Nascondigli

Ma devo descrivere il mattino. Anche se per ogni ricordo troviamo un significato diverso, devo far nascere un alba lentissima dove un giallo irresistibile lotta contro il grigio e il bruno, devo introdurre un'estate con uno sconfinato orizzonte, con canali e voli di pavoncelle, devo stendere strisce di nebbia attraverso il cielo e far sentire l'eco della sirena di un cutter dietro la diga. Per ricostruire quel preciso mattino devo distribuire alberi, siepi, piatte fattorie prive di pennacchi di fumo, devo scaglionare negligentemente sui prati le vacche pezzate di bianco e nero. In un mattino come questo mi svegliai, fui anzi costretto a svegliarmi perché contro i vetri della mia finestra qualcosa ticchettava, becchettava senza tregua, sempre più impazientemente. Per qualche istante rimasi coricato ad ascoltare i piccoli colpi contro il vetro: pensai a una banda di scriccioli. Poi riconobbi la pioggia, e fu una pioggia scrosciante che pareva sabbia. Con forza i minuscoli granelli battevano conrro il vetro. Mi misi a sedere sul letto e osservai la finestra, ma attraverso il vetro non correva ancora nessuna incrinatura nonostante quegli urti. Poi, dopo alcuni colpi secchi, perfettamente centrati, che riuscivo a sentire ma non a distinguere, vidi il breve mulinello di sabbia avvicinarsi e colpire il vetro producendo un crepitio e un fruscio singolari. Balzai dal letto, corsi alla finestra e fissai quell'alba senza vento. Non si muoveva nulla né sullo sfondo né verso il mezzo del quadro che mi si presentava, sicché immediatamente mi saltò all'occhio un rapido movimento in primo piano: un braccio che si sollevava e richiamava la mia attenzione, là sotto, nel capannone tra la pietica e il ceppo con le sue incisioni profonde. Ma passò qualche attimo prima che io riuscissi a individuare o a riconoscere mio fratello Klaas in uniforme e con la bianca, grossolana fasciatura; o almeno così mi parve. Nessuno, certamente, poteva immaginare di vederselo comparire dinanzi quella mattina alle prime luci dell'alba, senza preavviso: dal giorno in cui si era prodotto da sé quella mutilazione avevamo saputo soltanto che era stato ricoverato nell'ospedale delle carceri di Amburgo e che nessuno di noi poteva fargli visita. A casa non si parlava mai di Klaas, e le due cartoline che ci aveva scritto dall'ospedale dovevano essere rimaste senza risposta.

Klaas uscì dal capannone, mi fece un cenno con la mano e subito si ritirò. Io tornai al mio letto, poi corsi alla porta, origliai e corsi di nuovo verso il letto. Indossai blusa e calzoni, e prima di uscire in corridoio lanciai a Klaas un segnale dalla finestra. Nel corridoio non si avvertiva alcun movimento: dormivano nelle loro lunghe camicie da notte di tela ruvida; sotto pesanti coperte, su lenzuola rigide, grigie, tessute a mano, e al di sopra dei loro volti, dai due quadri appesi l'uno di fronte all'altro, gli unici della stanza, si fissavano ininterrottamente Theodor Storm e Lettow–Vorbeck; il poeta di Husum e il generale parevano non voler attenuare la diffidenza con cui si squadravano da anni. Scesi le scale tenendomi curvo e addossato alla parete: passai così vicino a loro, quindi sfiorai la guardia della stazione di polizia di Rugbiill che era appesa a un attaccapanni nell'armadio dell'ingresso: il silenzio di quella casa pareva incredibile! La chiave della porta era fredda! Lentamente la girai, avvertii la resistenza della molla, ma riuscii infine a far ruotare la chiave senza produrre alcun rumore. La porta, invece, si spalancò con un cigolio. Pensavo già che di sopra, in quel preciso istante, si fosse affacciato mio padre, ma tutto rimase tranquillo. Lentamente uscii fuori. Con cautela richiusi la porta alle mie spalle e di corsa attraversai la corte raggiungendo il capannone: là, accovacciato, c'era veramente Klaas, mio fratello, con i suoi occhi chiari, il viso rotondo e i corti capelli biondi che parevano incollati sulla testa. Il braccio sostenuto dall'ingessatura era appoggiato sul ceppo dove noi spaccavamo la legna, l'uniforme era slacciata intorno al collo; era là, immerso nella sua grande paura, e fu proprio questa grande paura che non solo rese superflua ogni domanda, ma gli fece ammettere tutto: la fuga dall'ospedale delle carceri, gli stratagemmi per sfuggire alle ronde e ai controlli, il viaggio notturno e la peregrinazione finale, quel continuo stare all'erta, quel camminare curvo. La sua paura raccontava tutto di lui.

Non pronunciò nemmeno una parola di saluto, semplicemente mi afferrò per la camicia e mi trasse a sé vicino al ceppo. Da quel punto vedevamo il riquadro della finestra della camera da letto, o, più esattamente, Klaas continuava a guardare in quella direzione mentre io osservavo il suo viso stanco, opaco, la sua divisa inzaccherata di fango e la grossolana ingessatura sulla quale qualcuno, forse lui stesso, aveva spento un mozzicone di sigaretta. Evidentemente stava considerando l'ipotesi che in casa mi avessero sentito e che, dopo avere scoperto il mio letto vuoto, mi cercassero guardando dalla finestra. Ma nessuna tendina si sollevò, non si mosse nessuna ombra. Dopo qualche attimo mio fratello mi costrinse a sedere trascinandomi a terra e con un gemito mi si sedette accanto allargando le gambe e appoggiando la schiena contro la parete del capannone. Gli tremavano le labbra. Aveva freddo per la stanchezza. Sul mento scintillavano radi peli rossastri di barba incolta. Dove ha il berretto, pensai. Non scorgendolo, immaginai un salto durante il quale lo aveva perduto, un salto da un treno merci o un balzo per attraversare un fossato. Con circospezione mi lasciai scivolare in avanti, mi appoggiai sulle ginocchia e lo guardai bene in viso. Aprì gli occhi e disse: Devi nascondermi, piccolo.

