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Anche quella volta arrivai in anticipo. Mai sono riuscito a trovarmi in un luogo all'ora prevista o prescritta: non a scuola, non a tavola, non a Bleekenwarf, non alla stazione. Io arrivo sempre in anticipo. Per questa ragione non mi sorpresi che le porte della galleria Schondorff di Amburgo fossero ancora chiuse. Gli scimpanzè in divisa grigia e con tanto di guanti che avrebbero incanalato la marea dei visitatori ed effettuato il servizio di sorveglianza non mi lanciarono neppure uno sguardo, ma continuarono la loro scarna conversazione restando in piedi ai lati opposti del grande atrio tutto specchi. Non mi degnarono della minima attenzione nemmeno quando, diciamo con gentilezza e solo a titolo di prova, urtai la porta centrale a vetri. Sempre e dappertutto in anticipo: Wolfgang Mackenroth, se vuole, potrà valutare anche questo elemento.
Guardai attraverso la porta a vetri. Tenendomi bene in vista, camminai in su e in giù sotto la pioggia sottile, e di tanto in tanto tirai la porta impugnando la maniglia. Lessi non so quante volte il manifesto che annunciava la data dell'inaugurazione e la durata della grande retrospettiva di Nansen. I sorveglianti non mi videro o non vollero vedermi. Quando i concorrenti della corsa a staffetta dell'Alster - partita proprio quella domenica - arrancarono là sotto in mezzo alle rotaie del tram, fradici, con le maglie spruzzate di fango, i guardiani si avvicinarono alla porta e non senza mostrare una certa partecipazione osservarono gli atleti che con le bocche spalancate, vogando con le braccia, schizzando fango a ogni passo, correvano in direzione del Gànsemarkt. Allora feci cenno ai guardiani, ma quelli non se ne accorsero. Con incredibile lentezza tornarono al centro dell'atrio, le mani incrociate sulla schiena, e si fermarono sotto il grande lampadario quasi volessero controllarsi a vicenda. Le parole che si dicevano erano riservate a loro stessi. Forse si giudicavano reciprocamente, valutavano il grado di severità, di vigilanza e autorità che emanavano o che avrebbero dovuto emanare. Ma quante persone dovevano radunarsi davanti alla porta perché aprissero prima dell'orario? Dopo di me venne un vecchio che camminava tutto curvo e che ticchettando con il bastone salì i gradini di marmo scuri, bagnati dalla pioggia. Tentò di aprire la porta con un colpo di spalla; non riuscendo, lanciò un'occhiata ai guardiani di sotto alle sopracciglia incolte e batté contro la porta il pomo del bastone. Ma neppure bussare gli servì; allora si avvicinò al manifesto, sollevò faticosamente la testa e con un'espressione contrariata guardò l'autoritratto di Max Ludwig Nansen - quello con le due metà della faccia differenti l'una dall'altra - dando la sensazione di voler fare a lui le proprie rimostranze: posò il puntale di metallo del bastone sul dorso azzurro del naso e lesse l'orario di apertura e chiusura della grande personale di Nansen. Guardò l'orologio alla fermata del tram: erano sempre le undici meno un quarto, doveva ammetterlo. Dopo avermi lanciato una rapida occhiata ritirò la testa tra le spalle e si predispose all'attesa: grosso uccello brontolone che senza sforzo resiste al tempo.
E dopo di lui? Dopo di lui avanzò sullo stesso fronte la coppia, un ragazzo grande e grosso, visibilmente seccato, con un paio di stivali di gomma rattoppati, capo scoperto, non sbarbato, un enorme pullover con il collo alto di lana di pecora naturale: un affare che gli arrivava fino alle cosce e che con ogni probabilità indossava anche quando dormiva. I capelli sottili, biondo cenere, gli cadevano sulla fronte, e tra le labbra, che lasciavano intuire la sua incessante disponibilità allo scherno, aveva un mozzicone di sigaretta spento. Non nascondeva il proprio malumore per essere venuto alla mostra contro voglia, forse solo perché convinto dalla sua ragazza. Questa aveva gambe lunghe e capelli non meno lunghi; indossava un impermeabile nero, lucido, e appoggiava un braccio sul fianco informe del giovane mentre sull'altro braccio reggeva una bambola di pezza, probabilmente cucita da lei stessa: la bambola le assomigliava, e non solo per il piccolo impermeabile. La ragazza era senza calze e portava dei sandali. Aveva occhi chiarissimi, gonfi, e una faccia larga e piatta. La sua tenerezza era equamente distribuita fra il ragazzo e la bambola. Aveva freddo.
I due puntarono sul manifesto e lo osservarono molto più di quanto si osservi in genere un manifesto. Il ragazzo alzò le spalle e chiese alla ragazza se fosse ancora convinta di avere agito bene svegliandolo così presto in quella innocente mattina di domenica. Poiché lei non seppe dirgli niente e si limitò a stringergli il braccio intorno al fianco informe, allora il giovane annuì all'autoritratto di Nansen e parlò di imbianchini… Quest'imbianchino di nubi e di vento, questo scenografo cosmico. Ma prendiamolo com'è. Se ci siamo alzati così presto. Ma guarda solo l'autoritratto, ti fai già un'idea: il grande venditore di colori. Il ragazzo si esprimeva press'a poco in questo tono, mentre la ragazza canticchiava piano Lullaby of Birdland e cullava la bambolina di pezza.
La porta centrale venne infine spalancata e tutti facemmo ressa verso l'ingresso, ma due guardiani, accuratamente pettinati, ci fermarono e lasciarono entrare solo quelli della televisione e della radio che parevano abituati a non aspettare mai. Si aprirono un varco con le loro cassette di metallo, le cineprese e i magnetofoni, e non solo: appena arrivati nell'atrio cominciarono subito a far lavorare i dieci o dodici guardiani, fecero tirare i cavi e cercare le prese dell'elettricità, impiantare i riflettori e altre cose del genere. Noi incollammo la faccia contro la vetrata dell'ingresso e seguimmo i preparativi. Di tanto in tanto mi scostavo e nel vetro della porta vedevo riflessa l'immagine di nuove persone in arrivo. Salivano i gradini di marmo in modi diversi e se non incollavano come noi la faccia contro la porta guardavano l'orologio o parlavano o, semplicemente, si fermavano rassegnati.
