La punizione

Mi hanno dato un compito per castigo. Joswig stesso mi ha condotto nella cella, ha battuto con le nocche sulle inferriate della finestra, ha palpeggiato il pagliericcio; poi, sempre lui, il nostro amato sorvegliante, ha perquisito l'armadio di metallo e il vecchio nascondiglio dietro lo specchio. Silenzioso, silenzioso e risentito, ha quindi proceduto a ispezionare il tavolo e lo sgabello pieno di tacche, ha dedicato particolare interesse allo scarico, e con la nocca inquisitrice ha rivolto tamburellanti domande al davanzale della finestra e indagato sulla neutralità della stufa. Poi mi è venuto vicino per tastarmi con calma, dalle spalle alle ginocchia, e avere la conferma che non portassi in tasca niente di pericoloso. Infine, con aria di rimprovero, ha messo sul tavolo il quaderno, il quaderno dei temi con l'etichetta grigia e la scritta: "Componimenti di tedesco di Siggi Jepsen", e senza salutare è andato verso la porta, deluso, risentito nella sua bontà. Perché Joswig, il nostro amato sorvegliante, soffre più di noi per le punizioni che a volte ci vengono inflitte, soffre più a lungo e con conseguenze più profonde. Una sofferenza che mi ha lasciato intendere non con le parole ma con il modo di chiudere la porta: di malavoglia, con cauta perplessità, la chiave si è infilata nella toppa, ha esitato prima di girare, si è ripresa, ha fatto scattare la serratura una seconda volta e, come rimproverandosi l'indecisione iniziale, ha dato due bruschi giri. Proprio Karl Joswig, quell'uomo delicato e timido, nessun altro, mi ha rinchiuso perché facessi il compito assegnatomi per punizione.

Benché sia seduto qui da quasi un giorno, non posso, non riesco a incominciare: se guardo fuori dalla finestra, l'Elba scorre attraverso la mia incerta immagine riflessa nei vetri; se chiudo gli occhi, non smette di scorrere, interamente coperta di scintillanti blocchi di ghiaccio azzurrognolo. Non posso non seguire i rimorchiatori che disegnano sagome grigie con la prua incrostata; non guardare come il fiume cede alla nostra riva i blocchi di ghiaccio superflui: li costringe a sollevarsi contro la sponda, li spinge più in alto, facendoli scricchiolare, li dimentica tra gli steli secchi delle canne. Con riluttanza osservo le cornacchie che pare abbiano un appuntamento a Stade: una dopo l'altra si levano in volo da Wedel, da Finkenwerder e da Hahnòfer-Sand, si ricongiungono sopra la nostra isola formando uno stormo, si alzano, piegano ad angolo retto finché, di colpo, si abbandonano al vento favorevole che le getta su Stade. Mi distrae il vincheto nodoso: invetriato, cosparso di brina asciutta come cipria. La rete metallica bianca, le officine, i cartelli sulla spiaggia, le zolle gelate dell'ortaglia che in primavera noi stessi coltiviamo sotto la sorveglianza dei guardiani: tutto, persino il sole, mi distrae, il sole che, come offuscato da un vetro opalescente, manda lunghe ombre cuneiformi. E nonostante tutto, ora starei per iniziare se il mio sguardo non cadesse irresistibilmente sul vecchio pontone d'approdo, trattenuto da catene, dove attracca il tozzo vaporetto di Amburgo sfavillante di ottoni, sbarcando ogni settimana fino a milleduecento psicologi che si interessano con zelo davvero patologico di ragazzi disadattati. Non posso non guardare quando salgono il tortuoso sentiero tracciato nella sabbia, quando vengono condotti nell'edifìcio azzurro della direzione e, dopo i consueti saluti e le eventuali esortazioni alla cautela e alla discrezione, si riversano fuori impazienti, sciamano apparentemente senza alcuna meta per la nostra isola, e si avvicinano ai miei amici: a Pelle Kastner o a Eddi Sillus o all'irascibile Kurt Nickel. Si interessano tanto a noi forse perché la direzione ha calcolato che i ragazzi rieducati sulla nostra isola, una volta dimessi, hanno l'ottanta per cento di probabilità di non incorrere più nella legge. Se Joswig non mi avesse rinchiuso qui per via del castigo, inseguirebbero certamente anche me, osserverebbero il mio curriculum vitae attraverso la lente d'ingrandimento della loro esperienza scientifica e si sforzerebbero di farsi un'idea sul mio conto.