Lo aiutai ad alzarsi. Si aggrappò a me. Barcollò, stava per afflosciarsi sulle ginocchia e cadere, ma si riprese e mi sorrise con una leggera esitazione. Chiese: Hai un buon nascondiglio? Sì, risposi, e da quell'istante mi ubbidì sempre.

Accettò che io uscissi dal capannone a fiutare che aria tirasse. Mi guardò un'altra volta ed era disposto a fare o ripetere tutto ciò che io ordinavo o facevo. Corsi fino al vecchio carretto e mi chinai subito. Klaas corse fino al vecchio carretto e si chinò. A salti raggiunsi la strada di mattoni e mi lasciai scivolare giù lungo la scarpata. A salti raggiunse la strada di mattoni e si lasciò scivolare giù lungo la scarpata. Avanti fino alla chiusa. Avanti fino alla chiusa. Io dissi: Dobbiamo attraversare il prato e nasconderci nel canneto. Lui ripete: Nel canneto, bene.

Non domandò dove andassimo e per quanto tempo ancora dovessimo camminare. Mi seguì senza curiosità e senza impazienza. E io, con le braccia protese, le mani giunte a formare un cuneo, mi aprii una pista attraverso le canne e puntai in direzione del vecchio stagno, del mulino diroccato senza più pale, che il vento lasciava in abbandono. Il terreno paludoso pareva molleggiato. Capitava che l'intrico della superfìcie cedesse, e allora il piede affondava e nelle fosse scavate dalle orme sgorgava acqua grigia del color della torba. Stanavamo le anitre selvatiche: dovunque vedevo occhi. Le canne si rizzavano rumorosamente dietro di noi. Le anitre selvatiche si levavano in volo compiendo una breve curva e subito si lasciavano ricadere alle nostre spalle. In quell'alba verde avevo la sensazione di muovermi sul fondo del mare, attraverso foreste di alghe che ondeggiavano mollemente, di avanzare in un silenzio infido. Poi la cintura di canne si diradò: davanti a noi si stendeva lo stagno e, dietro, appoggiato su una ruota arrugginita, si levava il mulino. Qui? chiese mio fratello e io annuii. Gettata una rapida occhiata in tutte le direzioni per assicurarmi di non essere stato scorto, mi arrampicai sulla staccionata di legno e raggiunsi il sentiero selciato che conduceva al mulino.

Come devo presentarlo, il mio mulino? Si ergeva su una collinetta artificiale e, benché mutilo, era fiduciosamente orientato verso ovest. La sommità a forma di cipolla era coperta di ardesia e il torracchione ottagonale di assi di legno, inchiodate l'una all'altra, aveva resistito a ben due fulmini. Nella parte superiore, le finestre aperte e incorniciate da stipiti bianchi erano sventrate. La grande croce delle pale, spezzate in diversi punti, marciva in mezzo all'erba sul lato orientale, tra mole consunte, ruote prive di raggi e ferri di cavallo. La porta tutta fessure non si chiudeva da molto tempo, finché, un giorno, rimossi il pavimento e la risistemai sui cardini. La pioggia, il vento e gli anni avevano fatto crollare la rampa. Nel mio mulino tirava sempre aria, si sentivano scricchiolii, sibili, un gran baccano; quando il vento spirava da ovest, avvolgendolo tutto, il rumore iniziava in alto, nella cupola, e dall'alto cadeva cigolando una carrucola che non trovava pesi da sollevare: venivano frantumati cocci di vetro, e i pipistrelli, simili a pezzi di cartone, volavano via tranquilli sull'aia; al minimo urto, brandelli dell'antico rivestimento in latta ciondolavano sbatacchiando. Scompigliato e danneggiato, decaduto e decorato di cacche secche, il mio mulino era insomma abbandonato a se stesso: nero e inutile, interrompeva il paesaggio tra Rugbull e Bleekenwarf e pareva servisse unicamente a suscitare il nostro stupore con la sua resistenza a tutti gli uragani primaverili, a tutte le tempeste autunnali.

Ma non ci è concesso restare troppo tempo fuori, anche se ben altro ci sarebbe da dire sull'aspetto esteriore del mulino: sulla sua immagine riflessa nell'acqua dello stagno, sulle iniziali di nomi, sulle frecce e i cuori incisi sulla porta. Non abbiamo tempo per un esame più minuzioso perché con il busto chino dobbiamo salire il viottolo e, fiancheggiando la piattaforma sventrata, raggiungere l'ingresso che affonda nella collina artificiale. Klaas stesso, suppongo, non colse inizialmente del mulino che la sagoma nera e rigida, alta sulla pianura. Né aveva bisogno di vedere altro poiché si era affidato a me senza alcuna limitazione e trottava ansimando alle mie spalle. Premeva il braccio ingessato contro il corpo e teneva il viso chino: forse riusciva a vedere solo le mie gambe nude.

Spalancai la porta: lo feci entrare e lo spinsi nel freddo vano della scala richiudendo poi l'uscio. In silenzio, tendemmo l'orecchio verso l'alto ma udimmo solo la sirena di un cutter oltre la diga. Non si sentiva neppure il fruscio dei topi in fuga, che pure si udiva sempre entrando nel mulino. Penetrava uno stretto fascio di luce nitidissima che interrompeva tremolando la penombra. Devo ricordare la corrente d'aria e le vibrazioni della scala di legno, o sono io a immaginare che allora vibrasse? Mio fratello cercò la mia mano e domandò: Qui? Io dissi: Di sopra, di sopra c'è la mia camera. Salimmo nella stanza della macina, dove andai a prendere una scala a pioli che tenevo nascosta dietro le vecchie casse della farina: la accostai alla parete e ci inerpicammo passando attraverso la botola. Tirata nuovamente su la scala, appoggiatala una seconda volta alla parete, raggiungemmo una stanzetta sita quasi direttamente sotto la sommità: la chiamerò la mia camera.