Via via che i minuti passavano e ci si avvicinava alle undici, anche il numero dei visitatori aumentava. Arrivavano in taxi, in tram, in automobile o a piedi, si accostavano alla scala di marmo e si salutavano in tutte le forme immagininabili: dall'impercettibile cenno con il capo all'interminabile scambio di baci, agli abbracci lunghi e dispersivi. Veniva fatto di pensare che tutta quella gente, se proprio non apparteneva allo stesso nucleo familiare, si conoscesse comunque da tempo. Molte strette di mano. Generose manate sulle spalle. Baciamani. Occhiate distribuite con attenzione. A quelli la voglia di salutare non veniva meno. Sorrisi dall'agrodolce al gioviale si impossessavano di quei volti. Molti cenni di saluto con la mano. E sempre allusioni: Dopo, ci rivediamo dopo, bisogna rivedersi dopo. Il fumo delle sigarette e delle pipe. Lo scambio delle notizie. Parlavano a destra e a manca e tuttavia non dimenticavano di lanciare rapide occhiate per verificare chi c'era, chi stava venendo, chi mancava.
Anch'io scoprii dei conoscenti: Bernt Maltzahn in impermeabile e il critico d'arte amburghese Hans–Dieter Hiibscher, che aveva fatto due volte visita al pittore a Bleekenwarf: capelli ondulati, setosi, occhiali con montatura in corno, pelle giallognola come sego, una crisalide con occhi penetranti.
Di quelle persone, ferme sulla scala antistante la galleria Schondorff, ciascuna meritava di essere osservata nel modo adeguato: la donna in nero con il cappello a larghe tese, la dentatura equina e gli orecchini ai quali avrebbero potuto dondolarsi benissimo tre scimmiette; l'uomo con i calzoni lacerati e la sorprendente faccia infantile; quello con la pelle del viso paonazza e la rozza pipa, che continuava a fìssare le figure disegnate dal fumo della sua pipa e che personalmente giudicavo capace di ritrarre i suoi interlocutori con il fumo; la coppia anziana in cappotto di cammello e gli stessi riflessi viola nei capelli; l'uomo affetto da sicosi, con il bastoncino d'avorio; la ragazza con la giacca di pelle e il pullover color verde acqua che pazientemente massaggiava la schiena di un giovanotto tarchiato e con le gambe corte; la rossa piatta con le gambe cosparse di bollicine rosse: ciascuno meritava di essere osservato e contemporaneamente offriva un'immagine, diciamolo pure, della varietà delle fisionomie umane.
Ma non crediate che i guardiani avessero notato quella gente e che con gioia avessero preso visione del fatto decidendo di aprire prima dell'orario fissato. Attesero invece che l'orologio segnasse le undici e solo allora spalancarono le porte. Subito si allinearono davanti al guardaroba scoprendo i denti, quasi desiderassero farsi ringraziare per aver aperto le porte; ma con ogni probabilità sorridevano soltanto perché la televisione stava filmando l'inaugurazione della mostra e avevano notato come le due telecamere si muovessero soprattutto per riprendere la loro zona. In ogni caso noi facemmo ressa, spingemmo, ci pigiammo per passare davanti ai guardiani - non ero riuscito a entrare per primo - e raggiungere l'interno della galleria Schondorff. Il liscio locale luminoso, se visto dall'alto, avrebbe senz'altro suscitato l'impressione di un labirinto, un labirinto in miniatura: le leggere pareti divisorie in compensato aprivano e chiudevano infiniti passaggi. In questi corridoi e recessi fluì la marea dei visitatori ma non definitivamente perché, seguendo un percorso obbligato, si ritrovarono tutti nel grande atrio dove si fermarono, le schiene contro le ampie finestre, le facce rivolte all'entrata. Con quanta naturalezza se ne stavano in piedi e riuscivano a conversare a bassa voce e a osservarsi! Con quanta facilità reprimevano il desiderio di guardare i quadri esposti secondo una progressione cronologica, prima del discorso inaugurale! Che qualcuno avrebbe parlato lo faceva supporre il modo stesso in cui i visitatori si erano disposti nella sala.
Si potevano cogliere brani di conversazioni e risa interrotte da nuove parole di saluto. Ah, vi si vede qui, la prossima volta non bisogna lasciar passare tanto, non potremmo già la settimana prossima… la cosa migliore è telefonarsi… Sì, il vecchio sarà presente, l'hanno detto i giornali… Al teatro Thalia no, ma ai Kammerspiele… siete fortunati a non aver visto la prima… Talvolta mi pare che sia il monumento a se stesso… come sa circoscrivere la forza limite del colore… Enfasi, non ti pare, troppa enfasi nella visione. Chi sa come ha fatto Schondorff a trascinare il vecchio in città… Nell'allegoria del colore, mia cara, nasce il simbolo… Lo ritengo un buon decoratore… Balduin fa solo della televisione, in teatro non puoi più criticare la società… Viviamo in un'epoca ottica, gli altri sensi non hanno più nulla… Il colore assume in lui non solo un significato poetico ma anche metaforico… E più tedesco di sei granatieri pomerani messi insieme… E dopo questo caleidoscopio ce ne andiamo a mangiare insieme. E irraggiungibile nella forza evocativa del colore. Ma quello non è Thomas Stackelberg? Stackelberg. Lunga criniera, un modo di sorridere gelido, sconcertato, stereotipato, vestito da re Edoardo: era proprio il cantante e attore Thomas Stackelberg in persona. Dispensò a destra e a manca saluti appena abbozzati come se tutti lo salutassero. Abituato a richiamare l'attenzione e gli sguardi curiosi, avanzò con esercitata disinvoltura attraverso il cerchio aperto e si incastrò in un gruppo insieme alla sua giovane accompagnatrice dalla bocca larga: tutto il padre… Guarda come somiglia al padre. Ma dove lavora adesso?… È davvero una sorpresa vederlo qui alla personale di Nansen… E perché? disse Stackelberg. Ogni volta che la mia Gabriella ha partorito, ha desiderato un acquarello di Nansen, e lo ha anche avuto, no?
Due uomini con gli impermeabili aperti mi lanciarono un'occhiata, mi passarono in rivista da capo a piedi: un giovane e un vecchio. Nessuno li salutò, e loro non salutarono nessuno. Non parlarono nemmeno tra loro. Non erano della famiglia, e quando la telecamera si puntò oscillando su di loro si girarono come per tacito accordo e si spostarono sul fondo della sala. No, non se ne andarono e non smisero di squadrarmi: a me parve che si interessassero più alla mia persona che non a Rudolf Schondorff. A un certo momento il gallerista trasferi oltre il cerchio dei visitatori la sua faccia piatta e presuntuosa, raggiunse la scala dove non solo si fermò ma assunse un contegno: dignitoso, autoritario.
Tutti guardarono Rudolf Schondorff. E lui sembrava avvertire gli sguardi concentrati sulla sua persona: si massaggiò le dita davanti al petto quasi dovesse renderle flessibili per una speciale stretta di mano. Si voltò e diede un segnale a uno dei guardiani. Quasi nessuno parlava. Le risa si attutirono e i movimenti si interruppero. Il corpo del direttore della galleria si irrigidì, le braccia si abbandonarono lungo i fianchi e i piedi provarono un passo brevissimo: Max Ludwig Nansen entrò.
