La malattia
Fermarlo, fermare Okko Brodersen e chiedergli se per caso nella sua borsa… una lettera, se per caso non si potesse… per risparmiargli la strada, eccetera eccetera: non ne valeva la pena. Il portalettere senza un braccio che sedeva rigido, con la schiena inarcata, in sella alla sua bicicletta, insisteva sempre per recapitare la posta dentro casa o al massimo sulla porta di casa. Accompagnava la consegna con allusioni, si capisce, e talvolta con ammonimenti: la effettuava comunque in modo personalissimo, quasi sapesse sulla lettera più del destinatario stesso. Non si aveva proprio la sensazione che avesse scritto lui stesso tutte le lettere, ma che fosse stato presente mentre venivano scritte, questo sì: osservandolo mentre recapitava la posta non si poteva non giungere a tale supposizione. Il modo con cui batteva la mano sulla lettera e sapeva sventolarla! No, chi lo conosceva non lo fermava per chiedergli se avesse posta: lo lasciava proseguire oppure lo rincorreva, come facevo io, fin sul cortile, fin davanti alla porta di casa.
C'è qualcosa per noi? Appoggiò il suo borsone sulla sella, lo aprì, passò il pollice sulla costa delle lettere strette l'una contro l'altra, e le lettere si piegarono rivelando gli indirizzi. Per noi niente? Solo una lettera di formato grande, busta marroncina, scrittura a stampatello, niente mittente. Non c'è il mittente, disse Okko Brodersen, annuendo con aria pensierosa; forse stava pensando di trattenerla, ma alla fine me la porse e indicando la casa disse: Sbrigati, portala dentro e di' al tuo vecchio che in futuro deve accettare solo lettere con il nome del mittente. Sarà fatto. Non salutò andandosene, ma semplicemente scese sulla strada ammattonata e si avviò in direzione di Holmsenwarf.
Mio padre stava pulendo le scarpe. Una volta alla settimana puliva tutte le scarpe che riusciva a scovare. Le portava in cucina, le radunava su due file abbastanza regolari e le sottoponeva a tre procedimenti: spolverare, dare la crema, lustrare. Fui costretto a mettere la lettera sul tavolo. Il poliziotto la guardò continuando a lucidare uno stivale con uno straccio di lana, alzò le spalle e si voltò. Ma subito lanciò una seconda occhiata, più lunga della prima, come se qualcosa, tardivamente, lo avesse colpito. Stava per voltarsi di nuovo ma la curiosità - era interessante osservare come affiorasse sul volto di mio padre - era ormai troppo grande: cercò il mittente, depose lo stivale e il panno, strappò la busta, lesse rimanendo in piedi, diede l'impressione di non capire, si lasciò cadere sulla panca, continuò a leggere da seduto, confrontò, tenne qualcosa controluce, diede l'impressione di continuare a non capire, mi guardò costernato e gridò: La mamma, vai a chiamare la mamma! Che venga giù! Muoviti!
Bussai alla camera da letto di Gudrun Jepsen pregandola di scendere. Lasciai che mi precedesse ma la superai sulla scala riuscendo a vedere il suo ingresso in cucina: visibilmente di malumore e tuttavia paziente, si fermò davanti al tavolo tremando di freddo nella vestaglia. Mio padre non si accorse di lei. O forse la notò, ma prima di passarle la lettera preferì procurarsi un'ultima conferma continuando a leggere. Mia madre aspettava, mio padre leggeva. Lei si rese conto che gli riusciva difficile venire a capo di quella lettera. Mio padre girò il foglio sul tavolo e proseguì nella lettura tenendo la testa di lato. A un tratto le passò la lettera e la busta, balzò in piedi e la afferrò per le spalle costringendola, con dolcezza ma con decisione, a sedersi. Rimase in piedi alle sue spalle mentre mia madre cominciò a leggere.
Era tranquillo? Non poteva stare tranquillo. Ripeteva: Leggi, o: Guarda, o: Noti qualcosa? oppure: Ti si riempiono gli occhi di lacrime. Lei non lo ascoltava, non si lasciava spronare. Anche lei girò il foglio sul tavolo, alzò la testa, guardò davanti a sé verso i fornelli, tentò di dire qualcosa ma non riuscì a parlare.
Per un istante preferirei lasciarli soli nel loro sbalordimento e, mentre annaspano per trovare l'aria e le parole, vorrei finalmente spiegare che cosa aveva scatenato quella lettera in casa nostra. La lettera, come ho detto, era senza mittente. La busta grande conteneva una pagina strappata da una rivista. Una riproduzione di un quadro ricopriva quasi interamente la pagina: La danzatrice sulle onde. Sullo stretto margine del foglio era stato scritto in stampatello: Badate alla somiglianza, ne vale la pena. Era un quadro di Max Ludwig Nansen. Chi danzava era Hilke. Danzava tra onde piatte che si rovesciavano contro una spiaggia accecante, sotto un cielo rosso. Danzava con i capelli sciolti e una gonna corta a righe; pareva che i seni le dessero fastidio ballando, e lei abbassava un braccio per premerlo contro i seni: sul suo viso buttato all'indietro si era diffusa un'espressione di sdegno e di grande stanchezza. Danzava con le onde, contro le onde, e tuttavia il ritmo delle onde determinava il ritmo della sua danza che la allontanava sempre più dalla spiaggia, la spingeva sul mare, al largo, dove avrebbe avuto termine. Dunque la danzatrice sulle onde era Hilke, mia sorella. Il nome? Ovviamente il nome mancava sia sulla busta sia sul foglio. Il timbro postale? La lettera era stata imbucata a Glùserup.
Che dici? disse mio padre tamburellando la riproduzione con il dorso della mano. È lei, non mi lascio infinocchiare. È Hilke, e quel che una cosa del genere significa lo sappiamo tutti. La riconosco, disse mia madre. Chiunque la riconosce, disse mio padre. Si è fatta vedere nuda da lui, disse mia madre. Gli si è offerta, disse mio padre. Nessun orgoglio, disse mia madre. Nessun pudore, disse mio padre. Osservando la riproduzione del quadro avevano sempre altre cose da aggiungere, altri particolari da elencare, e il fattore che più pesava nelle loro considerazioni era evidentemente l'offesa che Hilke gli aveva arrecato. Non riuscivano a smetterla di compiangersi, di dolersi, e l'amarezza che sfogavano su Hilke si traduceva in altrettanta compassione verso se stessi. Come ha potuto farci una cosa simile! Come ha potuto metterci in questa situazione! Ma adesso dove si è cacciata!