Klaas mi spinse di lato ed entrò per primo. Scoprì subito il giaciglio di canne e sacchi vicino alla finestra ma non si sdraiò, e nemmeno sedette sulla cassetta di arance, sebbene la salita gli avesse preso le ultime forze. Sorridente e insieme stupito si mise a osservare i quadri. Si passò una mano sui capelli e si sfregò gli occhi, ma non per questo mutarono il numero e la natura di tutti quei quadri. Erano soprattutto ritratti di cavalieri: ne avevo tappezzato le pareti della mia camera. Qualche tempo dopo il compleanno del dottor Busbeck avevo cominciato a ritagliare da calendari, giornali illustrati e libri figure di cavalieri. Inizialmente li avevo utilizzati per chiudere le fessure, poi li avevo incollati su tutte le pareti: qui spiccavano i corazzieri di Napoleone, là l'imperatore Carlo V passava a cavallo sul campo di battaglia di Miihlberg, il principe Jusupov in costume tartaro cavalcava un focoso arabo, mentre su un bianco puledro andaluso la regina Isabella di Borbone procedeva incontro alla foschia della sera. Dragoni, cavallerizzi da circo equestre, cacciatori, cavalieri, stavano in sella nelle differenti maniere, si valutavano reciprocamente e chi voleva poteva udire lo scalpitio dei cavalli e i loro nitriti. Ma che è tutto questo? chiese mio fratello. Una mostra, risposi, qui si tiene una mostra.

Divertito e tuttavia afflitto, Klaas annuì, si trascinò verso il giaciglio e si lasciò cadere. Io mi sedetti al suo capezzale e guardai i quadri. Poi osservai mio fratello che aveva chiuso gli occhi e pareva sempre in ascolto: anche nel mulino qualcosa lo inseguiva e non gli dava pace. Non riusciva a rilassarsi, a distendersi completamente: una parte di lui era sempre all'erta; cercava un nascondiglio, si irrigidiva come per spiccare un salto, oppure nascondeva sotto di sé la grossolana ingessatura. Gli appoggiai una mano sul petto. Lui trasalì. Gli asciugai il sudore sulla fronte. Sobbalzò. Solo dopo avergli acceso una sigaretta, si tranquillizzò e ritrasse le gambe sul giaciglio di canne e sacchi, per lui troppo corto. Ti piace il mio nascondiglio? domandai, e mio fratello, fissandomi per alcuni istanti: Se parli, sono spacciato. Nessuno deve saperlo, tanto meno loro… a casa. E un buon nascondiglio, piccolo. Prima d'ora nessuno è venuto qui, dissi. Bene, aggiunse, nessuno deve sapere che sono qui. Ma il babbo, ripresi, il babbo può saperlo: ti aiuterà. E mio fratello, nuovamente circospetto e quasi minaccioso: Bada che ti strozzo, piccolo, ti ammazzo se gli dici qualcosa, hai capito? Mi guardò con i suoi piccoli occhi chiari: si aspettava da me qualcosa di preciso. E all'improvviso mi afferrò, mi buttò a terra vicino al pagliericcio e con il peso della sua paura mi calcò la faccia contro il suolo finché io capii che cosa si aspettava da me e glielo promisi. Allora si lasciò ricadere all'indietro sul giaciglio e mi ordinò di staccare dalla finestra un pezzo di cartone che fungeva da vetro.

E i nostri visi si sono avvicinati, quasi si sono toccati, mentre guardavamo la pianura investita dal sole e la frugavamo e ispezionavamo fino al lontano arco della diga e al faro incappucciato di rosso: simultaneamente abbiamo scorto l'automobile. Giungeva dalla Husumer Chaussee, e sul parabrezza si frangeva il sole. Era una vettura color verde scuro che procedeva lentamente costeggiando lo specchio d'acqua dei fossati brulicanti di riflessi. All'improvviso deviò sulla strada che porta a Rugbiill. Rallentò, ma non si fermò. Scomparve dietro le scarruffate siepi di Holmsenwarf e risbucò quando ormai non me l'aspettavo più. Di nuovo la luce abbagliante prese a rifrangersi dal parabrezza. Alcune mucche si avvicinarono trotterellando al reticolato per aspettarla, ma all'ultimo momento, spaventate, scartarono mostrando la spalla massiccia. La vettura continuò ad avanzare silenziosa e si arrestò sotto il cartello "Stazione di polizia di Rugbiill". Allora un finestrino si abbassò e una testa sbucò di traverso insieme a una spalla avvolta in pelle luccicante. Se desiderava leggere ciò che diceva il cartello, l'uomo che si sporgeva dal finestrino aveva bisogno di molto tempo per decifrare la scritta stinta dalla pioggia e ritoccata già due volte.

Mio fratello mi afferrò il braccio e lo strinse con una eccitazione incontrollata quando le portiere si spalancarono e dalla vettura scesero quattro uomini in cappotto di pelle. Senza ulteriore intesa, quasi scolasticamente - si sa già come — mossero verso la nostra casa da diversi punti, la accerchiarono con abilità, seppure senza eccessivo impegno: quattro uomini con cappotti identici e identici cappelli in testa, e tutti con le mani in tasca. Credo che ci voglia della pratica per distribuire le forze in quel modo e muoversi senza dare nell'occhio. Quelli l'avevano. Uno saltò addirittura la staccionata del giardino.