Ma io devo recuperare le due ore di tedesco, devo consegnare il compito atteso da uno smilzo e pavido dottor Korbjuhn e dal nostro direttore Himpel. A Hahnòfer–Sand, l'isola vicina, che pure si trova in direzione di Twielenfleth Wischhafen, discendendo l'Elba, e che ospita come la nostra ragazzi disadattati, la cosa non sarebbe successa. In realtà le due isole sono molto simili tra loro: entrambe investite dalla stessa acqua inquinata di petrolio, entrambe meta degli stessi gabbiani; eppure a Hahnòfer–Sand non ci sono dottori Korbjuhn né lezioni di tedesco né componimenti che per la maggior parte dei ragazzi sono in verità un tormento addirittura fisico. Per questo motivo molti di noi preferirebbero venire rieducati a Hahnòfer–Sand, dove le navi che vanno al mare passano prima e dove il crepitio della lacera fiamma della raffineria saluta in continuazione.

Sull'isola sorella, è certo, non avrei dovuto scrivere un tema per castigo perché là non può capitare quel che è capitato da noi. Qui è bastato che un individuo smilzo, profumato di brillantina, sia entrato in aula con fare korbjuhnico, ci abbia squadrati sprezzantemente e timorosamente a un tempo, si sia fatto augurare il "buon giorno signore", e senza preavviso, senza avvertimento, abbia distribuito i quaderni dei temi. Non ha detto nulla. Semplicemente, direi quasi, godendo della cosa, è andato alla lavagna, ha preso il gesso, ha alzato una mano insignificante e, mentre la manica gli scivolava fino al gomito scoprendo un braccio secco, giallognolo, vecchio per lo meno di cent'anni, ha scritto sulla lavagna il tema con la sua scrittura prona, obliqua: l'obliquità dell'ipocrisia. Era intitolato: "Le gioie del dovere". Spaventato, gettai uno sguardo alla classe, vidi solo schiene curve, visi sconvolti. Poi udii un bisbiglio che passava di banco in banco, piedi che scalpicciavano, piani di banchi trafìtti dai sospiri. Ole Plòtz, il mio vicino, mosse le labbra carnose, lesse il titolo a mezza voce e si preparò alle sue convulsioni. Charlie Friedlànder, sufficientemente esperto nella tecnica di farsi bianco o verdognolo a piacimento, di apparire in ogni caso malato in modo preoccupante tanto che gli educatori lo esentano spontaneamente da qualsiasi lavoro, Charlie - dico — stava già esplicando la sua arte respiratoria: ancora non era impallidito, nè si era valso della provata collaborazione della carotide per imperlarsi di sudore il labbro superiore e la fronte. Io tolsi dalla tasca lo specchietto, lo angolai in direzione della finestra, captai qualche raggio di sole e diressi il riflesso contro la lavagna. Allora il dottor Korbjuhn si girò spaventato, raggiunse con due passi la sicurezza della cattedra e di là ci ordinò di cominciare. Il suo braccio secco si levò in alto una seconda volta, l'indice additò con prepotente fissità il tema: "Le gioie del dovere", e al fine di evitare ogni domanda Korbjuhn disse in tono perentorio: Ciascuno può scrivere quel che vuole; soltanto, il tema deve riguardare le gioie del dovere.