Mio padre uscì sul corridoio, chiamò Hilke, rimase in ascolto, la chiamò un'altra volta, e quando la porta della stanza di Hilke si aprì tornò rapido in cucina. Si cercò un posto d'effetto, un posto possibilmente rialzato da terra, e non trovando niente di adatto si decise per l'estremità del tavolo di cucina: la aspettò ritto, le gambe divaricate, tenendo sollevato, non senza fatica, il viso asciutto. Che c'è? chiese Hilke, e vedendo le nostre facce aggiunse in tono più basso: Ma che è successo?
Esitando, entrò in cucina. Incerta e insieme timorosa scrutò i nostri occhi senza tuttavia riuscire a trovare una conferma. Giunse le mani e se le strofinò. Ma che cosa avete? Che cosa vi ho fatto? Si riunì i capelli sulla nuca e se li legò. Si inumidì le labbra. La guardia della stazione di polizia di Rugbiill lasciò che Hilke si dimenasse come lasciava sempre che tutte le sue vittime si dimenassero in un primo momento; come sempre aspettò prima di rivelare la ragione, godendo dell'insicurezza che suscitava con il suo calcolato silenzio. E ogni tanto pensavo - o per lo meno lo penso oggi - che quel suo calcolato silenzio rappresentasse già una parte della punizione proprio perché deliberatamente teneva nascosta l'accusa e non offriva nessuna possibilità di difesa alla vittima.
Hilke gli si avvicinò e allargò le braccia come supplicando. Lui continuò a tacere. Su, parla! Finalmente mia sorella colse il mio sguardo, lo seguì, e io portai la sua attenzione sul tavolo di cucina e sulla lettera. In piedi dietro a mia madre, Hilke fissò il quadro per lunghi istanti, troppo lunghi mi parve. Non osava sollevare la pagina. Ah, è questo! Adesso so la ragione! Fece un gesto con la mano e sorrise amaramente. Intendeva minimizzare la cosa: Se questa è la ragione! Trasse un sospiro di sollievo e si staccò dal tavolo. Disse: È stato molto tempo fa, per lo meno la primavera scorsa o press'a poco, e veramente si attese un'espressione di generale sollievo o se non altro che l'atmosfera si distendesse.
Mia madre fissava immobile il disegno della tela incerata che ricopriva il tavolo. Mio padre guardava da molto lontano, guardava la lettera dall'alto. Be', disse Hilke, se è tutto qui… La danzatrice sulle onde, disse, mio Dio, che avete contro questo quadro? Aveva bisogno di una modella e mi considerò abbastanza adatta: altro non è successo. Solo una volta. Una volta sola. La danzatrice sulle onde. Se vi agitate tanto vi dico che è come andare dal medico, aggiunse, e si sentì definitivamente assolta. I suoi movimenti si fecero più sciolti.
Dunque è vero, disse mio padre in tono inespressivo, quello che sostengono è dunque vero: tu ti sei mostrata nuda a lui e ti sei fatta guardare dimostrando fino a che punto arriva il tuo orgoglio. Hilke si voltò e lo guardò stupita: Orgoglio? Perché orgoglio? Tu se non sbaglio vivi sempre con noi, disse mio padre con occhi ancora più piccoli, e sai benissimo che cosa è successo negli ultimi anni tra me e lui. Ma sono cose passate, disse Hilke, quel tempo è finito. Torcendo la bocca in una smorfia di disprezzo mio padre disse: Se le cose sono arrivate al punto in cui sono arrivate non possono più cambiare. Comunque questa è un'altra faccenda: noi parliamo di te, di te in questo quadro: forse non capisci che cosa è accaduto.
Mi assomiglia, disse Hilke, la danzatrice sulle onde mi assomiglia, è vero. E mio padre: Sei riconoscibile e non solo ai nostri occhi. Questo ce l'ha spedito non so chi. Non c'è mittente. E come è capitato a quella persona, potrebbe succedere a chiunque guardando la riproduzione. Non hai bisogno di chiederti che cosa uno pensi riconoscendoti. Se almeno fosse stato un altro a fare questo quadro, ma è stato lui. Lui con le sue leggi. Con la sua presunzione. Lui con il suo disprezzo per chiunque compia il proprio dovere. Allora non hai mai sentito che cosa dicono in giro su lui e me.
Lentamente Hilke si mosse verso la finestra e lì si fermò abbassando la testa. Si vedeva benissimo che da quel momento non sarebbe più riuscita a rispondere. Mio padre non la seguì con lo sguardo, e con gli occhi fissi nel punto in cui si trovava prima mia sorella, disse: Pensa al male che ti hai fatto. Istintivamente guardai mia madre. Mia madre si mosse, si risvegliò dal suo indolente torpore, si rizzò e a bassa voce disse: Terribile, poi: Terribile, a che gradino sei scesa! Quella morbosità straniera. L'ossessione. L'ebbrezza. E che cosa ha fatto del tuo corpo! Il fianco fiammeggiante. Le cosce inarcate. E la tua faccia: non puoi certamente essere d'accordo con la faccia che ti ha dato. Un'offesa, disse mio padre, e mia madre: Finora non aveva mai offeso nessuno che avesse dipinto, nemmeno te. Una zingara forse balla così. Sì, disse mio padre, una zingara. Ha fatto di te una zingara. E una vergogna, disse mia madre, e il poliziotto: Sai almeno quel che dovrai fare? C'è una cosa sola da fare: questo quadro, questo quadro non deve più esistere né per volere tuo né nostro. Tu hai contribuito perché venisse fatto, disse mio padre, e adesso puoi solo contribuire a farlo scomparire, non deve essere poi tanto difficile.