Oggi so perché Klaas, senza guardarmi e senza allentare la stretta, disse: Fila, piccolo, svelto, corri a casa, e so anche perché non mi diede neppure il tempo di fargli domande ma mi spinse giù verso la botola, insistente e inesorabile: Fila! Disse unicamente questa parola e solo dopo, quando ero già ai piedi della scala a pioli, mi gridò: Da mangiare… quando torni porta qualcosa da mangiare.

Avevo sempre ubbidito a mio fratello Klaas e scesi veloce dalla scala come mi aveva ordinato, la nascosi dietro le casse della farina, raggiunsi a salti, come mi aveva ordinato, il viottolo dello stagno, mi aprii una breccia attraverso la cintura di canne, corsi fino alla chiusa e chinandomi avanzai lungo l'argine del fossato. Giunto al vecchio carretto, potei rizzarmi e muovermi con indifferenza: da quel momento non poteva venirmi contestata più la mia lontananza da casa. Mi avvicinai con noncuranza all'automobile, sempre ferma sotto il cartello segnaletico, la aggirai, con curiosità guardai sul tachimetro la velocità massima, e schiacciai la tromba. Come conseguenza del mio gesto, un tipo basso e tarchiato si precipitò fuori dalla casa e mi afferrò per il colletto. Voleva sapere dove abitassi. Dovevo dirgli che cosa facevo lì fuori al mattino presto. Per rispondere a quella pioggia di domande, gli dissi il mio nome, indicai con la mano la finestra della mia camera e aggiunsi: Io abito lì. Non mi credette. Il tipo tarchiato continuò a tenermi per il colletto della camicia e mi condusse in casa, nell'ufficio di mio padre.

Erano tutti seduti lì. Controluce sedevano tre uomini in cappotto di pelle, e davanti a loro, solo, in pantaloni e maglia, con le bretelle arrotolate sulla spalla, non lavato né sbarbato o pettinato; per farla breve: di fronte alle figure rigide, impeccabili degli uomini in cappotto di pelle, era seduto il responsabile della stazione di polizia di Rugbùll, visibilmente sconcertato, visibilmente svegliato di soprassalto. A me pareva che avesse per lo meno novantacinque anni. Quando gli fu chiesto se fossi suo figlio e facessi parte della famiglia, mi fissò per lunghi istanti e diede in realtà la sensazione di stentare a riconoscermi. Tuttavia, quando gli fu ripetuta la domanda, grazie a Dio rispose con un cenno del capo, appena percettibile, ma rispose. Si allentò allora la morsa intorno al mio collo; il tipo basso e tarchiato mi lasciò, si avvicinò a mio padre, incrociò le braccia dietro la schiena e cominciò a dondolarsi. Si dondolò sulle spesse suole di gomma e strizzando gli occhi da vitello fissò il motto che spiccava entro la cornice appesa sopra la scrivania di mio padre: "Il mattino ha l'oro in bocca". Poiché nessuno mi mandava via, lanciai rapide occhiate tutt'intorno per vedere finalmente l'ufficio dove mio padre mi aveva sempre proibito di metter piede. Non c'era niente che mi interessasse: né il portatimbri con appesi quattro timbri, né la nappa intrecciata di una sciabola da poliziotto che mandava deboli riflessi argentei. Mio padre sedeva insonnolito e rassegnato come se non avesse niente da dire. Teneva le mani appoggiate sulle cosce, il busto rigidissimo perfettamente aderente allo schienale, il mento sollevato, le labbra aperte. Non riusciva a nascondere di essere immerso in un suo pensiero, e tuttavia continuava a osservare con la coda dell'occhio quel giovanotto basso e tarchiato. Con umiliante lentezza il ragazzo guardava infatti le fotografie che ricoprivano per intero la parete al di sopra della scrivania.

Di che parlavano quelle fotografie? Raccontavano di Gluserup, di un'oscura angusta bottega dove un certo Peter Paul Jepsen vendeva pesce fresco; partecipavano che al pescivendolo Jepsen erano nati cinque figli e che uno di loro, un ragazzetto magro, sempre con la stessa asciutta diffidenza verso il fotografo, mostrava una sorprendente somiglianza con la guardia della stazione di polizia di Rugbiill. Le fotografìe raccontavano della gara di velocità nello sgusciare gamberi ingaggiata da due famiglie, raffiguravano il coro dei bambini di Gluserup, ripresi mentre cantavano, con le bocche spalancate in eterno. Poi coglievano lo scolaro Jens Ole Jepsen con il grande cartoccio pieno di dolciumi il primo giorno di scuola, mostravano lo stesso ragazzo in occasione della cresima e lo ritraevano in veste di terzino sinistro della squadra di calcio TUS di Gluserup. Una fotografia ovale ricordava che c'era stato anche un giovane artigliere di nome Jepsen: inginocchiato vicino a un obice come davanti a un altare. In Galizia lo stesso artigliere indossava il cappotto e insieme ad altri commilitoni cantava rivolto all'albero di Natale. Sdraiato a terra, appoggiato sul fianco, faceva parte di una baffuta squadra sportiva anche l'allievo della scuola di polizia Jens Ole Jepsen; sullo sfondo si ergevano minacciosi gli edifici in mattoni della caserma di Amburgo. Poi entrava in scena Gudrun Schessel, e le fotografìe testimoniavano della sua predilezione per gli abiti bianchi e le calze bianche, denunciavano l'impressionante lunghezza delle sue trecce d'un biondo rossiccio che arrivavano quasi alle ginocchia, e confermavano che Gudrun Schessel sapeva leggere: tutte la ritraevano con un libro in mano. Un giorno Jens Ole Jepsen e Gudrun Schessel si incontrarono: lo documentava la fotografia in cui un gruppo di invitati a occhi sbarrati, e se non proprio impalati certamente ritti, attorniavano la coppia levando il calice e augurandole probabilmente una vita felice improntata alla disciplina. Le fotografie autenticavano un primo viaggio della coppia a Berlino e un secondo viaggio in battello sul Reno da Bingen a Colonia. Infine una foto confermava che ai coniugi Jepsen erano nati tre figli: Hilke e Klaas erano perfettamente riconoscibili, mentre io dovevo essere quel mostriciattolo senza capelli nella carrozzina con le ruote spropositate.