Entrò accompagnato da Teo Busbeck. Non l'avevo mai visto abbigliato come quella volta, in occasione della sua personale di Amburgo: scarpe con le ghette, pantaloni a tubo stretti, a righe, una giacca che nel corso dei secoli era diventata lustra, una cravatta a papillon di seta fermata da una spilla, colletto inamidato e sulla sua testa poderosa e pesante un cappello duro, fuori moda. Vestito in quel modo avrebbe potuto benissimo mettersi a disposizione del museo di storia regionale di Altona e andare a popolare la sezione dedicata all'arte frisona, ospitata in un edifìcio ricostruito sul modello originale dell'ottocentodieci. La sua faccia sembrava autoritaria e impenetrabile e le labbra esprimevano un vago disprezzo. E la sua andatura. Sembrava scelta apposta per quell'abbigliamento: con passo solenne, imperioso, che pretendeva via libera, salì infatti la scala al braccio di Teo Busbeck, l'amico. Né un sorriso né un gesto gentile quando Schondorff lo salutò augurandogli il benvenuto. Con espressione scostante prese nota del saluto, annuì impercettibilmente e anche quando i visitatori cominciarono a battere le mani si limitò ad assentire. Mentre gli applausi diminuivano si inserì nel cerchio tenendo ben stretto al suo fianco il dottor Busbeck, che aveva già tentato di battere in ritirata. Alzò lo sguardo e gettò un'occhiata ostile ai riflettori e alla telecamera ronzante: un uomo altero e caparbio. Quando Schondorff per la seconda volta gli tese la mano, fece fìnta di niente, e quando il regista della troupe televisiva gli si avvicinò e lo pregò di salutare con più calma, per la televisione, il direttore della galleria, Nansen gli fece un cenno ordinandogli di sparire. Chinò il viso per indicare di essere pronto ad ascoltare il discorso di inaugurazione: Su, via.
Allora Schondorff, il padrone di casa, cominciò a parlare. Parlò con voce suadente, aiutato da un fogliettino promemoria che arrotolava fra le dita. Il pittore ascoltò con aria sempre assorta, dimostrando tuttavia una certa attenzione critica quasi aspettasse l'occasione per protestare o per lo meno per correggere l'oratore. Altre deferenti parole di saluto. Naturalmente molto onore. Allusione alle fatiche, alle difficoltà. Ricordo di Max Ludwig Nansen quale maggiore rappresentante del… Citazione del telegramma, ormai passato alla storia, inviato all'accademia di Berlino. Rimpianto per gli inestimabili valori che irrimediabilmente sono andati perduti. Appello diretto al pittore: che abbia voluto accettare il nostro invito… Assicurazione della gratitudine generale. Stretta di mano. Applausi.
Poi fu la volta di Hans–Dieter Hùbscher. Il critico amburghese, parlando, non seguì la traccia di alcun foglietto. Parlò con disinvoltura e per tutto il tempo tenne gli occhi chiusi. Passandosi di tanto in tanto la lingua sulle labbra, abbozzando sorrisi ansiosi come se le parole usate non avessero la sua approvazione ma rappresentassero per così dire un ripiego, si espresse in frasi brevi e si diffuse su ogni componente dell'arte del pittore Nansen, dalfintuizione della forza panica della natura" fino al suo "possente pathos espressivo".
Nansen guardava il critico con aria stupita e tuttavia consenziente, e quando sentì alludere al nuovo concetto di spazio e al linguaggio geroglifico annuì con il capo. Fece capire di essere d'accordo anche quando l'oratore parlò di ricerca della condizione primigenia dell'essere umano.
Il pittore sussurrò qualcosa a Teo Busbeck, ma si girò subito verso il critico non appena costui menzionò le costanti categorie pittoriche: spazio, colore, luce ed elemento decorativo. Max Ludwig Nansen assentì un'altra volta, e io capii che si meravigliava soprattutto per essere d'accordo con le parole del critico. Istintivamente si avvicinò a Hans–Dieter Hubscher. In quel momento il critico si mise a parlare delle serie cromatiche che Nansen cercava, sempre e dovunque, di fondere nella cosiddetta "sonorità essenziale", di portare a una tensione tonale che invadesse tutto, eccetera eccetera. Anche su questo punto il pittore non ebbe niente da obiettare e non protestò neppure quando proprio la ricerca della sonorità essenziale fu definita il suo massimo problema, problema che prima era stato di Rembrandt. A mio parere il pittore era molto stupito. Per finire Hubscher disse: La sua opera testimonia come un contenuto presagito si trasformi in pittura grazie all'immagine sonora.
L'oratore aprì gli occhi e fece un piccolo inchino all'indirizzo del pittore, quindi dei visitatori. Stava per ritirarsi, ma il pittore lo trattenne per la manica e mentre gli applausi crescevano gli prese la mano e gliela strinse, la trasse a sé e fissò l'uomo che aveva ottenuto il suo pieno consenso. Disse anche qualcosa che però non fu possibile cogliere. In ogni caso la mostra poteva dirsi aperta, e i visitatori dal fondo e dai lati abbandonarono la grande sala. L'anello si disfece, si sentirono brani di conversazioni e si udirono risa soprattutto nel punto dove tenevano incastrato Thomas Stackelberg. I visitatori si muovevano nei vicoli e nei passaggi del labirinto, si disperdevano, no, isolatamente o a gruppi sfilavano davanti ai quadri, prendevano d'assalto i divani che invitavano a una contemplazione più assidua.
Nel gruppo di testa — c'era per così dire un gruppo di testa - si vedevano Schondorff, il pittore, il dottor Busbeck e Hans–Dieter Hubscher. Avevano fretta. Camminando, Schondorff dava ogni tanto una spiegazione, ogni tanto faceva per fermarsi, dire una parola, ma gli altri non erano disposti ad ascoltarlo. Era soprattutto il pittore a rifiutarsi di sentire le sue divagazioni ed era pure lui a imprimere velocità al gruppo, a trascinarlo. Di tanto in tanto lanciava un segno al critico perché non si smarrisse. Dunque ci teneva a Hubscher. Forse desiderava farsi dire altro sulla sua opera, non so; certo, non doveva essersi aspettato un fatto del genere: che qualcuno parlasse di lui e che lui si sentisse stupito, sorpreso, forse addirittura spaventato di non trovar niente da ridire.
Non immagino proprio come avrebbe reagito se mi avesse scorto tra il pubblico. Ma io mi tenni in disparte, mi nascosi dietro i gruppi di persone e rimasi sempre all'erta: l'ultima volta che lo avevo visto era stato quando mi aveva scacciato da Bleekenwarf avvertendomi, dichiarando che non poteva più avere fiducia in me. Non si può fare più alcun assegnamento su di te, aveva detto, di te non ci si può più fidare, Witt–Witt; quindi con un'occhiata imperiosa aveva guardato verso Rugbiill. In fondo mi bastava osservarlo, seguirlo come meglio potevo. A un certo momento il dottor Busbeck parve riconoscermi o per lo meno, notandomi, si fermò di scatto, ma poiché io non risposi al suo sguardo non fu più così sicuro. Non c'è da stupirsi dopo tanti anni!