Ritengo immeritato il mio castigo, che prevede simultaneamente la reclusione e il temporaneo divieto di ricevere visite. Non mi fanno infatti pagare per il fallimento della memoria o della fantasia; piuttosto mi hanno imposto questo isolamento perché, ricercando docilmente i piaceri del dovere, mi sono improvvisamente trovato ad avere troppo da raccontare, ad avere, per lo meno, tante cose da dire che, per quanti sforzi facessi, non sono riuscito a incominciare. Poiché le gioie che il dottor Korbjuhn si augurava di vedere da noi individuate, descritte e assaporate, o in ogni caso dimostrate in maniera inequivocabile, non erano gioie qualunque ma quelle del dovere, non mi poteva apparire altri che mio padre, Jens Ole Jepsen, con l'uniforme, la bicicletta, il cannocchiale, la mantella impermeabile, la sua figura veleggiante sul coronamento della diga, sospinta dal pervicace vento dell'ovest. E sotto lo sguardo ammonitore del dottor Korbjuhn, mio padre mi si presentò subito alla memoria: era primavera, forse autunno, no, una scura giornata d'estate con un vento fresco. Spinse la sua bicicletta giù sulla stretta strada ammattonata, si fermò come sempre sotto il cartello con la scritta "Stazione di polizia di Rugbiill", sistemò i pedali nella desiderata posizione di partenza tenendo sollevata la ruota posteriore, come sempre acquistò con due spinte lo slancio necessario per balzare in sella, e beccheggiando dapprima, irrigidendosi, gonfiandosi come un pallone per il vento di ponente, percorse un tratto di strada in direzione della Husumer Chaussee, che porta a Heide e Amburgo. Allo stagno voltò e, ormai con il vento di fianco, proseguì lungo il fossato grigio talpa, passando come sempre davanti al mulino privo di pale e dirigendosi verso la diga. Dopo il ponte di legno smontò e spinse la bicicletta su per la diga panciuta; giunto là sopra, dinanzi al vuoto dell'orizzonte, acquistò un inatteso rilievo. Con un balzo fu nuovamente in sella: solitario veliero, veleggiò ora con la sua mantella turgida - gonfia, quasi dovesse esplodere - sul colmo della diga, alla volta di Bleekenwarf; come sempre, alla volta di Bleekenwarf. Mai dimenticava il suo incarico: quando il vento di ponente spingeva le corvette oltre il cielo dello Schleswig–Holstein, mio padre era fuori; nelle balzane primavere, sotto la pioggia; nelle domeniche fosche; di mattina e di sera; in pace e in guerra, inforcava la bicicletta per pedalare nel vicolo cieco della sua missione che lo portava sempre e soltanto a Bleekenwarf, a Bleekenwarf nei secoli dei secoli, amen.

Questa immagine, come ho detto, questo faticoso viaggio che la guardia della polizia distrettuale di Rugbiill - la stazione di polizia più a nord della Germania - compiva con monotona frequenza, si presentò subito spontaneamente alla mia memoria e, per meglio adempiere i desideri del dottor Korbjuhn, a quell'immagine mi feci mentalmente più vicino: mi annodai una sciarpa intorno al collo, mi lasciai sistemare sul portapacchi della bicicletta di servizio e, come tante volte era capitato, me ne andai con mio padre a Bleekenwarf, come tante volte era capitato mi aggrappai con le dita intirizzite al suo cinturone, mentre le dure asticciole del portapacchi mi producevano chiazze rosse sulle cosce. Andai con lui e subito ci vidi procedere insieme sulla diga contro lo sfondo delle immancabili nuvole della sera. Sentii le raffiche di vento provenire libere e fustiganti dal deserto delle dune sabbiose e da lontano ci vidi barcollare sotto la sferza di quelle stesse folate e udii mio padre gemere sotto lo sforzo: non disperato o furente a causa del vento, ma soltanto per disciplina, e, mi pareva, con tacita soddisfazione. Seguendo le dune e il cupo mare invernale, giungemmo a Bleekenwarf, che io conoscevo meglio di ogni altra proprietà, eccettuati il vecchio mulino in rovina e la nostra casa. Vidi Bleekenwarf stendersi sul sudicio zoccolo di terra, la vidi fiancheggiata dagli ontani con le cime strigliate e piegate a oriente, mi trasferii quindi davanti all'oscillante cancello di legno, lo aprii e guardai con attenzione: la casa, la stalla, il granaio e lo studio, dove Max Ludwig Nansen, come tante altre volte mi era capitato, mi salutò con la mano, astuto e scherzosamente minaccioso.

A quel tempo gli avevano proibito di dipingere, e mio padre, la guardia della stazione di polizia di Rugbiill, aveva il compito di controllare che l'ordine fosse rispettato, a qualsiasi ora del giorno e in qualsiasi stagione; doveva (per ricordare anche questo particolare) impedire qualsiasi idea e realizzazione di nuovi quadri, nonché le indesiderate infrazioni circa la luce: nella sua veste di poliziotto, doveva insomma curare che a Bleekenwarf non si dipingesse più. Mio padre e Max Ludwig Nansen si conoscevano da tempo, credo fin dall'infanzia. Entrambi nati a Gliiserup, sapevano che cosa dovevano aspettarsi l'uno dall'altro e forse anche quali rischi incombevano su di loro: sapevano cioè fino a che punto avrebbero dovuto temersi se la situazione si fosse prolungata.