Con tutta calma il giovanotto tarchiato osservò le fotografie. Mio padre continuava a rimanere seduto, visibilmente rassegnato; non si mosse neppure quando il visitatore prese il libro dei verbali e diede una scorsa alle ultime registrazioni redatte con una scrittura tutta ghirigori. Gli altri tre stavano seduti e parevano figurine immobili; uno fumava senza mai togliere la sigaretta di bocca. Naturalmente si erano già detti quel che dovevano dirsi. Mi rincantucciai in un angolo e attesi che succedesse qualche cosa: qualcosa doveva pur succedere, ma all'improvviso, senza fare il minimo rumore, entrò nell'ufficio mia madre: abbozzò un cenno al mio indirizzo, mi afferrò per la mano e mi trascinò in cucina. Sul tavolo piccolo era pronta la mia colazione: una densa zuppa di fiocchi di avena con lo zucchero e una fetta di pane ricoperta da uno strato di conserva di rabarbaro. Mangia, disse in tono amorfo, e io mangiai sotto il suo sguardo e notai intanto che non smetteva di tendere l'orecchio dalla parte dell'ufficio. Stanno cercando qualcosa, dissi, e lei: Stai calmo e mangia. Quelli vengono da Husum, certamente, soggiunsi. Nessuno ti ha interrogato, disse mia madre. Poi chiuse la porta della cucina e si versò una tazza di tè che bevve restando in piedi. Domandai: Hanno intenzione di portar via il babbo con l'auto? Mia madre alzò le spalle: Non so, disse piano. Poi appoggiò la tazza e uscì nel corridoio.

Socchiudendo gli occhi guardai lontano, verso il mulino dove Klaas era coricato sul pagliericcio e mi aspettava. Allora aprii la porta della dispensa con il legno tutto enfiato: una brocca di cetrioli in salamoia, una mezza pagnotta, carne secca, cipolle, una ciotola di conserva di rabarbaro non dolcificata, uova crude, un cartoccio di farina, un sacchetto di fiocchi d'avena: altro non riuscii a scoprire. Leccai via la conserva di rabarbaro dalla mia fetta di pane, la spezzai in due e me la ficcai in tasca. Nell'ufficio si sentivano voci. Il tipo tarchiato cominciò a parlare e anche alcuni degli altri presero la parola. Solo mio padre non disse nulla. Mia madre rientrò in cucina, afferrò con precipitazione la sua tazza e se la portò alle labbra. In quell'istante infatti gli uomini uscirono dall'ufficio e passarono nel vestibolo. Si congedarono con una stretta di mano dalla guardia della stazione di polizia di Rugbiill, dal corridoio fissarono anche noi augurandoci buon appetito con gli occhi bovini, eccetera eccetera. Quindi lasciarono esitanti la casa. Non si diressero subito all'automobile, ma si sparpagliarono e con lo sguardo addestrato presero a valutare la pianura, a perlustrare fossati, prati e siepi fino alla diga: niente si muoveva, niente si sollevava, niente era allungato o accovacciato sul terreno, niente che potesse suscitare i loro sospetti. Uno degli uomini frugò senza successo il capannone. Un altro ispezionò il canale di chiusa e tutti insieme controllarono l'innocenza del carretto mezzo marcio. Il giovanotto tarchiato andò a prendere in macchina un cannocchiale e scrutò a lungo i lontani stagni acquitrinosi. Quando tornarono alla loro vettura non avevano un'espressione soddisfatta. Se ne andarono via delusi.

Mio padre rimase in piedi sulla scala e li osservò mentre si allontanavano senza fretta, costeggiando i canali. Non si mosse finché l'auto non svoltò sulla Husumer Chaussee. Solo allora entrò in casa, sedette così com'era al tavolo di cucina e incrociò le mani. Sedeva rigido nella sua maglia ruvida con le bretelle dei calzoni ancora arrotolate sulla spalla, con le lacrime agli occhi, battendo i denti. Non si accorse della tazza di tè che mia madre gli aveva avvicinato. Non si accorse neppure di me, e non perché fosse assente con il pensiero: sul suo volto si leggeva che aveva capito non solo la ragione ma anche le conseguenze di quella visita mattutina. Stava calcolando. Meditava e rifletteva, respingeva un'ipotesi e riprendeva daccapo le sue considerazioni; aggrottava inavvertitamente le sopracciglia. Respirava a fatica. E a un tratto sollevò la mano destra, ma subito la lasciò ricadere sul tavolo e disse a mia madre: Può darsi che da un momento all'altro capiti qui. Lo stanno già cercando? chiese mia madre. Mio padre rispose: Era all'ospedale delle carceri, di là se l'è svignata. Lo cercano dappertutto. Quando è fuggito? domandò mia madre. Ieri, disse mio padre, ieri sera e in questo modo si è fregato: mi sono informato. Se non l'avesse fatto, Klaas se la sarebbe cavata con un po' di galera o con un battaglione di punizione; adesso non ha da aspettarsi niente. Perché, chiese mia madre, ma perché lo ha fatto? Non hai che da domandarglielo, disse mio padre: fra poco sentiremo bussare alla porta e te lo troverai davanti. Allora glielo potrai domandare. Non verrà qui, disse mia madre; dopo tutto quello che ci ha fatto non oserà presentarsi da noi. Verrà, disse mio padre. Qui è cominciato tutto e qui tutto finirà per lui: vedrai che correrà direttamente nelle loro braccia. Lo avvertirai, chiese mia madre, o lo nasconderai se verrà qui? Non lo so, disse mio padre, non so che cosa devo fare, ma lei lo interruppe: Spero che tu sappia ciò che quelli si aspettano da te.