Hilke si aggrappò a uno sgabello, si mise a sedere goffamente, come provvisoriamente, si guardò il palmo delle mani e di colpo vi nascose la faccia: cominciò a gemere e a singhiozzare. Chi non la conosceva avrebbe sicuramente pensato che in quel momento le fosse venuto il singulto. Noi invece sapevamo che piangeva. Ci hai capiti? disse mio padre. Ci hai capiti? Il quadro deve scomparire. Hilke non lasciò intendere se avesse capito o meno: il suo busto oscillava come se cercasse un punto di resistenza, come se cercasse qualcosa a cui appoggiarsi. Puoi pretenderlo, disse mia madre, ne hai il diritto: quei quadro non deve essere visto da chiunque. Con questo quadro ti ha screditata, disse mio padre, e tu, solo tu, puoi cambiare la realtà.
Con quale prontezza e facilità si alternavano parlando! L'uno ribadiva o spiegava le parole dell'altra quasi si fossero precedentemente allenati, e proprio perché non si rivolgevano direttamente a Hilke ma facevano le loro constatazioni, esprimevano le loro accuse e richieste, quasi scavalcandola, sfiorandola, si aveva l'impressione che si fossero già scambiati le proprie opinioni e che non pensassero tanto alla parte avuta da Hilke quanto a ciò che era in gioco per loro. Si integravano. Si davano la replica. Si caricavano a vicenda mentre mia sorella pareva quasi abituarsi al pianto, ne ritrovava la modulazione giusta, regolare, interrotta solo da qualche singhiozzo. Nessuno la invitò a calmarsi. Nessuno si accertò se avesse capito che cosa pretendevano da lei. Continuarono a influenzarla, a sottoporla al loro speciale trattamento, ma a un certo punto il telefono chiamò il poliziotto nel suo ufficio. Allora anche mia madre si alzò e lasciò la cucina. No: prima di salire di sopra si accostò a Hilke, le appoggiò il palmo della mano sulla spalla, premette leggermente e uscì.
Ma come potevo tranquillizzare Hilke? Imitai mia madre, appoggiai il palmo della mano sulla spalla di mia sorella e gliela massaggiai leggermente, battei, tamburellai negligentemente le dita sulla clavicola al ritmo di Con me sei bella, senza eccessivo interesse devo ammettere perché la mia attenzione era ovviamente assorbita da mio padre che parlava al telefono. Confermò ruggendo con aria marziale di essere la guardia della stazione di polizia di Rugbiill, di avere il numero due zero due e di essere in persona all'apparecchio.
Incidente stradale! C'era stato un incidente… Sulla Husumer Chaussee c'era stato un incidente… Un carro del latte e una bicicletta… Cioè una Mercedes e un carro e trentotto morti… Capito, modulo trentotto… Se un collega di Glùserup… Dunque due feriti, be' la cosa è diversa… All'incrocio dopo il podere Sòllring, sì… Capito.
Appese il ricevitore. In corridoio si infilò la giacca della divisa e si allacciò il cinturone. Lo vidi nello specchio afferrare il blocco in pelle chiara dei verbali, mettersi il berretto e abbottonarsi le tasche della giacca. Si fermò davanti alla porta, ci guardò senza abbandonarsi a rimproveri o avvertimenti, tese l'orecchio in direzione delle camere da letto e gridò: Ciao! Allora uscì. Nessuna parola, nemmeno un gesto riassuntivo.
Che cosa potevo fare con Hilke? Tentai di sollevarla e non ci riuscii. Tentai di staccarle le mani dal viso e non ce la feci. Vieni, dissi, vieni, ti porto in camera tua, lì ti puoi sdraiare e puoi riflettere in santa pace. Scosse la testa. Sussurrò: Non andartene, resta ancora un poco, e io: Sì, ma solo se vieni, se vieni in camera tua. Dopo qualche istante si alzò a fatica. Mi diede la mano. Guidai Hilke, che continuava a piangere e si premeva l'altra mano sulla faccia, in corridoio e poi nella sua stretta stanza. Avvertii i delicati sussulti del suo corpo mentre piangeva, e dissi: Smettila, Hilke, smettila di piangere, non ne vale la pena. La feci sedere sul letto. Sedetti vicino a lei e con cautela riuscii a staccarle la mano dal viso arrossato e umido.
Allora mi domandò se anch'io avessi sempre voglia di andarmene da quella casa e io dissi: Sì. E allora mi disse che molte volte era stata sul punto di andarsene e se aveva resistito lo aveva fatto per me. E poi disse: Preferirei farla finita, e allora io dissi: Bene, porterò dei fiori al tuo funerale, dei rosolacci. E allora mi domandò perché quella casa fosse così estranea e ostile e se mi sentissi compreso. E io dissi: No, e le domandai chi li avesse inventati, e lei chiese: Chi? E io dissi: La guardia della stazione di polizia di Rugbiill e sua moglie. E allora lei mi domandò se non potevamo andarcene insieme, magari ad Amburgo dove per me c'erano diverse possibilità, e io dissi: Perché no? E lei allora disse: Ma come posso togliere di mezzo il quadro, e io dissi: Non c'è niente da fare. E lei allora domandò: Ma che importanza ha se lui ti guarda, e io dissi che la cosa non aveva alcuna importanza. E allora lei chiese che cosa dovesse fare e io dissi: Non so. E allora domandai se aveva già sentito la notizia e lei chiese: Quale notizia? E io dissi: Che Klaas ha vinto un premio in un concorso fotografico, e lei disse: No.
All'improvviso si lasciò cadere sul letto, si voltò di fianco e ritrasse le gambe e mi diede l'impressione di udire qualcosa: stava con il fiato sospeso. Disfeci il nastro che le tratteneva i capelli. E allora lei disse: Addi è tornato ad Amburgo, e io dissi: Sì. E allora mi chiese se al suo posto avrei sposato Addi e io dissi: Se è inevitabile. E allora lei disse: Tutto sarebbe diverso se non ci fossero loro, e io dissi: Dovremmo barattarli. E allora lei chiese: Chi? e io dissi: La guardia della stazione di polizia di Rugbiill e sua moglie. E lei disse: Non puoi dire queste cose, e io domandai: Ma tu non lo vorresti? E lei allora: Sì.