Teo Busbeck fu anche l'unico ad accorgersi dello scherno che suscitava l'abbigliamento del pittore. Scrollatine del capo, risolini, sorrisi: prendeva nota di ogni reazione, ma subito voltava la testa. Non so chi disse: Uno così non esiste, è una delle sue invenzioni.
Preferisco evitare di ripetere ogni commento anche perché è tempo ormai che io mi avvicini al grande quadro che non conoscevo. Era appeso da solo al centro di una parete.
All'improvviso mi trovai davanti la tela intitolata Giardino con maschere e non riuscii a proseguire. Il giardino splendeva come un'officina di colori: era un'unica disperata fioritura, un'unica offerta di forme e fatti, ma ogni elemento era distinto, esisteva anche in sé e per sé. A un albero, a un ramo che bisogna immaginare, pendevano tre maschere sostenute da cordicelle verdi: due maschere maschili e una femminile. Il sole le investiva di lato e le illuminava per metà. Una terrificante sicurezza emanava da quelle maschere, una enigmatica certezza. I fori degli occhi erano d'un bruno terroso benché sullo sfondo il cielo fosse chiaro e senza nuvole. Le maschere minacciavano il giardino?
Mi immaginai folate di vento, all'inizio un vento debole che le muovesse leggermente e poi un vento più forte che le facesse sbattere l'una contro l'altra e ruotare velocemente su se stesse. Ma a chi somigliavano? Mi pareva avessero espressioni familiari, mi sembravano il calco di visi che avevo conosciuto; ma alla memoria non mi si presentò nemmeno un nome. Immaginai che di notte crescessero di numero, pendessero da tutti i rami e dai cespugli, si sollevassero dalle aiuole su steli secchi. Mi avvicinai al quadro, al giardino delle maschere. Ricordo che rimpiansi di non avere un bastone sottile e resistente per colpirle e staccarle dagli steli, dagli arbusti e dai rami. Desideravo spiccarle come si spicca la testa a un fiore, quindi caricarle su una carriola e rovesciarle in mezzo all'aiuola colorata.
Si misero al mio fianco. Mi sollevarono infilandomi le braccia sotto le ascelle. Io continuavo a guardare il giardino delle maschere e intanto riconobbi il tessuto chiaro, impermeabilizzato, dei loro spolverini. Il giardino si mimetizzò, e solo allora vidi come qualunque cosa si offuscasse davanti alle maschere che oscillavano. Non con violenza, non a scatti, ma con una pressione regolare mi spinsero di lato, mi allontanarono dal quadro. La presenza delle maschere in giardino pareva bastasse a mutare ogni cosa: fece esplodere o nascose la fioritura, rinforzò o attenuò l'incendio dei colori. Avvertii alla mia destra e alla mia sinistra due facce che avevo conosciuto di sfuggita, facce che esprimevano rispettabilità e diffidenza professionale.
Un gomito e un morbido pugno mi tastarono le costole, sempre senza causarmi dolore. Mi girai: nascosti in mezzo ai fiori vidi due occhi che come ammaliati osservavano le maschere. Perché avrei dovuto voltarmi, alzare la voce, protestare quando sapevo chi mi aveva attanagliato e per quale ragione? Mi lasciarono, ma il fruscio degli impermeabili non smise, continuò a restarmi vicinissimo. Non abbiamo bisogno di dire che il tutto deve svolgersi con estrema naturalezza. Evitiamo scalpore eccetera eccetera, evitiamo discussioni. Io mi comportai come al cinematografo avevo visto comportarsi altri nella stessa situazione: docilmente, tranquillamente, con rassegnazione. Il mio comportamento li soddisfece.
Adagio mi avviai verso l'uscita, camminando con indifferenza, osservando questo o quel quadro, le mani abbandonate lungo il corpo. Solo una volta, prima di arrivare alla scala, mi fermai, consentii agli impermeabili di avvicinarsi e in un tono che non lasciava dubbi chiesi: Parte da Rugbiill questa faccenda? Al che uno disse: Non chiacchierare, e l'altro: Avanti, cammina.
Avevo capito. Non avevano bisogno di spingermi. Non avevano bisogno di spingermi nemmeno la seconda volta e la spinta fu più forte - quando scesi le scale; mi ero fermato solo perché non sapevo attraverso quale porta mi avrebbero pilotato.
In ogni caso persi l'equilibrio, con due rapidi passi evitai di incespicare, mi misi a correre, a salti scesi la grande scala esterna e continuai a correre grazie all'impulso di quella brusca partenza. Mi venne sempre più voglia di correre. Non badavo alle grida che mi ingiungevano di fermarmi né agli avvertimenti, udivo solo il rumore dei miei passi, il battito, il rimbombo che mi incalzava, mi spingeva a proseguire fino al ponte, oltre la strada, a rasentare il fianco barcollante di un tram. Il tram costrinse i due uomini ad arrestarsi, i due spolverini che pure si erano messi a correre e che adesso sempre più raramente gridavano alt, fermarsi; in compenso avevano preso a seguire le mie piste con grande scrupolo e ostinazione. Mi inseguirono attraverso un cantiere edile in mezzo alle baracche, tra i camion e i macchinari gialli fermi, e uno dietro l'altro corsero sulla stessa asse traballante sulla quale ero appena passato. Scesero la strada fino al semaforo, che rimase verde per me, e poi rasentarono le vetrine dei grandi magazzini. Qui mi persero di vista per la prima volta. Mi notarono invece dei pedoni che durante il passeggio domenicale ammiravano le vetrine, mi additarono e si girarono meravigliati, sbigottiti. Ma io ero già lontano, correvo verso il ponte della ferrovia. Vidi il cartello con la scritta: Fumo! Pensai al fumo, mi augurai, desiderai il fumo, una spessa nube che salisse e mi nascondesse. Ma la stazione di servizio rimase perfettamente visibile. Il braccio che sporgeva dal finestrino aperto di un'automobile reggendo il denaro, il benzinaio che inseriva la pompa nel serbatoio: li distinguevo benissimo. Dunque avanti! Attraversai il posteggio straripante di auto davanti alla stazione centrale, passai con il busto chino tra le automobili. Gli alberghi non mi suggerirono alcuna buona idea, tanto meno il teatro benché, come avevo visto la mattina, un noto attore dovesse leggervi Hòlderlin, Storm e Goethe nel corso di una matinée. Avevano già passato il ponte, e il benzinaio a gesti indicava loro la direzione alludendo ovviamente a me. Non mi rimaneva dunque altra scelta che entrare nella stazione con le sue sale d'aspetto, i gabinetti, gli sportelli, i chioschi e tanta gente ferma o che faceva ressa, avanzava. Mi infilai nell'atrio freddo, ventoso, vidi, considerai le diverse possibilità che mi si offrivano, ma non ne sfruttai nessuna. Mi limitai ad attraversare il grande atrio e tornai alla fermata. Balzai sul tram che si stava muovendo - proprio in quell'istante partiva un tram - e per tutto il tempo in cui rimasi voltato a guardare verso la stazione non vidi sbucare i due spolverini.