Mia madre gli apparecchiò la tavola, prese il pane, la margarina e la ciotola marrone con la conserva di rabarbaro. Gli avvicinò il tutto e parve soddisfatta di avere compiuto questo suo gravoso dovere. Non si sedette. Si versò una tazza di tè, con la schiena si appoggiò alla credenza e disse: In ogni caso io non voglio avere più niente a che fare con lui. Abbiamo chiuso, Klaas e io, e se verrà qui, io per lui non ci sono. Mio padre esaminò la sua colazione senza tuttavia mangiare. Un tempo parlavi in un altro tono di lui, disse mio padre, e adesso per giunta Klaas è ferito. Mutilato, lo corresse mia madre. Klaas non è ferito, è mutilato e per colpa sua. Già, disse mio padre, già, già: si è mutilato da sé ma per aver fatto questo ci deve essere stato un motivo. Dopo una pausa mia madre disse: La paura, ci è voluta la paura, questo sì. Klaas era superiore a noi tutti, disse mio padre, il ragazzo aveva maggiori prospettive di me. Abbiamo pensato a lui, disse mia madre, noi abbiamo sempre pensato a lui, e lui in cambio? Se è vero che è superiore a noi tutti, avrebbe potuto almeno prevedere le conseguenze del suo gesto. Adesso è troppo tardi. Mio padre continuò a non mangiare e a non bere nulla. Si passò la mano sui capelli radi e si toccò la spalla sinistra come se i suoi antichi dolori si fossero nuovamente fatti sentire. Klaas non è ancora qui, disse, e poi chi sa se ce la fa. E se ce la fa? domandò mia madre. So che cosa devo fare, disse mio padre in un tono di voce che tradiva un cauto rimprovero. Girò verso mia madre il viso non ancora rasato, la fissò con lentezza, la fissò con uno sguardo critico, e aggiunse: Succederà ciò che deve succedere, puoi stare tranquilla. Quindi si alzò e si diresse verso di lei con la mano protesa. Ma lei non lo aspettò: rapida, appoggiò la tazza, indietreggiò per scansarlo e, aggirando il tavolo, raggiunse sempre a ritroso l'uscio. Senza dire una parola salì di sopra e molto probabilmente si chiuse in camera sua.

Mio padre si strinse nelle spalle. Sfilò le bretelle dei pantaloni e andò al lavandino. Da una piccola mensola d'anspio prese il pennello e il sapone e divaricando leggermente le gambe e tenendo il busto storto cominciò a insaponarsi sopra il lavabo: in questa posizione riusciva a non perdermi d'occhio. Hai sentito, disse a un tratto, Klaas se l'è svignata e può darsi capiti qui. Io feci cadere piccoli grumi di conserva di rabarbaro nei fiocchi d'avena e non dissi nulla. Verrà qui certamente, riprese mio padre, ce lo vedremo capitare davanti all'improvviso. Ci chiederà questo e quello, vorrà da mangiare e avrà bisogno di un nascondiglio: ti avverto, perché tu non faccia niente senza dirmelo. Chiunque lo aiuti si rende colpevole, anche tu ti renderesti colpevole. Io domandai: Ma che faranno di Klaas se lo pigliano? E mio padre, lasciando cadere dal dito uno schizzo di schiuma come fosse moccio, mi diede l'unica risposta che ormai poteva dare: Ciò che si è meritato. Poi sollevò il rasoio a serramanico, storse il viso, si raschiò via la barba iniziando da sotto le orecchie, e affusolò la bocca come se volesse lanciare un lungo fischio. Io, intanto, mangiavo distrattamente i miei fiocchi d'avena. Lavorai di cucchiaio per molto tempo, in ogni caso finché mio padre ebbe finito di radersi. Anche allora non mostrò alcuna intenzione né di mangiare né di bere. Lavò il rasoio, si tirò le bretelle sulle spalle compiendo ogni gesto con calma e circospezione esagerate. Cercò un bottone che da molto si era staccato, si soffiò il naso, e in tutta tranquillità osservò con aria pensierosa anche il fazzoletto. Andò persino alla finestra e guardò per alcuni istanti in direzione della Husumer Chaussee dove non succedeva niente: soltanto il sole ammolliva l'asfalto.

Quando mio padre, dopo altre dilazioni quali lucidare le scarpe, pulire la pipa, caricare la sveglia, uscì finalmente dalla cucina e passò nel suo ufficio, io bevvi il suo tè e portai nella dispensa il pane, la margarina e la ciotola della filacciosa conserva di rabarbaro con quel suo particolare colore tendente sia al verde che al rossastro. Misi ogni cosa al proprio posto e rimasi in ascolto: il campo era libero. Tagliai alcune fette di pane dello spessore di un pollice e le infilai nello scollo della camicia; feci seguire un pezzo di salsicciotto e due uova: la camicia era rigonfia sopra la cintura. Lasciai allora scivolare le provviste sulla schiena, e contro la colonna vertebrale avvertii il fresco delle uova e il ruvido del pane. Il salsicciotto me lo ficcai in tasca. Tagliai anche una pallida fetta di carne salata che feci scendere lungo la spina dorsale. La camicia era ormai tutta rigonfia sul dietro al di sopra dei calzoni e formava un naturale zaino che penzolava molto in basso. Ma non ne avevo ancora abbastanza. Le mele, mi dissi pensando alle Gravensteiner allineate sull'armadio di camera mia, e decisi di infilarne alcune sempre nello scollo della camicia. Così uscii dalla cucina e salii le scale; dondolando a ogni passo, le uova, il pane e la carne mi sfioravano la pelle e la inumidivano. Salii le scale rasentando il muro e arrivai di sopra inosservato; passai anche davanti alla stanza del nemico. Aprii la porta della mia camera e mi spaventai: nel mio letto era coricata mia madre; aveva gli occhi aperti. Non era nella sua stanza, come avevo pensato, non se ne stava in piedi dietro la tendina, con le labbra orgogliosamente strette per farsi incoraggiare dalla diga, dall'orizzonte o dall'acqua scintillante. Era coricata nel mio letto, quasi raggomitolata, con le coperte tirate fin sul petto, e le braccia bianche, disseminate di efelidi e macchie epatiche, abbandonate sulla coperta. Quella mattina la sua vista bastò a paralizzarmi; in seguito non mi avrebbe causato sorpresa, poiché si sarebbe trattato di una scena non infrequente. La fissai sbalordito. Non mi chiesi neppure: che vuol dire se tua madre sta nel tuo letto, eccetera eccetera. Aveva i capelli sciolti sul cuscino, e il suo corpo, in realtà piatto, sotto la coperta pareva informe. Intendeva sloggiarmi dalla mia stanza? O pensava di trasferirsi da me? Sdraiata in quella posizione, mi ricordava mia sorella Hilke.