Pohe immagini sono conservate con tanta cura nello scrigno della mia memoria, come gli incontri tra mio padre e Max Ludwig Nansen. Per questo ho aperto fiducioso il quaderno, mi sono messo vicino lo specchietto tascabile e ho cercato di descrivere i viaggi di mio padre a Bleekenwarf, no, non solo i viaggi ma tutti i pretesti e le trappole che escogitava per Nansen, gli stratagemmi semplici e complicati, i piani suggeritigli dalla sua lenta diffidenza, 1 trucchi, gli inganni e, poiché il dottor Korbjuhn se lo era augurato, anche le gioie derivate dall'esercizio del dovere. Non mi riuscì, non ce la feci. Incominciai daccapo più volte. Spedii mio padre sulla diga con e senza mantella, con il vento e con la bonaccia, di mercoledì e di sabato: tutto inutile. C'era troppo rumore, troppo movimento, e una disgustosa vitalità: ancor prima che giungesse a Bleekenwarf lo persi di vista, perché tra i gabbiani era scoppiata una sommossa, perché un vecchio barcone di torba si era rovesciato con tutto il suo carico, o perché un paracadute svolazzava sulle dune.

Ma soprattutto, in primo piano correva una piccola fiamma ardita: consumò nella mia memoria tutte le immagini e i fatti capitati, li fuse e li bruciò; e i ricordi che non raggiungeva, li accartocciava o li inceneriva o ancora, qualunque cosa succedesse, li nascondeva sotto il tremolio della brace.

Così provai dall'altra parte: mi pensai già giunto a Bleekenwarf per iniziare di là, e con i suoi occhi grigi e lo sguardo astuto mi si offrì, ad aiutarmi nel filtrare i ricordi Max Ludwig Nansen. Attrasse su di sé il mio sguardo e per farmi cosa gradita uscì dallo studio, attraversò il giardinetto e raggiunse le zinnie che tante volte aveva dipinto. Salì sulla diga, dove il cielo si dipinse di un giallo pesante, ferito, interrotto da squarci di azzurro intenso, sollevò il cannocchiale e per un secondo guardò in direzione di Rugbiill; quella rapida occhiata bastò per farlo correre in casa a nascondersi. Avevo quasi trovato l'inizio, ma ecco la finestra si spalancò e Ditte, la moglie di Max Ludwig Nansen, mi porse un pezzo di torta spolverata di zucchero a velo. Semplicemente, accadevano troppe cose insieme. Udii cantare una scolaresca a Bleekenwarf, rividi una piccola fiamma, sentii i rumori che mio padre faceva quando partiva di notte. Jutta e Jobst, i ragazzi forestieri, mi sorpresero nel canneto. Qualcuno gettò dei colori in una pozza d'acqua che prese a brillare di un drammatico arancione. Un ministro parlò a Bleekenwarf. Mio padre fece il saluto. Grandi automobili con targhe straniere si fermarono a Bleekenwarf. Mio padre fece il saluto. Sognai nel vecchio mulino, nel nascondiglio dove si trovavano i quadri: mio padre teneva una fiamma al guinzaglio, slacciò il collare e ordinò alla fiamma: Cerca!

Ogni cosa si intrecciò, si sovrappose e si confuse sempre più, finché a un tratto mi colpì lo sguardo ammonitore di Korbjuhn. Allora, radunando le mie ultime forze, pulii la landa della mia memoria solcata da fossati, ne eliminai le immagini secondarie per avere dinanzi soltanto quelle limpide e facilmente riproducibili: e particolarmente mio padre e le gioie del dovere. Ci ero riuscito e avevo già quasi allineato sotto la diga tutte le persone importanti in formazione di parata, già stavo per farle sfilare dinanzi a me, quando Ole Plòtz, il mio vicino, lanciò un grido e, scosso da convulsioni perfettamente imitate, si lasciò cadere dal banco. Il grido mozzò tutti i miei ricordi e non potei più incominciare: quando il dottor Korbjuhn raccolse i quaderni, consegnai il mio con le pagine pulite.

Julius Korbjuhn non capiva le mie difficoltà. Non credeva che l'inizio fosse stato per me un vero tormento; non riusciva semplicemente a immaginare che l'ancora del ricordo non pescasse, ma tendesse la catena sferragliando e rumoreggiando, sollevando magari fanghiglia, arando sul profondo fondale, senza consentire quella pace, quella tregua, necessarie per gettare la rete sul passato.