Mi fissavano? Le loro facce esprimevano sospetto? Il mio respiro affannoso li rendeva diffidenti? No, i viaggiatori non si curavano affatto di me. I viaggiatori, con un differente grado di attenzione, guardavano il controllore che esaminava il biglietto di una vecchia donna robusta. Il controllore disse: Il biglietto non è valido, che ha da dire? La donna si slegò il fazzoletto bagnato che aveva in testa e disse: Non ho mai visto uno come lei. Poi prese da terra una pesante borsa dalla quale sporgeva un mazzo di fiori e a titolo dimostrativo occupò un altro posto. Il controllore si passò il biglietto tra le dita e lo guardò controluce. Disse: Niente da fare. Il suo biglietto non è valido. La donna si girò seccata e a bassa voce disse alla sua borsa: Ho tirato grandi quattro figlioli ma non ho mai visto un tipo simile. Il controllore, che indossava il cappotto troppo lungo dei controllori dell'azienda tranviaria di Amburgo, si avvicinò alla donna, si appoggiò alla sua spalla quando il tram ondeggiò in una curva e poi le mise il biglietto sotto il naso. Disse: Chi si serve di un mezzo di trasporto pubblico deve essere in possesso di un biglietto valido. La donna passò il suo fazzoletto umido sul vetro appannato. Disse: La prego di togliere le zampe se vuol parlare con me. Ma come faccio a sapere se il mio biglietto non è valido? Il controllore disse: Lei ha cambiato tram senza pagare la differenza. Stringendosi nelle spalle la donna disse: Uno così non l'ho mai visto, con le sue norme sui trasporti pubblici.
Continuarono a rimbeccarsi, senza riuscire a mettersi d'accordo. Non so dire come andò a finire quella storia, se il controllore buttò la donna giù dal tram o se invece la donna sbatté in faccia al controllore la sua borsa: a un tratto riconobbi l'acetificio e dovetti scendere.
Attraversai il cortile deserto, rasentai le cataste di botti e raggiunsi la vecchia palazzina degli uffici. Il portone era sempre aperto, giorno e notte, i gradini di pietra erano pieni di crepe, dal soffitto pendeva una lampada ma la lampadina era stata svitata, i muri erano coperti di graffi, strisci, iniziali incise: al secondo piano di quella casa abitava Klaas. Sebbene non abitasse solo, sulla porta c'era soltanto il suo nome: su un biglietto da visita, affrancato con delle puntine, si leggeva: K. Jepsen, fotografo. Non c'era campanello. Bussai, bussai con insistenza e dopo qualche istante comparve mio fratello. Indossava un pigiama tutto stropicciato ed era scalzo. Mi fissò con un'aria contrariata: Entra! Alle pareti del lungo corridoio la sua galleria di ritratti: Morti ad Amburgo, fotografie di persone morte annegate, ammazzate, sgozzate, strozzate o uccise da arma da fuoco o in incidenti stradali; ma c'erano anche fotografie di gente spirata serenamente nel proprio letto.
Aprì una porta appena accostata. Un grammofono girava a vuoto. Sul tavolo c'erano bottiglie di vino rosso e cinque bicchieri. Sull'ampio divano–letto sfatto erano appoggiate le lenzuola e le coperte e su una poltrona ricoperta di seta grezza si intrecciavano abiti maschili e femminili. Jutta, gridò Klaas di fronte a una porta chiusa e subito ripete: Jutta, non senti?
E così, subito dopo: Jutta con dei jeans scoloriti che le levigavano il sederino, un pullover leggero troppo corto che le lasciava scoperta una striscia di pelle. Prima di salutarmi si scambiarono un'occhiata. Jutta mi diede un bacio. Klaas gettò i vestiti sul divano–letto e mi accostò la poltrona: Siediti, Jutta ti darà del caffè e ti porterà del pane e prosciutto. Tutti e due si accesero una sigaretta. Klaas bevve un sorso di vino rosso.
Come sta il piccolo? chiese Jutta, e io: Qui ad Amburgo ce l'hanno con me. Non so come ho fatto a uscirne vivo. Due impermeabili mi si sono messi alle costole. Li ho seminati alla stazione centrale. Mentre parlavo, mio fratello alzò il bicchiere con il vino rosso, strizzò un occhio e sollevando lo sguardo mirò a bersagli immaginari sulle pareti e sul soffitto. Non dava l'impressione di ascoltarmi con particolare interesse, non mi interruppe nemmeno una volta e solo alla fine disse: è una faccenda non molto bella, piccolo, e dopo una pausa aggiunse: Puoi restar qui fino a domani, dopo però devi farti venire in mente un'altra idea. Può dormire nella camera oscura, disse Jutta, sulla sedia a sdraio, e Klaas: Qui Siggi può dormire dove vuole, soltanto bisogna che domani si faccia venire in mente un'idea migliore: quelli non rinunciano anche se ti perdono di vista.
Jutta mi portò del caffè e del pane e prosciutto, mise sul giradischi un microsolco, credo delle Andrews Sisters, e canticchiando a bassa voce la melodia e tirando di tanto in tanto una boccata infilò un elastico in un paio di mutandine con l'aiuto di una spilla di sicurezza. Klaas andò alla finestra e guardò il cortile sottostante. Poi sollevò lo sguardo e lo spinse sulla strada e anche allora mirò a ipotetici bersagli, finestre, tetti, e forse la scritta verde che reclamizzava l'aceto. Chiese: Che vogliono da te, piccolo? Perché così tutto a un tratto? Non lo so, dissi, e Klaas: Ti ha messo lui nei guai? Il vecchio, là a Rugbùll? Forse, dissi; deve essere stato lui: probabilmente ha scoperto qualcosa. Il tuo nascondiglio? Sì. Qui ce la fai di certo a scappare, disse mio fratello: se vengono qui tu ti nascondi in camera di Hansi, lì c'è una scala che va direttamente sul tetto. Ti ci porterò. Meno male che son qui. Meno male che sei qui. Mio fratello mi mise in mano il suo bicchiere di vino rosso e mi invitò a bere. Andò in cucina. Lasciando aperta la porta, si lavò sotto il forte getto dell'acqua. Balli? domandò Jutta. Io scossi la testa. Allora bevi, disse, e mi riempì il bicchiere. Poi cominciò a rassettare la stanza, sempre canticchiando e con in mano la sigaretta accesa; lasciava cadere la cenere senza badare.