Camminò in su e in giù per la stanza, tranquillizzandosi a poco a poco. Poi si sdraiò in una posizione più comoda, in ogni caso più naturale, e io le sfilai le scarpe e le tirai su la coperta, per quanto mi era possibile. Ma Hilke non voleva restare sdraiata sul letto e tanto meno sotto la coperta: voleva del pane, una fetta di pane con marmellata di prugne; giudicando questo suo desiderio un buon segno le promisi di andare nella dispensa a prendergliela.
Ma non arrivai fin nella dispensa perché nel vestibolo, sotto il suo largo cappello, le mani affondate nelle tasche e un viso che subito mi interrogò con severa impazienza, c'era Max Ludwig Nansen. Era agitatissimo. Bastava guardarlo per capire quanto gli costasse ormai venire da noi. Non sorrise, non mi diede uno dei suoi soliti buffetti di incoraggiamento ma: labbra strette, mento sporgente, spalle rigide per la tensione. Insomma bisognava prepararsi a qualcosa di grave. Innanzi tutto si trattava di resistere al suo sguardo e a quel suo modo esigente di starmi davanti. Allora: Dov'è il quadro? Tiralo fuori, voglio portarmelo via. Quadro? chiesi, di quale quadro parli? Non cianciare, non fìngere, ma tiralo fuori. Sai benissimo a che cosa alludo: alla danzatrice sulle onde. Non c'è più? No, è scomparso, e io sono venuto qui a riprenderlo, tanto per intenderci. E così? Non ho preso il quadro. Devo mettermi a cercare? Puoi frugare dappertutto, qui non c'è. Ascolta bene, Siggi: tu sei stato l'ultimo a venire a Bleekenwarf. Se non tiri fuori il quadro. So per quale ragione lo hai preso, ma io devo assolutamente riaverlo. Per questo sono venuto fin qui. Qui non c'è, davvero. Si vedrà, disse il pittore. Mi afferrò per il polso e mi trascinò su per le scale fino in camera mia. È questa? Sì. Allora apri.
Prese possesso della mia stanza e la sottopose a una minuziosa perquisizione. Risoluto avanzò fino al centro, si chinò e si mise a frugare procedendo all'inizio circolarmente per non tralasciare nessun angolo. Io mi appoggiai contro la finestra e lo osservai. Perquisì lo scaffale, sollevò la carta nautica dal tavolo, ispezionò con diffidenza il letto. Accompagnai i suoi tentativi di scoprire nell'innocente cassetta cose che questa non poteva sicuramente contenere, se non altro per le sue dimensioni. Alla fine si inginocchiò e indagò persino sotto il tappeto fatto con i rimasugli di stoffa. Non era ancora soddisfatto. Era così sicuro dei suoi sospetti che dopo aver frugato in lungo e in largo nella mia stanza mi venne vicino, mi scrollò chiedendo ritmicamente: Dove–dove-dove, dov'è il quadro. E io allora, non meno ritmicamente, risposi: Non lo so–non lo so. Lo hai preso tu! No, io non ce l'ho. L'hai visto in pericolo e volevi metterlo al sicuro. No, quello no, non la danzatrice sulle onde. Allora è stato uno di voi: se non tu uno di voi si è portato via il quadro. Mi afferrò per il petto stringendo un lembo della camicia: una rotazione e con la sua mano dura e grande mi trasse a sé, sollevandomi leggermente, e mi guardò negli occhi. Ripetè la sua vecchia accusa e anche questa volta si sentì il mio no. Riuscii a sopportare sia la sua presa sia il suo sguardo; mentre mi teneva stretto e mi fissava pensai addirittura: ma chi sta spaccando la legna. Perché nella nostra conversazione si era inserita una scure al lavoro tra il cortile e il capannone. Mio padre naturalmente! Era arrivato troppo tardi sul luogo della disgrazia e gli infortunati erano per così dire spariti: poiché da settimane la catasta lo chiamava al suo dovere si era finalmente messo a spaccare la legna: legna di scarto proveniente dalla segheria di Gliiserup.
Il pittore osservò mio padre sollevando lo sguardo, adagio adagio allentò la presa, mi spinse da un lato, e raggiunse la porta. Scese le scale. Nel vestibolo, prima di uscire, si accese la pipa. Con una certa solennità scese i gradini di pietra e si diresse verso il capannone aspirando brevi boccate. Mio padre non aveva visto nulla o non voleva aver visto nulla: spaccava la legna con attenzione, con accanimento quasi. Con cura metteva sulla pietica i corti pezzi usciti dalla segheria, indietreggiava, prendeva la misura mentre sollevava la scure, e senza impiegare tutta la sua forza, ma come se si limitasse ad accompagnarla, la lasciava cadere. La scure sibilava sul ciocco di legno. Calcolava così bene il colpo che talvolta i due pezzi rimanevano sulla pietica; successivamente li scostava con il dorso della mano. Ma su, deciditi ad alzare la testa! Da parecchio doveva essersi accorto del pittore che si era fermato davanti al ceppo. Non poteva non aver visto le sue scarpe e l'orlo del suo cappotto, mentre si chinava per raccogliere un altro pezzo di legna; eppure continuava a comportarsi come se fosse sempre solo in cortile. Io pensai: Vediamo un po' fin quando il pittore resiste ad aspettare. Certo che sono specialisti dalle nostre parti nel fingere di non vedere, e di chi rinuncia, cede, capitola, dicono subito: quello ha perso. Mio padre guidava la scure, lasciava che affondasse la lama nel legno, la vecchia scure con il manico cosparso di macchie di sangue di piccione. Il pittore non si muoveva, fumava e lo guardava con i suoi piccoli occhi. Qualcosa non mutava forse? Sì, mio padre lavorava con più slancio e accanimento e non aspettava per prendere le misure. Insomma ammetteva qualcosa.