Non potevo trovare nei suoi occhi la spiegazione del suo comportamento: non mi chiese neppure scusa. Ma quando la leggera pressione umida e fresca contro la spina dorsale mi lanciò un avvertimento, mi misi a considerare subito in quale modo potessi uscire dal suo campo visivo: pensavo di liberarmi camminando all'indietro, come fanno i gatti per sottrarsi a un incantesimo. Allungai la mano per afferrare la maniglia e già avevo la soglia sotto i piedi, quando lei disse: Vieni qui, avvicinati. Mi avvicinai. Girati, disse. E io mi girai. Allora strinsi le natiche e veramente credetti che mia madre avrebbe potuto non accorgersi del sacchetto che la mia camicia formava sulla schiena. Invece lei disse: Svuota, e io feci scivolare le provviste dalla colonna vertebrale verso l'ombelico, ficcai una mano nello scollo della camicia e tirai fuori una cosa dopo l'altra mettendo il tutto sul pavimento: il pane, le uova e la pallida fetta di carne salata. Ero pronto a rispondere a qualsiasi domanda: avrei raccontato del mio nascondiglio - non di quello nel mulino ma dell'altro nel capanno dell'uccellatore sulla penisola - e avrei dimostrato a modo mio la necessità di ammassare provviste per i tempi cattivi. Ma lei non volle sapere niente. Semplicemente disse: Riporta tutto nella dispensa, tutto. E non lo disse in tono di minaccia o di avvertimento: non pareva nemmeno delusa; la sua voce aveva solo assunto una modulazione dolorosa nell'ordinarmi di riportare al loro posto le cose che avevo preso per Klaas. La guardai stupito per alcuni lunghissimi istanti, e attesi, attesi il naturale annuncio di un castigo. Il mio timore si rivelò ingiustificato: improvvisamente mia madre mi sorrise e mi fece un cenno per invitarmi a ubbidire. Tolsi la camicia sfilandola dai pantaloni, vi ammassai dentro tutte le provviste e trasportai ogni cosa dabbasso, nella dispensa.

Che cosa le era successo? Perché non mi aveva castigato? Perché non mi aveva rinchiuso in una stanza? Misi le uova insieme alle uova, la carne vicino alla carne, il salsicciotto con le salsicce. Conservai in tasca solo la fetta di pane spezzata in due e più volte battei con il palmo della mano fino a quando nessun rigonfiamento sollevò più la stoffa dei calzoni.

Dalla finestra della cucina guardai il mulino, cercai e ricercai un segnale lanciato di là. In quel preciso momento mio padre dall'altra parte del muro, nel suo ufficio, cominciò a telefonare alla solita maniera: urlando nell'apparecchio brevi dichiarazioni e ripetendo più volte l'ultima parola di ogni frase. Non sapeva telefonare senza farsi sentire, e io pensavo già che mia madre, secondo la sua abitudine, sarebbe scesa dabbasso e avrebbe chiuso la porta dell'ufficio - il che rendeva quelle telefonate se non inintelligibili, almeno sopportabili — ma di sopra rimase tutto tranquillo. Nel riquadro del finestrino, dietro al quale Klaas stava ad aspettarmi coricato sul pagliericcio, non si notava niente. Ricevuti documenti da Husum, urlò mio padre. Immaginai che mio fratello dormisse sul giaciglio di canne e sacchi: sempre all'erta anche nel sonno, curvo anche nel suo sonno leggero, come pronto a spiccare un balzo. Nessun fatto particolare da segnalare, gridò mio padre, da se–gna-la–re! Considerai quale strada avrei dovuto seguire per arrivare senza farmi scorgere al mulino: percorsi i fossati, lanciai un'occhiata indagatrice alla diga, rimpiansi, credo, un passaggio sotterraneo, e mentre stabilivo il percorso di aggiramento, vidi Okko Brodersen con il suo borsone della posta: veniva da Holmsenwarf. Il portalettere oscillava sulla bicicletta, e la borsa di cuoio, ormai interamente graffiata, pareva impedirgli di trovare l'equilibrio. Comunicazione segue immediatamente, sbraitò mio padre.