E poi… Tutti e due trasalimmo - persino Klaas in cucina trasalì - quando fuori sul corridoio esplosero due ruggiti fondi e sconvolgenti, una voce imperiosa e insieme trionfante che annunciava non so quale notizia. Si avvicinarono dei passi che si interruppero proprio davanti alla nostra porta. Noi restammo come paralizzati e ci limitammo a guardarci in faccia. Mentre Klaas mi faceva cenno di passare in cucina, la porta si spalancò e nel riquadro della porta comparve il ragazzo con il pullover di lana naturale e gli stivali di gomma rattoppati: con le braccia si teneva stretta al petto una mezza dozzina di bottiglie di vino rosso. Emise un altro ruggito, ma più breve e contenuto. Al ruggito fece seguire un brontolio e con un brusco cenno del capo indicò la direzione: la stanza di Hansi.
Quello era Hansi. Passò senza dire una parola - e senza aver chiuso la porta - e dietro di lui comparve la ragazza con i capelli lunghi e l'impermeabile di plastica luccicante. Teneva la bambola di pezza sollevata sopra la testa e passando ci salutò tutti con la mano. Veniamo, gridò Klaas.
Come descrivere la stanza di Hansi? Un budello fosco con due porte - una dava direttamente sulle scale - e tre finestre che davano sul vecchio piazzale della fabbrica, utilizzato ormai solo come deposito delle botti marce; contro le pareti cassette da marinaio dipinte di blu e coperte di pelli che emanavano un odore acre e servivano come sedili o addirittura come letti; molte scatole di conserva come portacenere, un cavalletto, una stretta mensola piena di bambole di pezza accovacciate, in piedi, sdraiate l'una sull'altra o l'una accanto all'altra. Sotto la finestra, applicata a un cartone grigio, la confessione pittorica di Hansi, il ciclo intitolato La sommossa delle bambole, a carboncino, punta d'argento ma anche ad acquarello. Dietro una tenda un fornellino a gas, un lavandino, stoviglie, e una parata di scatole di latta dalle forme più svariate. In un angolo, dietro al cavalletto, c'era una sedia a sdraio dove dormiva un giovane calvo con la giacca di pelle aperta: non solo dava l'impressione di avere dormito fino a quel momento, ma sembrava dovesse continuare a dormire nei prossimi giorni e settimane. Non posso dimenticare i tavoli: due tavoli da giardino rotondi con le gambe segate. Ma devo ricordare anche la scatola di cartone con le pompe di bicicletta - Hansi collezionava pompe di bicicletta che verniciava e numerava.
Hansi si mise a bere. Doris - così si chiama la ragazza con l'impermeabile - aprì le bottiglie, versò il vino, baciò tutti porgendo il bicchiere, baciò con particolare attenzione Jutta producendo un leggero rumore come la succhiasse. Hansi, che se ne stava sdraiato sulla schiena con le ginocchia alzate, gridò: Fate musica voi due, lamprede omosessuali. Così: musica e chitarra; il giradischi era vicino alla sdraio dove dormiva il ragazzo calvo. Klaas era seduto sul pavimento e appoggiava un gomito su una delle cassette da marinaio; teneva il bicchiere in equilibrio sul ginocchio. Anche Doris si sdraiò sul pavimento, in ogni caso si prese come coperta una delle pelli che emanavano quell'odore acre. Una voce maschile cantò accompagnata da una chitarra, cantò di un sole nero e di un fiume pure nero dove qualcuno era affogato, un bambino, credo. Hansi fumava e assentiva ma improvvisamente balzò in piedi, si grattò le ginocchia e mi mise in mano il suo bicchiere. Che succedeva?
Signori, disse, mi sento della sabbia tra i denti e un sapore di colla. Mi sono stupito ma adesso ho finalmente capito da che cosa dipende: da quelle decorazioni ideologiche, da quella mostra. Abbiamo incontrato l'imbianchino in persona, dovete sapere. Il grande pittore di nubi era là in carne e ossa.
Si avvicinò al cavalletto, fissò un foglio e cercò la cassetta con i pastelli a cera. Li trovò in una cassa dietro al ragazzo che dormiva. Doris rise e accavallò le gambe. Dunque fate attenzione. Insieme ricercheremo lo stato primigenio dell'essere umano in una maniera del tutto tedesca, con commozione vi prego. Tieni ferme le zampe, Doris, e voi smettetela di ridere. Tracciò una corsia gialla e bianca, le concesse un contorno d'oro seghettato: ecco, per prima cosa abbiamo la spiaggia, un pezzo di spiaggia del Mare del Nord dove il mare recita le sue allitterazioni. Muta grandezza della natura, o giù di lì: dove si caca, la mattina seguente spunta già qualcosa. Poi prese del bianco e del nero. Sulla spiaggia comparve un angolo nero, no: un personaggio angoloso, vestito di nero con pantaloni a tubo e giacca; l'uomo aveva in mano un libro, leggeva o aveva appena finito di leggere camminando sul litorale. Un libro importante, ovviamente. Lavorando a una scena simile, disse Hansi, il pastello, s'intende, deve gemere, deve essere convinto all'esaltazione cromatica nello stesso modo in cui la natura convince la pianta a esaltarsi nella crescita, ammesso che sappiate quel che voglio dire. Il colore deve dare la risposta alle emozioni dell'uomo di fronte al cosmo, dal colore deve scaturire la visione dello stato primigenio.
Lavorò con foga. Stringendo le labbra e dando ai suoi movimenti un'esagerata ampiezza e solennità: con il giallo fece vibrare l'azzurro e in un verde scintillante fece esplodere il bianco; il colore diventò il motivo visuale, e la paura - devo ammetterlo - scaturì spontaneamente. Dunque la faccia verde dell'uomo che camminava sulla spiaggia con un libro aperto esprimeva paura e insieme sorpresa; ma non si capiva ancora da che cosa fosse causata quella paura. Poi del marrone, un marrone scuro frammisto a drammatiche strisce nere, che si ingrandiva, si gonfiava su quella spiaggia, qui veniva protratto fino all'infinito, là delimitato: ecco che abbiamo il grande uccello cosmico, chiaro? I due si incontrano. Il profeta germanico ha paura perché si trova di fronte alla forza primigenia. Ma adesso deve intervenire lo spazio: le nubi si devono avvicinare altrimenti l'incontro non può risultare sufficientemente mitico. Evochiamo allora una bufera nel cielo; la notte non è poi molto lontana. Mancano le angosciose grida degli animali: ma come è possibile raffigurarle?