Potrei lasciarli in questo tacito confronto per otto giorni; sarebbe una storia che avrebbe comunque la sua spiegazione. A un certo punto però dovrei confessare che fu il pittore a raccogliere un pezzo di legna schizzato via e a ributtarlo sul mucchio. Disse: Non aver fretta. Ti aspetto finché hai finito. Mio padre non disse niente. Come imbarazzato esaminò l'affilatura della scure passando il pollice inumidito di saliva sulla lama, quindi riprese il lavoro. Fece affondare l'attrezzo in un legno nodoso che non si spaccò al primo colpo ma sobbalzò più volte insieme alla scure imprigionandone la lama: il poliziotto fu costretto a impiegare tutta la sua forza per spaccare quel ceppo. Un altro pezzo volò ai piedi del pittore e un'altra volta lui lo raccattò e lo buttò sul mucchio. Disse: Ogni cosa al proprio posto. Non ebbe risposta e rimase in piedi nello stesso punto. Benché deciso a non muoversi, dava l'impressione di essere abbastanza sconcertato e di sentirsi in un certo senso superfluo, quasi disturbasse. Se ne rese conto e alla fine capì che dipendeva da lui prendere l'iniziativa per arrivare dove voleva. Si avvicinò a mio padre, i pollici infilati nelle tasche del pastrano. Si mise semplicemente al fianco del poliziotto e disse in tono sprezzante: Si può avere un'informazione, oppure? Il poliziotto spaccò un pezzo di legno tondo, tutto scheggiato tanto era secco, conficcò la scure nella pietica, la estrasse subito e la usò come appoggio. Appoggiato al manico della scure, distogliendo lo sguardo, attese la domanda.
Il pittore rinunciò a ogni preambolo e subito chiese la restituzione del quadro. Dopo qualche attimo di attonita riflessione il poliziotto alzò le spalle e in tono sprezzante rispose di non sapere a che cosa alludesse; rilasciava sempre una ricevuta quando requisiva qualcosa. Chiese quindi di poter vedere la relativa quietanza. Solo allora guardò il pittore. Con voce paziente e tuttavia pressante il pittore ripetè che uno dei suoi quadri era scomparso: si trattava della Danzatrice sulle onde. Era venuto nella ferma convinzione di trovarlo a Rugbiill e di poterselo riportare a casa.
Mio padre rifletté per qualche istante, poi domandò al pittore se gli fosse chiara la gravità dell'imputazione che gli aveva rivolto, eccetera eccetera, perché dalle sue parole sembrava che fosse stato lui, un poliziotto, ad aver sottratto il quadro. Al che il pittore invitò mio padre a ricordarsi meglio: non era passato molto tempo da quando poteva requisire quel che voleva. I quadri del periodo del divieto. Li aveva sequestrati tutti. E non solo: anche dopo che gli artefici del divieto se l'erano data a gambe aveva continuato ad agire nel loro spirito: aveva incamerato, distrutto, bruciato, in ogni caso aveva eseguito ciecamente e ottusamente gli ordini ricevuti. Non se lo ricordava? Non sapeva più quante volte per servizio aveva ciondolato in quel di Bleekenwarf? Aveva pur diritto di porre domande dopo quanto era successo! Mio padre rimase in ascolto, poi alzò la scure con una mano; il manico di legno pareva il prolungamento del suo braccio proteso in avanti. Il suo braccio non tremava: calmo indicava la strada sottostante. Mio padre voleva sapere se avesse finito e se non volesse piuttosto andarsene; quel che dovevano dirsi se l'erano già detto negli anni passati.
Riusciva a capire benissimo, disse il pittore, che il poliziotto avesse mandato a spasso la sua memoria. Era pronto ad andarsene, aggiunse, ma prima desiderava fargli presente una cosa: il tempo in cui gli avevano proibito di dipingere era definitivamente tramontato e quel che allora forse sembrava un dovere, adesso andava chiamato con un altro nome. Aveva solo voluto rammentarglielo e soprattutto desiderava dirgli - una volta per tutte e con la dovuta chiarezza - che rispetto al passato era mutato qualcosa: adesso non doveva più aspettare e stare fermo, e non avrebbe più aspettato né sarebbe stato fermo.
Mio padre abbassò la scure sulla pietica e ostentando faticosamente un certo disprezzo si informò se fosse una minaccia e se per caso non pensasse di liquidarlo. Per l'esattezza disse: abbatterlo. Semplicemente, disse il pittore, non intendeva avere più riguardi, le cose erano cambiate, il tempo in cui aveva avuto dei riguardi era finito. Anche per lui, disse mio padre, quel tempo era finito e capiva di essersi fatto troppi scrupoli nell'eseguire gli ordini, a giudicare per lo meno dal fatto che erano ancora lì, tutti e due, a parlare Se avesse eseguito gli ordini alla lettera e senza darsi pensiero, in quel momento non si sarebbero trovati lì insieme: Di questo forse non ti sei accorto.
Si era accorto di molte cose, disse il pittore; se non altro aveva capito di quale malattia si trattava: la malattia del dovere. Avrebbe fatto qualunque cosa per combatterla; era quanto si aspettavano le vittime, aggiunse, le vittime del dovere. Mio padre chiese se dopo quelle parole avesse finito. Aveva da lavorare, aggiunse, e la sua bocca espresse un disprezzo che anche il pittore non potè non avvertire. Poi si chinò per prendere un pezzo di legno, lo appoggiò con cura sulla pietica, sollevò la scure e la abbassò: non aveva quel quadro, disse, e se lo avesse avuto ci avrebbe pensato tre volte prima di restituirglielo perché in definitiva la cosa lo riguardava abbastanza da vicino. Colpì quindi reggendo la scure con entrambe le mani: i due pezzi di legno volarono via e la scure si conficcò rimbombando nella pietica. Il pittore parve avere ormai appreso quello che voleva sapere. Tuttavia non se ne andò, voleva sincerarsi ancora di una cosa; se si fossero capiti sotto ogni riguardo. Che cosa avrebbe significato per il poliziotto di Rugbiill se…? Doveva ripeterglielo, che per nessuna ragione…
Anche se non era lui a volerlo, ogni sua frase suonava come una minaccia. Non potevo più sentirlo parlare in quel tono con il poliziotto che aveva ripreso a lavorare accanitamente. Camminando a ritroso tornai in casa e vidi mio padre alzare la scure e indicare un'altra volta la strada sottostante. Salii all'indietro anche le scale e avvertii sensazioni di caldo e freddo percorrermi il corpo; provavo delle fìtte, una tensione e pressione dolorosa contro le tempie, e quando arrivai in camera mia dovetti massaggiarmi lo stomaco. Erano sempre vicino al capannone? Erano sempre là sotto, e il pittore si era voltato a metà come fosse sul punto di andarsene. Impegolatosi ormai in quel discorso, voleva evidentemente sfogarsi, dire tutto: le sue delusioni, la rabbia accumulata in tanto tempo, i suoi giudizi e avvertimenti. Mio padre di tanto in tanto rispondeva, poneva a sua volta una domanda o guardava il suo avversario con un lento stupore, direi persino con un disprezzo controllato. Chi era superiore? Non avrei saputo dire chi fosse superiore, quella volta vicino al capannone.
