prendermi la polverina tranquillante, devo sdraiarmi, e mi passò davanti e non badò più se io riuscissi a tenerle dietro. Ma io la seguivo a brevissima distanza e al suo fianco salii le scale, insieme a lei entrai nella cucina. Subito si protese tutta verso l'alto per raggiungere con la mano la mensola lustra, dove in uno squallido ordine erano sistemati i barattoli del riso, del semolino, della farina, della tapioca e dell'orzo, che contenevano tutto fuorché ciò che prometteva l'etichetta profilata d'oro. Urtò un contenitore rovesciandolo e tra una montagna di tubetti, scatolette di cartone e di latta, pescò un cartoccino, ne versò il contenuto in un bicchiere d'acqua, si sedette, e lo bevve tenendo gli occhi chiusi. Io le rimasi in piedi accanto per quella timorosa ubbidienza alla quale mi aveva ridotto, la osservai con un interesse non disgiunto dal rimprovero: il mento affilato, le ciglia rossastre, le narici, le labbra arcuate; e non osai toccarla. Mia madre puntò le braccia sul bordo del sedile, tese il corpo, trattenne per un attimo il respiro. Le chiesi se la polverina le portasse giovamento e, subito dopo, se potessi tornare a Bleekenwarf, alla festa. Non ottenendo risposta, le domandai per quale motivo fossimo corsi tanto alla svelta sotto la diga. Mi guardò allora con i suoi piccoli occhi, si alzò e mi ordinò di seguirla.

Andammo di sopra, passando davanti alla mia camera raggiungemmo il solaio e aprimmo l'uscio che porta alla mansarda dove dormiva Addi. Là si trovava la sua valigia di fibra e sul davanzale luccicava il suo rasoio; appoggiato non so più dove, un pullover, e sotto lo sgabello un paio di scarpe di corda che attendeva il bel tempo. Sul cassettone c'erano un berretto con visiera, una sciarpa e una pila di fazzoletti, e sul cuscino era stato dimenticato un libro, Abbiamo preso Narvik. Raduna tutto, disse mia madre, e poiché non mi muovevo aggiunse: Metti tutto nella valigia. Le fu necessario ordinarmi un'altra volta di sistemare le cose di Addi nella sua valigia di fibra, e solo quando cominciai a darmi da fare sotto le sue occhiate di controllo, disse a bassa voce: Non dobbiamo dimenticare niente, deve portarsi via tutto. Mi porse una piccola macchina fotografica da poco prezzo, visibilmente mai adoperata: Mettila tra i calzini, disse. Lei stessa piegò una cravatta e la sistemò sotto le camicie. Piegammo, ripiegammo, pigiammo e stivammo finché nella stanza non ci fu più nulla che ricordasse Addi, se non la valigia. E quando Gudrun Jepsen la sollevò e la portò fuori, a nessuno sarebbe sfuggita la ripugnanza che le irrigidiva la mano. Che cosa avevo pensato in tutto quel tempo? In un primo momento, che mia madre volesse in un certo modo ricompensarlo assegnandogli una camera migliore, e mi ero persino augurato di averlo come compagno di stanza. Ma scendemmo di sotto, nel vestibolo, e vicino all'ufficio di mio padre lei lasciò cadere di botto la valigia, la spinse contro il muro e si batté le mani l'una contro l'altra come per pulirsele. Parte? chiesi. E lei, di nuovo calma: Qui non ha nulla da fare, quindi se ne va. Gli ho già parlato. Perché, domandai, perché deve partire? Non puoi capirlo, disse mia madre guardando fuori dalla finestra e spingendo lo sguardo oltre la pianura in direzione di Bleekenwarf. Poi, improvvisamente, senza muoversi né alzare il tono di voce aggiunse: Non abbiamo bisogno di malati in famiglia. Parte anche Hilke? domandai allora. Al che mia madre disse: Fra poco sapremo quali vincoli - disse proprio vincoli - sono più forti.

Guardando la sua faccia severa, rossastra, compresi che per me la festa di Bleekenwarf era finita e che per lo meno quella sera lei non mi avrebbe permesso di tornarvi. Così non mi opposi quando mi spedì a letto con una fetta di pane spalmato di salsicciotto. Dissi di sì con il capo. Chiusi la finestra secondo le norme dell'oscuramento, mi svestii e sistemai le mie cose sulla sedia vicino al letto, formando un fagotto come lei mi aveva insegnato: ben lisciati i pantaloni, il pullover piegato a costituire una massa neutra quadrangolare, sopra, la camicia, pure ben ripiegata in un quadrato dagli angoli netti e, in meticoloso accordo, la maglia; al mattino avrei indossato i miei indumenti in successione inversa. Tesi l'orecchio: nella casa c'era silenzio.