Mentre Hansi disegnava, spostava, suddivideva, senza bussare entrarono altre persone: due ragazzi e una ragazza bassa con i capelli neri. Si tolsero tranquillamente il cappotto, si versarono del vino, senza parlare si sedettero dove trovarono posto e osservarono Hansi. Questi, dopo aver fatto intervenire le nuvole, stava pensando al titolo da dare al quadro: Il profeta incontra sulla spiaggia un uccello di grandezza soprannaturale. E adesso chiariamo insieme questo stato primordiale celato nell'uomo, come ci ha mostrato il decoratore cosmico Nansen.
Stava per cominciare ma evidentemente non aveva fatto i conti con me. Del resto neppure io avevo fatto i conti con me stesso, e a un certo momento mi sentii dire ad alta voce: Tutto molto bello e divertente, soltanto che la prospettiva non funziona. Quando Hansi mi fissò sbalordito, io mi ero già alzato in piedi e mi ero avvicinato al cavalletto. Gli dimostrai gli errori di prospettiva. Hansi si fermò, i suoi occhi si restrinsero: rinunciò a dire ciò che evidentemente aveva intenzione di dire, si fece dare invece un bicchiere di vino rosso e ne bevve un sorso. Nel decoratore cosmico, dissi, la prospettiva funziona. Sempre. C'è altro? L'uccello, dissi, non è intuito come sa intuire le cose l'imbianchino. Voglio dire: i suoi personaggi fantastici compaiono e agiscono con grande coerenza: solo a vederlo si capisce che questo uccello non riuscirà mai a riprodursi. Ti viene in mente altro? Le fratture cromatiche, dissi, non sono mai casuali nello scenografo, ogni cosa trova conferma, giustificazione. Qui per me manca semplicemente la necessità. Va bene, ma che cosa vuoi dire? Sbrigati.
Mi voltai per cercare lo sguardo di Klaas. Klaas fissava il pavimento. Guardai Jutta. Jutta evitò di raccogliere il mio sguardo e di rispondere. Lo conosco. Chi? Nansen, il grande paesaggista, conosco quasi tutto di lui, l'ho visto dipingere parecchie cose. Una cosa come il tuo ciclo non l'avrebbe certamente portata a termine, e per questo ha fatto altre cose. E in quelle è perfettamente coerente. Non divagare, disse Hansi e vuotò il bicchiere. Naturalmente tu gli sei superiore, dissi, e se tu lo liquidi in questo modo, deve essere vero, oppure? Quello è proprio buffo, gridò Doris, e tracciò dei cerchi con le gambe. Ti ritieni molto importante, no? disse Hansi, forse perché quello una volta ti ha comprato un gelato o ti ha permesso di portargli la cartelletta. Ne hai tutta l'aria. Prima ti ho visto alla mostra e sai che cosa ho pensato vedendoti? Ho pensato: quello sarebbe il modello adatto per Nansen, per certi quadri naturalmente, come il Giovane durante la fienagione.
In quel momento Klaas aveva qualcosa da dire: Vieni, Siggi, siediti, ma io non potevo semplicemente voltare le spalle senza dare una risposta.
Dissi: Riderai, ma io gli ho fatto veramente da modello e quindi conosco i suoi mezzi. Se liquidi lui e i suoi mezzi in questo modo, vuoi dire che sono proprio i suoi mezzi a funzionare, penso. Non mi piace la gente che si ripete, disse Hansi, e Doris riprese a gridare divertita: Lo trovo buffo, con quello dovremmo guardare i quadri al buio.
Non dissi niente, e in silenzio passai davanti a Hansi. Tutti mi seguirono attentamente mentre mi inginocchiavo davanti alla Sommossa delle bambole e con tutta calma osservavo i lavori uno per uno. Dunque il popolo delle bambole di pezza: visi triangolari, visi appiattiti, visi a puntopunto–virgola-lineetta. Braccia pieghevoli. Gambe in cui si potevano fare due nodi, corpi elastici, chiazzati, ma soprattutto immortali. Le bambole si arrampicavano sul comignolo di una fabbrica, e lo occupavano. Facevano saltare un acquedotto, crollare un ponte, deragliare un treno. Toglievano una bandiera dall'alto di un edificio e scoprivano una tomba, per K.A. Bambole con il vento contrario, bambole sul poligono di tiro di Munster. Incatenavano una ragazza addormentata, Doris naturalmente. Fuggivano alla vista di una trottola, cavalcavano un gallo, con dodici forbici sezionavano una poltrona imbottita.
Per tutto il tempo in cui guardai i quadri, loro mi osservarono senza proferire parola; udii il loro respiro e il fievole rumore secco che producevano aspirando le sigarette. Allora mi alzai, lentamente mi voltai a guardare Hansi che si stava scostando dalla fronte i sottili capelli biondi e ostentava un'aria sfottente. Siediti, Siggi, disse Klaas. Be', che c'è? Importante, dissi, è tutto molto importante. Non per me. Solo che mi meraviglio, dissi. Manate sulle spalle, condiscendenza o disprezzo: è tutto ciò che sapete dimostrare a un vecchio, nient'altro. Vi sentite molto superiori: guarda un po', tutto questo anche lui lo sapeva ai suoi tempi, lo aveva visto e conosciuto. Non venirmi a raccontare chi era Nansen. Mi sembra però che tu non sappia tutto. Ascoltami bene, ragazzo, disse Hansi. Il tuo Nansen è proprio il tipo che io considero una disgrazia: legato al suolo natale, visionario, politicizzato.
Gli hanno proibito di dipingere, dissi. Tu non sai che gli hanno proibito di dipingere; centinaia dei suoi quadri sono stati distrutti. È proprio questo l'enigma di Nansen, disse Hansi, e io: Non va a suo vantaggio? Lo dovresti capire. Tu sei uno che capisce tutto. Certo, disse Hansi, di che si tratta lo capisco. Ad esempio capisco quel che di lui mi disturba. Anche a me succede la stessa cosa, dissi, però una cosa non capisco e cioè perché voi la facciate così semplice. Voi condannate senza darvi la pena di capire.
Avevo altro da dire, volevo dire altro ma non feci in tempo: più alla svelta di quanto avessi immaginato Hansi sollevò un ginocchio e mi colpì al basso ventre. Mi contorsi per un improvviso dolore come il suo profeta sulla spiaggia. Mi piegai in avanti sempre in preda al dolore, e Hansi ne approfittò per sferrarmi due pugni ben centrati, un uppercut che mi colpì al mento e una martellata sulla nuca che mi spedì al tappeto.
Cadendo: macchie rosse. Ricordo che mi aggredirono delle macchie rosse. Le vidi avanzare verso di me, ballavano. I pezzi di camera d'aria rossa con i quali erano aggiustati gli stivali di gomma di Hansi parevano staccarsi dal fondo scuro e rotearmi intorno. Cadendo sentii un grido, ma non riuscii a stabilire chi fosse stato a gridare. La conversazione in ogni caso era finita, la pellicola si era rotta e anche l'ospitalità di Hansi era terminata: quando aprii gli occhi non vidi la tappezzeria ingiallita della sua camera, la tappezzeria con le scene di caccia dove le anitre colpite a morte precipitavano nel canneto. Mi avvolgeva invece il buio e un odore di cloro, credo di cloro.