Finalmente Max Ludwig Nansen se ne andò e io non feci nulla per trattenerlo. Avrei preferito che accelerasse il passo e quando sulla strada ammattonata si fermò indeciso pensai: Vai, vattene! Nel vestibolo c'era silenzio. Hilke non si faceva sentire, probabilmente era andata a prendersi lei stessa le fette di pane e la marmellata di prugne. Dalla camera da letto giungeva invece un lamento monotono, un rumore per me noto e tranquillizzante, un ritmo che mia madre riusciva a sostenere senza fatica per parecchie ore. Slegai la funicella della botola del solaio: una tirata e la botola si aprì; un'altra tirata e scese la scaletta brevettata che ci aveva procurato Hinnerk Timmsen. Come nel mulino ritirai la scala dopo essere salito e richiusi la botola. Calmo, mi ordinai di restare calmo. Tanti possibili ripostigli! Tanti nascondigli per un essere umano! Nessuno mi avrebbe trovato!
Lassù salivano una sola volta all'anno per riporre le cose dalle quali non riuscivano a separarsi, e gli Jepsen non riuscivano a separarsi nemmeno dall'oggetto più inutilizzabile. Vecchi materassi, divani sfondati, ceste per la biancheria, tavoli da cucina, sedie scollate, pile di modelli di carta, libri e valigie con le serrature che non scattavano più: tutto portavano in soffitta per affidarlo all'oscurità e a una silenziosa rovina. E quelle cose non venivano sistemate con un certo ordine o accatastate ma semplicemente buttate le une sopra le altre così come veniva, abbandonate alla bell'e meglio. Là il camino con le tracce d'unto. Là un armadio semichiuso. Là la finestrina storta che nessuno aveva mai aperto.
Mi sfilai le scarpe, avanzai con circospezione fino alla finestrella e passai sotto all'intelaiatura. Dal cortile giungevano i colpi della scure e il rumore della legna che si scheggiava. Ecco la mia cassetta. Era coperta con fogli di carta e vecchi sacchi e circondata da telai di sedie rotte. Rimossi la mimetizzazione e tolsi parecchi fogli di carta oleata. Sollevai il coperchio e mi sedetti. Rivedendo la mia nuova collezione e trovandola intatta, la tensione cedette e la pressione contro le tempie diminuì.
Tolsi la danzatrice sulle onde e la appoggiai sul bordo della cassetta. La luce filtrava dall'alto e Hilke ballava per me tra le piccole onde increspate: insospettatamente, sotto quel cielo rosso, con i capelli sciolti, cominciò ad avere importanza, inaspettatamente mi parve importante conoscerla con la sua gonna a righe e i seni a punta, quella Hilke che continuava a danzare nonostante la stanchezza, a danzare da sola davanti a una spiaggia accecante. Nessuno, nessuno avrebbe mai visto quel quadro, era deciso ormai, e anche gli altri quadri li avrei visti solo io: avevo imparato la lezione, l'avevo esperimentata su me stesso e sapevo di che cosa avessi bisogno per sopravvivere. Sentii bussare.
Quando sentii bussare la prima volta pensai: non può essere nessun altro se non la guardia della stazione di polizia di Rugbiill che batte il manico della scure contro la pietica per fissarla, ma il rumore era lì nella mia cella. Giungeva dalla porta e non era un battito timido come quello di Joswig, ma un colpo secco e disperato - un modo di bussare che mi annunciava non solo la visita di Wolfgang Mackenroth ma anche nuove spiacevoli notizie sulla sua situazione.
In quel modo, direi, bussa solo chi crede di avere il diritto di smerciare la propria miseria.
Lentamente mi voltai verso la porta: stava entrando proprio in quel momento con l'impermeabile aperto. Non attese che la porta venisse richiusa alle sue spalle ma si precipitò su di me senza pensare: come devo comportarmi nei confronti di un ragazzo disadattato che per di più è il soggetto della mia tesi di specializzazione?
Merda, disse, tanta merda in una sola volta, Siggi, non l'ho mai vista. Posso sedermi? Un colpo distratto sulla mia spalla, quindi il giovane psicologo sedette sul letto e per alcuni istanti mi offrì la vista di un uomo non solo infelice ma in procinto di annegare nell'infelicità. Che gli era capitato ancora? Prima di tutto le sigarette: cinque pacchetti di cui due di Hilke. Mi lanciò un pacchetto e infilò gli altri sotto la coperta del letto. Con aria rassegnata disegnò un ampio semicerchio che poteva voler dire: è finita, è la fine, oppure: il mondo non andrà mai come vorremmo. Con un gesto abile rovesciò una stretta scatoletta di latta sul dorso della mano facendone uscire due pastiglie giallastre che raccolse con la lingua e deglutì senza sforzo.