L'insegnante di tedesco, dopo avere sfogliato con aria sorpresa il mio quaderno, mi chiamò, mi squadrò leggermente schifato e tuttavia manifestando sincere preoccupazioni, mi chiese una spiegazione e non si ritenne soddisfatto delle mie parole. Dubitò della buona volontà della mia memoria e della mia fantasia, confutò che l'inizio avesse potuto causarmi tutto quel disagio e disse soltanto: Non dai affatto questa impressione, Siggi Jepsen. Più volte ripetè che le pagine vuote erano un attacco alla sua persona. Invece di credermi fiutò contestazione, ostilità, eccetera eccetera, e poiché in tali situazioni è il direttore a essere competente, dopo la lezione di tedesco che mi aveva procurato soltanto il dolore di ricordi folli, sfocati e in ogni caso slegati, Korbjuhn mi condusse nell'edificio azzurro della direzione, situato di fronte, dove, al primo piano, vicino alla scala, si trova l'ufficio del direttore.

Himpel, il direttore, come sempre in giacca a vento e calzoni alla zuava, era al centro di circa trentadue psicologi, intenti con interesse quasi fanatico ai problemi della criminalità giovanile. Sulla sua scrivania, accanto a una caffettiera azzurra, erano sparpagliati fogli unti di carta da musica, zeppi alcuni delle sue frettolose composizioni ispirate al paesaggio: brevi canti nei quali figuravano l'Elba, il vento carico di salmastro, le avene marine curve ma tenaci, i lucenti voli dei gabbiani, nonché fazzoletti svolazzanti e l'insistente grido delle sirene antinebbia. Il nostro coro è stato prescelto per tenere a battesimo tutti i suoi canti.

Quando entrammo, gli psicologi ammutolirono e ascoltarono ciò che il dottor Korbjuhn doveva comunicare al direttore, comunicazione trasmessa a bassa voce, nella quale tuttavia riuscii a sentire più volte parole come contestazione e ostilità: a lampante dimostrazione, Korbjuhn porse al direttore il mio quaderno dei temi ancora vuoto. Il direttore scambiò un'occhiata ansiosa con gli psicologi, si avvicinò a me, arrotolò il quaderno e se lo batté sul polso, quindi sui calzoni alla zuava, pretendendo una spiegazione. Vidi volti tesi, udii alle mie spalle un debole schiocco - Korbjuhn che si tirava le dita - e soffrii per quel loro modo esasperante di aspettare. Dalla finestra d'angolo - davanti c'era un pianoforte - guardai l'Elba e notai due cornacchie che, volando, si disputavano una cosa molle, penzolante, forse un pezzo di intestini: se la strappavano a vicenda, la ingurgitavano, la vomitavano, finché cadde su un lastrone di ghiaccio dove un vigile gabbiano la acchiappò. Il direttore mi posò una mano sulla spalla, mi fece un cenno quasi cameratesco e mi pregò nuovamente di dare una spiegazione, lì, davanti agli psicologi. Raccontai allora il mio tormento: come mi fossero subito venute in mente le cose più importanti sul tema assegnato, ma come poi si fossero sfocate senza che io riuscissi a trovare il piano d'appoggio per trasferirmi lentamente nel ricordo. Gli raccontai dei numerosi volti, di quella incredibile folla, di quei movimenti che mi attraversavano la memoria imputridendo ogni inizio e vanificando ogni tentativo. Non dimenticai di ricordare che mio padre assaporava continuamente le gioie del dovere, sicché io, per chiarirle, dovevo descriverle per intero senza alcun taglio, senza effettuare scelte arbitrarie.

Sorpreso e forse anche comprensivo, il direttore ascoltò il mio racconto mentre i dottori in psicologia parlottavano, avanzavano sempre più verso il centro della stanza scambiandosi gomitate d'intesa; concitati, osavano definizioni appena sussurrate, quali "difetto percettivo di Wartenburg", "illusioni mnemoniche" e persino - cosa che trovai particolarmente disgustosa - "blocco cognitivo". In questo modo ero bell'e sistemato, eccetera eccetera. In ogni caso, alla presenza di quella gente che voleva analizzarmi a tutti i costi, io mi rifiutai di dare altre spiegazioni: il tempo passato su quest'isola mi ha insegnato abbastanza.