Ero seduto in una sedia a sdraio, con le gambe avvolte in una coperta. Sentii Klaas che diceva: Dorme, e sentii Jutta che diceva: E allora lascialo dormire. Poi sentii ancora la voce di Klaas: Torniamo di là. Cercarono di allontanarsi senza far rumore, di chiudere la porta senza far rumore, comunque io li sentii. Ero seduto sulla sdraio e pensavo di andarmene senza salutare. Era pomeriggio? Era sera? Dove andare? Tornare a Rugbiill? Presentarmi su un peschereccio in partenza per la Groenlandia? Raggiungere Strasburgo per arruolarmi nella legione straniera? O, invece, mettermi a cercare i due spolverini, presentarmi spontaneamente per conoscere che cosa sapevano di me e quali erano le loro intenzioni?
Sdraiato, meditavo, consideravo, esaminavo le diverse possibilità. Studiai in tutti i particolari il piano dell'imbarco clandestino per l'America: là poi avrei cambiato nome, in Sig O'Jepsen o giù di lì, avrei guadagnato soldi, avrei aperto una galleria di quadri, raccolto intorno a me i giovani pittori americani, organizzato con loro settimane dedicate all'arte nazionale, dove il presidente… poi dissi: per fortuna che non, si è fatto nulla di questo film culturale.
Esaminare e respingere i diversi progetti: in questo modo trascorse un bel po' di tempo. Non mi alzai, non lasciai né la camera oscura né l'abitazione di Klaas. Cercai invece di non sentire lo sgocciolio di un rubinetto che stillava attraverso i miei progetti e la mia testa. Il conto tornava, il numero delle gocce cresceva, arrivai a ottanta e mi addormentai. Ero agitato. Mi addormentai appena, di un sonno superficiale, pronto all'eventualità che Klaas o Jutta, o forse addirittura Hansi, mi svegliassero.
E non dimenticherò mai il sogno che ebbi là nella camera oscura. Navigavo. Su una larga barca di legno navigai in mare aperto, fino a una bassa isoletta davanti alla penisola. Sedevo all'ombra della vela, e l'imbarcazione scivolava morbidamente verso l'isoletta azzurra, piatta. Là c'era il mio nuovo nascondiglio. Me l'ero costruito con le pietre di una chiesa in rovina, l'unica cosa che avevo trovato sull'isola deserta. Il nascondiglio era fresco e spazioso; i giunti erano stati turati. Approdai, tirai la barca sulla spiaggia, interrai per precauzione la piccola ancora, guardai il mio nascondiglio e lo trovai assediato dalle foche. Le foche si erano sdraiate al sole in semicerchio. Le loro pellicce luccicavano. Sollevarono la testa e mi fissarono. C'erano anche molti piccoli. Sdraiarsi. Mi sdraiai sulla rena e camminando carponi mi avvicinai alle foche. Non fuggirono. Strisciai in mezzo a loro e raggiunsi il mio nascondiglio. Mi rilassai e udii il primo sparo. Partiva da fuori, dal mare, e il proiettile colpì un pezzo di macerie e si disintegrò.
Poi vennero due barche, piccole imbarcazioni che non avevano né vele né remi. Come fossero trascinate da una fune, puntavano dritte verso l'isolotto; veniva fatto di pensare che corressero su rotaie. Nelle barche, ritti, incredibilmente rigidi, con il fucile spianato c'erano due uomini: in una mio padre, la guardia della stazione di polizia di Rugbiill, nell'altra Max Ludwig Nansen, il pittore. Sognai che andassero a caccia. Mentre avanzavano sulle barche sparavano; dalle bocche dei loro schioppi uscivano pallide nuvolette di fumo molto decorative. Le foche arrancavano a fatica verso l'acqua quando partì il primo colpo. Il branco si divise, si ricompose disordinatamente e oscillando si diresse verso la punta meridionale dell'isolotto. Vicino all'ingresso del mio nascondiglio i loro corpi si sollevarono sulle pinne. Le pinne sbatterono sulla sabbia. Le guidaiole abbaiarono e ringhiarono per avvertire le altre foche. Allora io mi precipitai fuori ma un colpo mi costrinse a terra, e insieme al branco in fuga strisciai carponi fino all'estremità dell'isola. Le foche erano più veloci di me, persino i piccoli erano più veloci e mi superarono, ma io non desistetti. Le seguii sulla sabbia, in mezzo all'avena selvatica e tra i corpi delle foche uccise. Vidi che le prime avevano già raggiunto la spiaggia, si buttavano in acqua e si immergevano.
Troppo lento, troppo maldestro era il mio tentativo di fuggire insieme al branco di foche fino all'estremità meridionale dell'isola. Sempre più, sempre più cresceva il mio distacco, le forze cedevano e non riuscivo più ad alzarmi. Nemmeno quando le barche dei due uomini raggiunsero la spiaggia riuscii a rizzarmi sulle gambe. Balzarono dalle barche nello stesso istante, si accordarono, spiegarono una rete e vennero verso di me stendendo la rete sulla sabbia; tutti e due indossavano degli spolverini chiari.
Strisciai, avanzai carponi, serpeggiai sulla sabbia; l'orma che lasciavo si differenziava di poco da quella lasciata dalle foche. Un leggero sforzo, due passi di corsa bastarono ai due uomini per accerchiarmi con la rete. Ridendo strinsero il cerchio e ridendo mi aggirarono, curando che l'imboccatura della rete si trovasse sempre davanti alla mia faccia; incoraggiante, quasi mi inducesse a capitolare, il sottile anello di legno mi invitava: Vieni, vieni. L'anello rotolava, mi balzellava davanti, e allora i due si chinarono su di me, mi tamburellarono sulla spalla, ma non in modo scortese: come pazienti domatori mi additarono la rete che si assottigliava all'estremità: Allez, allez, hop.
Non saltai, ma finii per infilarmi nell'imboccatura della rete e strisciai fino al fondo tutto nodi. Mi sentii sollevare: la rete mi tagliava la pelle, e davanti agli occhi la sabbia ondeggiava e oscillava.
Siggi Jepsen? Sì, dissi. Venga. Il sole cadeva a perpendicolo e mi accecava. Accendi la luce. Una sottile luce azzurra avvampò, una cortina fu scostata, una voce disse: Il signore non si è ancora completamente svegliato. Qualcuno mi sollevò, liberò le mie gambe dalla coperta. Io allungai una mano e toccai un impermeabile. E veramente una camera oscura, disse una voce, e l'altra rispose: Ma stai attento che il ragazzino non sia sovraesposto.