Il lavoro? chiesi. La mia padrona di casa, disse. Balzò in piedi e a passi rapidi misurò la cella dalla finestra alla porta. Si batté le mani sulla fronte, compì alcuni movimenti ginnici che evidentemente avrebbero dovuto rilassarlo e all'improvviso si lanciò di spalle contro la porta sospirando, sicché da un momento all'altro mi aspettai di vedere gli occhi di Joswig dietro allo spioncino. Si fermò accanto al mio tavolo. Dunque la sua padrona di casa, la campionessa di asse d'equilibrio per la Germania settentrionale. Wolfgang Mackenroth rise amaramente. La sua padrona aspettava un figlio che poteva essere suo come del marito, manovratore di gru: incertezza che lo angustiava, mentre pareva non tormentasse la donna. Lei infatti non desiderava altro che un figlio. Mackenroth però aveva insistito perché fosse suo figlio. Capisci. L'aveva costretta a tornare indietro con la memoria, e lei aveva ricordato e aveva scosso la testa. L'aveva invitata a fare i conti, e lei aveva fatto i conti e aveva alzato le spalle indecisa. Capisci, Siggi, essere un po' padre, per metà nella migliore delle ipotesi. Gli diedi ragione e gli proposi di continuare ad abitare con quella famiglia finché il bambino fosse stato in grado di scegliersi da solo il padre, date le possibilità di scelta. Ma non lo credi nemmeno tu. Si voltò, mosse il collo come svitandoselo dalle spalle, si soffiò sul polso sinistro quasi dovesse rinfrescarlo. Provati a scrivere in una situazione del genere, Siggi. Ecco.
Wolfgang Mackenroth posò alcuni fogli scritti sul tavolo, un nuovo capitolo della sua tesi di specializzazione, corretto con furia, si vedeva bene. Devi considerarlo solo un abbozzo, ciò nonostante vorrei pregarti. Appiattì con la mano i fogli, macchiati e persino strappati in diversi punti e disse: Non so, ma per scrivere queste cose bisogna avere la mente libera, non bisogna avere preoccupazioni. Come va a te?
Esattamente l'opposto, dissi. Quante più preoccupazioni, tanto meglio. E non bisogna augurarsi affatto di essere sano, libero e senza problemi perché non si avrebbero che delusioni. Si riprese nuovamente il manoscritto e mi chiese se poteva leggermelo. No. Solo alcune pagine. No. Mi pregò allora di pensare, leggendolo, alla sua disperata situazione. No. Perché no? Non ci sono scusanti, dissi, e per un attimo sperai che si riprendesse il capitolo non ancora finito. Ma quello psicologo, imprevedibile com'era, me lo passò di nuovo e ripetè una frase che doveva aver letto non so dove: solo da ciò che è malriuscito si può imparare qualcosa, o giù di lì. Suppongo che si aspettasse altro da me, maggiore partecipazione, maggiore adesione e incoraggiamento, ma io non potevo e non potrò mai finché porterà al collo quella catenina d'oro: forse vi aveva appeso un medaglione e forse nel medaglione c'era la fotografìa della sua padrona di casa che sorrideva in bilico sull'asse di equilibrio. Odio gli uomini che portano la catenina d'oro. Solo questo potevo fare per lui: dichiararmi pronto a leggere il manoscritto. E dopo avergli fatto quella dichiarazione ripresi in mano la stilografica: non gli rimase altro da fare che congedarsi. Depresso come solo lui riusciva a essere.
Non volevo leggere, almeno non prima di cena. Qualcosa mi riportava a Rugbùll, nel solaio, vicino alla mia cassetta e alla mia collezione che avevo iniziato per un nuovo presentimento. Ma quanto più li respingevo tanto più quei fogli scritti diventavano urgenti: mi bloccavano la strada impedendomi di tornare indietro, mi oscuravano la memoria. Così li afferrai, mi accesi una sigaretta e cominciai a leggere.
Fino a che punto mi aveva manipolato, triturato e cucinato? Dove mi aveva steccato con i suoi spilli? E quale aspetto offrivo dopo essere stato per così dire imbottito, asciugato e in ogni caso scientificamente trattato?
Dunque: Arte e criminalità, eccetera eccetera, cose che già sappiamo. Ma che capitolo è? Capitolo numero quattro. E il titolo? "D. Forme e istanze di una ossessione parziale". A matita era stato aggiunto: titolo provvisorio. Wolfgang Mackenroth scriveva:
Le precoci sofferenze di Siggi J. e il suo rapporto anormale con il mondo esterno possono essere compresi solo se visti in relazione ai rapporti tra il pittore Max Ludwig Nansen e il padre, guardia della stazione di polizia di Rugbull. Il poliziotto fu incaricato di controllare il rispetto dell'ordine che vietava al pittore di dipingere, e la cosa, che inizialmente rappresentava un compito di ordinaria amministrazione anche se eccezionale nel suo contenuto, si trasformò con il tempo, in seguito a fatti precisi ma sicuramente anche per ragioni di ordine caratteriologico, in una sorta di idea fissa. Il controllo del rispetto di tale ordine diventò per lui una questione personale e continuò a esserlo anche quando il tempo del divieto finì per naturale conclusione.
Veramente non poteva dirlo in modo più chiaro.
Quest'idea fìssa del padre, il quale possedeva anche il dono della cosiddetta seconda vista - nella regione si dice a questo proposito "avere le visioni" - produsse nel fanciullo una vera e propria ossessione generata dalla paura. L'inizio di quest'incubo può essere datato con esattezza. Di una strana mania di collezionista che non conosce remore di ordine morale e sulla quale avremo occasione di soffermarci anche in seguito, è già stato detto in precedenza; a questa viene ad aggiungersi l'altra ossessione altrettanto insolita. Si manifestò il giorno in cui un vecchio mulino, dove Siggi J. aveva nascosto la sua collezione, fu divorato dalle fiamme. Per il dolore causato da quella perdita, ma soprattutto supponendo che fosse stato il padre ad appiccare il fuoco al mulino e immaginando che avrebbe potuto provocare altri incendi per compiere quel dovere ormai venuto meno, il ragazzo ebbe vere e proprie allucinazioni. Nello studio del pittore vide delle fiamme che uscivano dal fondo dei quadri: credette che i quadri fossero in pericolo e per salvarli seguì l'irrefrenabile impulso di portarli in un luogo sicuro, senza tuttavia provare il desiderio di appropriarsene. Si tratta piuttosto di un vero e proprio effetto della paura, reazione insolita e originale tanto che parlerò al proposito di fobia di Jepsen. Va ricordato a questo punto che il soggetto in esame era stato assunto dal padre come delatore e che, nel contempo, riceveva dal pittore occasionali incarichi riuscendo talvolta a mettere in salvo dei quadri. Le contraddizioni di ordine affettivo determinate da questo dilemma non furono mai superate. All'inizio le allucinazioni descritte si verificarono raramente e irregolarmente, mentre in un secondo tempo si ripeterono con sempre maggior frequenza e a scadenze prevedibili: avevano luogo automaticamente ogni volta che il giovane Siggi si trovava davanti a un quadro. La sensazione di dolore avvertita dal soggetto in queste occasioni ci autorizza a parlare di crisi.