Pensieroso, il direttore ritirò la mano dalla mia spalla, la ispezionò con sguardo critico, forse la esaminò per vedere se fosse ancora completa, quindi, seguito dalla spietata attenzione dei suoi ospiti, si girò verso la finestra, guardò un istante l'inverno calato su Amburgo e vi cercò slancio e consiglio: di colpo si voltò verso di me e tenendo gli occhi abbassati mi annunciò il suo verdetto. Sarei stato condotto, disse, nella mia cella in "decoroso isolamento" - sono parole sue - e non già per espiare una colpa, ma per capire da solo, indisturbato, che bisogna scrivere i componimenti di tedesco. Mi diede dunque una chance.

Spiegò che sarei stato tenuto lontano da qualsiasi distrazione, come ad esempio dalle visite di mia sorella Hilke; solo temporaneamente, avrei dovuto rinunciare alle mie mansioni nella fabbrica di scope o nella biblioteca dell'isola. Soprattutto mi promise di evitarmi ogni turbamento, e si attendeva che scrivessi il mio compito, benché in ritardo; la razione di cibo sarebbe rimasta inalterata. Puoi tranquillamente impiegare tutto il tempo che ti è necessario, disse. Con calma avrei dovuto cercare, aggiunse, tutte le gioie del dovere. Penso, sottolineò ancora, che dovrai fare cautamente gocciolare e crescere ogni particolare come una stalattite o altro, perché il ricordo può anche essere una trappola, un pericolo, tanto più che il tempo non guarisce proprio nulla. Gli psicologi ascoltarono attenti, ma lui mi strinse la mano in modo cameratesco. Stringere mani: in questo ha davvero una grande esperienza. Fece poi chiamare Joswig, il nostro amato sorvegliante, lo mise a parte della sua deliberazione e disse press'a poco: Solitudine, Siggi non ha bisogno d'altro se non di tempo e di solitudine: badi che ne abbia in abbondanza.

Consegnò a Joswig il mio quaderno vuoto, e in questo modo fummo entrambi congedati. A passi lenti attraversammo il piazzale ghiacciato: Joswig rattristato e risentito come se io, con la condanna a quel castigo, gli avessi procurato una personale delusione. Quest'uomo, che non sa più entusiasmarsi di nulla se non della sua raccolta di monete e dei canti del nostro coro, mentre mi conduceva nella cella, offeso, si chiuse in se stesso. Io lo presi per il braccio e lo pregai di trattarmi, se possibile, in tono meno risentito. Non si soffermò sulla mia preghiera, ma si limitò a dire: Pensa, disse, a Philipp Neff. Con queste parole mi avvertiva indirettamente di non seguire l'esempio di Philipp Neff, un ragazzo senza un occhio che, come me, era stato condannato a scrivere un componimento di tedesco. Per due giorni e due notti - son cose che è possibile ricostruire - il ragazzo deve essersi sforzato di trovare l'inizio, un motivo valido; si trattava, per quel che so, di un tema di Korbjuhn intitolato: "Una persona che mi ha colpito". Il terzo giorno prese a pugni uno dei sorveglianti, evase e, con un gesto non ancora dimenticato da noi, strozzò il cane del direttore. Riuscì a fuggire fino alla spiaggia ma nel tentativo di attraversare a nuoto l'Elba - era il mese di settembre annegò. L'unica parola che Philipp Neff, tragica dimostrazione dello sciagurato metodo di Korbjuhn, aveva scritto e lasciato nel suo quaderno, era: porro; questo lasciava supporre che lo avesse particolarmente colpito un uomo con un'escrescenza carnosa.