Quel bisogno ossessivo di dover mettere al sicuro un quadro creduto in pericolo, il ragazzo non lo provava soltanto nella casa del pittore; poteva avvertirlo ovunque: in una scuola, in una banca o in un museo. In realtà il soggetto in esame ha ceduto all'imperativo dettatogli dalla sua ossessione in diversi luoghi, inizialmente a Gliiserup, poi nelle città di Husum, Schleswig e Kiel e da ultimo ad Amburgo. Non c'è dubbio che immaginasse pericoli del tutto fittizi: questo trova conferma nel fatto che non si trattava di quadri messi in vendita. E tuttavia non poteva resistere: accuratamente imballati, i quadri sarebbero rimasti in un luogo sicuro fino al cessato pericolo.
Molto illuminanti per valutare il comportamento patologico del soggetto in esame sono i verbali della polizia criminale di Schleswig e Amburgo. Quando fu colto in flagrante, Siggi J. si difese spiegando che aveva dovuto mettere in salvo dei quadri in pericolo. Come sottolineano gli stessi verbali, il ragazzo si comportò in un modo che faceva pensare a uno stato allucinatorio.
Mackenroth vuole arrivare là a tutti i costi!
In tutti e due i verbali ricorrono parole come dilettantesco e fanatico. Viene inoltre ribadito che non si trattava di furti nel senso tradizionale del termine e che, per altro verso, l'interrogato diede l'impressione di essere un ragazzo a posto e intelligente. È stata del resto questa impressione a risparmiargli allora una denuncia.
A questo punto va ricordato che la paura per la sorte dei quadri non fu l'unica causa del suo comportamento. Altrettanto determinante è stata la passione di collezionare oggetti, passione che affiorò precocemente nel soggetto in esame ma che diventò sempre più forte con il passare del tempo. Secondo gli studi di Bengsch–Giese {L'anticamera della delinquenza, Darmstadt 1924), nell'atto di collezionare interviene un momento di "soddisfazione di tipo istintivo"; il momento del piacere può essere così forte da infrangere i principi della legalità. Più sopra abbiamo ricordato che Siggi j. compì furti per completare le sue collezioni di chiavi e serrature; interrogato sulla liceità delle proprie azioni, il soggetto in esame ha riconosciuto il carattere delittuoso dei suoi atti in quanto ingiustificabili offese al principio di proprietà. Nel caso dei quadri invece Siggi J. non avvertì mai un preciso senso di colpa. Parlò addirittura di predestinazione, ricordando di essere stato prescelto per "collezionare oggetti in pericolo". Nello stesso modo ha spiegato la sua mania di collezionista; da notare che non condivide affatto l'idea secondo la quale il collezionista oppone al disordine del mondo un ordine specifico di natura più o meno estetica. Nella valutazione di questo caso il concetto di predestinazione dovrebbe avere un'importanza determinante. Questo comportamento eccezionale deve beneficiare di norme giuridiche speciali. Va inoltre ricordato come le allucinazioni e il comportamento patologico del ragazzo siano stati considerati troppo tardi una malattia.
Quando in famiglia seppero di quali colpe Siggi si era reso colpevole, decisero che le pene corporali sarebbero state il mezzo più consono per riportare il ragazzo sulla retta via. Il soggetto in esame venne rinchiuso nella sua stanza per giorni e giorni, in sua presenza i familiari non parlarono più e talvolta lo privarono del cibo. Fu inoltre proibito al ragazzo di recarsi nelle città vicine. In quel periodo il suo rendimento scolastico diminuì sensibilmente, ma aumentò subito non appena gli allentarono le punizioni, e gli venne così nuovamente offerta la possibilità di "collezionare le cose che giudicava in pericolo". Deve essere considerato un caso fortuito il fatto che tra i quadri allora messi in salvo ci fossero anche opere d'arte.
Un cambiamento notevole nei rapporti tra padre e figlio intervenne il giorno in cui il poliziotto di Rugbull ricevette l'ordine di recuperare un acquarello di M.L. Nansen scomparso dalla cassa di risparmio di Glùserup. Poiché tutti gli indizi cadevano sul figlio, il poliziotto Jepsen gli tese alcune trappole. Siggi fu scoperto dal padre e nel corso di una violenta discussione protrattasi fino a notte tarda, il soggetto in esame venne ufficialmente cacciato dalla famiglia.
Cacciato va proprio bene: farmi fuori voleva. Disse: Non mi fermerò finché non ti avrò fatto fuori.
E infatti a partire da un certo momento gli sforzi e le scelte professionali della guardia di polizia di Rugbull si concentrarono su Siggi J. L'unico che riconobbe l'aspetto patologico nel comportamento del ragazzo fu il pittore M.L. Nansen; benché costretto a proibirgli di mettere piede nel suo studio, gli dimostrò un illimitato affetto, circostanza che aumentò le cieche persecuzioni del padre.
No, Wolfgang Mackenroth, è stato così e tuttavia non è stato così.
Non potevo continuare a leggere. Troppe cose sono state taciute, troppe cose sono state ridotte a piacevoli paradossi. Mentre mi dichiara colpevole cerca le attenuanti, e io ho bisogno di tutto, ma non di attenuanti. Decisi di restituirgli il capitolo con la raccomandazione di riscriverlo in modo conforme alla mia visione dei fatti. Mi aspettavo una descrizione della malattia e non già un elenco di penose giustificazioni. E sì che ne avevamo parlato a lungo. Comunque gli ho promesso di aiutarlo. Lo aiuterò.