Philipp Neff era stato il mio predecessore nella cella che mi fu assegnata al mio arrivo sull'isola dei ragazzi disadattati. E quando Joswig mi ricordò la sua fine avvertendomi di non seguirne l'esempio, mi sentii afferrare da un'angoscia sconosciuta, da una dolprosa impazienza: raggiunsi affannosamente il tavolo e subito il suo ricordo mi fece paura. Volevo sedermi sulla vecchia orma e temevo di non riuscire a ritrovarla, indugiavo e mi impegnavo, tentennavo e desideravo, volevo e non volevo, e la conseguenza fu che guardai con apatia Joswig mentre perquisiva la mia stanza; no, non soltanto la perquisiva, ma la apriva alla punizione. Da quasi un giorno sono seduto qui e forse avrei già cominciato se, a distrarmi, non risalissero il fiume invernale le navi, di cui si sente il suono prima che sia possibile vederle: le annuncia il debole rimbombo delle macchine, poi l'urto e il rumore dei blocchi di ghiaccio che, scheggiandosi, si spostano roteando intorno alla fiancata gelata; e mentre il beccheggio si fa più forte, più definibile, escono umide e vibranti dal grigio plumbeo dell'orizzonte — fenomeno aereo più che acqueo - con i loro colori pallidi, sbiaditi. Devo recepirle con lo sguardo e accompagnarle finché passano e scompaiono. Con le ruote di poppa, i parapetti e gli sfiatatoi incrostati di ghiaccio, le sovrastrutture invetriate e le ordinate ricoperte di brina, le navi scivolano attraverso tanta rigidità. Si lasciano dietro un ampio e irregolare taglio nel ghiaccio, una fenditura che corre tortuosa incontro all'orizzonte, stringendosi e allargandosi. E la luce: della luce sull'Elba, in inverno, non ci si può fidare; il grigio cupo diventa bianco candido, il violetto non rimane violetto, il rosso rinuncia al suo complemento, e dalla parte di Amburgo il cielo è tutto chiazzato come per contusioni.

Sull'altra sponda, dalla quale mi giunge l'eco di un fioco martellio, si distende una stretta striscia di nebbia sporca: mi pare una bandiera spiegata, di garza. Più vicino a me, sopra il centro del fiume, è sospeso il denso fumo del piccolo rompighiaccio Emmy Guspel che un'ora fa ha furiosamente arato con la prua il campo di ghiaccio scintillante di riflessi azzurrognoli. La nube allungata, caliginosa, non vuole abbassarsi, non vuole sciogliersi perché il gelo è entrato in sciopero e per questo molte mansioni rimangono inadempiute; persino il respiro è visibile a lungo. La Emmy Guspel è già passata ansimando due volte: deve infatti mantenere il ghiaccio in movimento, deve impedire che si formi un ingorgo di blocchi, un tappo di ghiaccio nel fiume che potrebbe provocare una trombosi commerciale.

Sotto, sulla spiaggia deserta, i cartelli sono storti; i lastroni di ghiaccio si sono sfregati contro i pali e li hanno smossi, la piena ha premuto e il vento li ha lentamente inclinati sicché ora gli sportivi, ai quali soprattutto è destinato l'avvertimento, dovrebbero tenere la testa obliqua per leggere che è proibito approdare, attraccare e campeggiare sulla nostra isola. Per l'estate, è certo, quelli dell'amministrazione li raddrizzeranno. Sono infatti soprattutto gli sportivi che possono compromettere la rieducazione dei giovani prigionieri sull'isola: tale è l'opinione del direttore e tale è anche - lo si può esperimentare a proprie spese l'opinione del suo cane.

Soltanto nelle nostre officine il ritmo non si è allentato né interrotto: perché qui ci vogliono far conoscere i vantaggi del lavoro. Hanno persino scoperto un valore educativo nel lavoro e procurano che non ci sia mai silenzio: il sussurro delle dinamo nell'officina elettrica, il tan–tan dei martelli in azione nella fucina, l'aspro stridio delle pialle nella falegnameria e lo sbatacchiare e grattare nella nostra fabbrica di scope non smettono mai, fanno dimenticare l'inverno, e a me ricordano che devo ancora cominciare il mio compito. Bisogna che inizi.

Il tavolo è pulito, vecchio, ricoperto di incisioni che stanno annerendo: iniziali spigolose e date, segni che ricordano un attimo di amarezza, di speranza, ma anche di caparbietà. Il quaderno è aperto davanti a me, pronto ad accogliere il tema che devo scrivere per castigo. Ora non posso più permettermi distrazioni, devo cominciare, devo girare la chiave per aprire finalmente lo scrigno della memoria dove sono rinchiusi i ricordi e prenderne ogni fatto che soddisfi la richiesta di Korbjuhn: devo confermargli le gioie del dovere, seguirne tranquillamente gli effetti che giungono sino a me, ossia al castigo, e continuare finché non avrò trovato la dimostrazione. Sono pronto. E dovendo andare avanti, tornerò indietro, farò una scelta, cercherò un luogo, forse proprio la stazione di polizia di Rugbiill o, piuttosto, la pianura dello Schleswig–Holstein tra la Husumer Chaussee, Gliiserup e la diga, territorio che per me è intersecato da una sola strada, quella che da Rugbiill porta a Bleekenwarf. Anche a costo di far risuscitare il passato, devo cominciare. Dunque.