Okko Brodersen si stava dirigendo verso di noi. Avanzò sferragliando sul piccolo ponte di tronchi, si avvicinò di un altro tratto continuando a borbottare tra sé, diede l'impressione di speronare il palo con il cartello segnaletico, rollò per scansarlo, e con un ampio arco atterrò vicino alla nostra scala. Bestemmiando scese allora dalla bicicletta. La manica vuota dell'uniforme, ripiegata in sotto, sussultava, tremava come percorsa da scosse elettriche. Tiratasi sul ventre la borsa della posta, Okko Brodersen salì da noi. Non bussò, ma semplicemente entrò in cucina e augurò bofonchiando il buon giorno a chi potesse esserne interessato. Poi sedette al volo, estrasse l'orologio di tasca e se lo pose davanti agli occhi osservandolo tranquillamente. Sembrava essere soddisfatto, poiché, mentre lo fissava, assentì. Ma quando io feci per lanciargli un'occhiata, me lo impedì passandomi lesto una cartolina con una veduta di Amburgo. Disse: Leggi se sai leggere. Hilke ritorna, tua sorella vuole tornare per sempre a casa. Segue immediatamente, gridò mio padre nel suo ufficio. Domenica puoi andare a prenderla alla stazione, disse il portalettere, e riprese a osservare il suo orologio con un'attenzione eccitata ma soddisfatta. Faceva sempre così non appena si sedeva: io avevo la sensazione che il suo orologio contasse e suddividesse le ore del giorno in un modo diverso dagli altri orologi e che anche lui si sforzasse di comprendere la differenza.

Il vecchio portalettere con un braccio solo non si curò affatto dei ruggiti di mio padre nel suo ufficio. Perso nella contemplazione dell'orologio, attese sbuffando che appoggiasse il ricevitore e ci raggiungesse in cucina. Allora si alzò. I due uomini si diedero la mano e pronunciarono i reciproci nomi con intonazione interrogativa: Jens? Okko? Quindi il portalettere mi tolse di mano la cartolina illustrata e la porse a mio padre insieme a un giornale. Poi sedette nuovamente e si guardò intorno: cercava qualcosa. Del tè? domandò mio padre. Bevi una tazza di tè? Ecco, disse il portalettere, ecco quello di cui ho bisogno: una tazza di tè. Bevvero e lodarono alternativamente il tè scuro, molto zuccherato. Mentre bevevano si osservavano sollevando lo sguardo appena al di sopra del bordo della tazza. Non fecero altro. E tuttavia qualcosa facevano, se si pensa che tacitamente continuavano a ricercare un appiglio per dare inizio alla conversazione, un inizio discreto, per poter venire a sapere ciò che l'uno desiderava dall'altro. Da noi si curava sempre che l'inizio di una conversazione fosse giustificato da un motivo secondario, avvenisse con naturalezza, senza bisogno di alzare la voce.

Per questa ragione non posso far incominciare subito Okko Brodersen. Perché sia coerente con se stesso devo aspettare, devo ricordare la pre–conversazione che i due uomini condussero intorno al tavolo di cucina, con sorprendente coraggio, alternandola a pause: parlarono di aerei che volavano a bassa quota, di camere d'aria di biciclette. Devo sopportare nuovamente la prolissità con cui si informarono della salute dei reciproci parenti, come pure devo ricordare i loro gesti lenti ma calcolati. La manica vuota della giacca di Brodersen si mosse spazzando la superficie del tavolo di cucina. Mio padre piegò accuratamente il giornale. Brodersen osservò il suo orologio mentre parlava delle difficoltà di procurarsi nuove camere d'aria per la bicicletta. La guardia della stazione di polizia di Rugbiill alzò di tanto in tanto la testa come se nella casa sentisse rumori sospetti.

Così si avvicinarono l'uno all'altro, si prepararono a vicenda lentamente e minuziosamente. Venne il momento in cui il vecchio portalettere si credette autorizzato a esprimersi con chiarezza sulla ragione della sua presenza. Disse: Dovresti lasciarlo in pace, Jens. E mio padre, che dava l'impressione di non essersi aspettato altro, ribatté: Adesso cominci anche tu. Adesso anche tu ti metti a parlare come il vecchio Holmsen. Ieri sera è capitato qui ed è stato capace di dirmi solo questo: lascialo in pace. Ma che cosa è successo finora? Il divieto è stato deciso a Berlino, e non sono stato certo io a inventarlo. Anche l'ordine di sequestrare i quadri è venuto da Berlino. Io ho ricevuto solo istruzioni precise e non sono andato oltre.

Si dice che tu gli stia alle costole, disse il portalettere. Alle costole? ripetè mio padre. Che significa: alle costole? Qualcuno doveva pur comunicargli le decisioni prese nei suoi confronti, e questo è stato compito mio. Si dice, riprese il postino, che tu lo tenga d'occhio mattina e sera, persino col buio. Il rispetto del divieto deve essere controllato, disse mio padre asciutto, e Okko Brodersen, che era preparato a una risposta simile, continuò: Si dice che tu faccia più di ciò che uno dovrebbe fare, in ogni caso più di quanto esiga il tuo stesso dovere. Voi non sapete affatto che cosa quelli si attendono da me, disse mio padre. No, ammise il portalettere, loro non lo sanno, ma credono di sapere perfettamente ciò che tu stesso ti attendi da questa faccenda. Si dice che tu ne abbia fatto una questione personale. La guardia della stazione di polizia di Rugbull si strinse nelle spalle e osservò con calma quell'uomo che si poteva trovare in molte fotografìe appese nell'ufficio - persino in quella ovale che riprendeva alcuni artiglieri inginocchiati davanti al loro obice. Mio padre chiuse gli occhi e rifletté prima di pronunciare press'a poco queste parole: Io ho il mio compito, lui pretende di avere il suo. Gli ho spiegato ciò che non deve fare, e lui a sua volta mi ha spiegato che cosa continuerà a fare. Non posso ammettere eccezioni, ma lui vorrebbe essere un'eccezione. Dillo a quelli che hanno tanto da blaterare. Va pure da loro e di' che ciascuno di noi fa la sua parte: sia lui che io. Ci siamo detti quanto dovevamo dirci. Ognuno conosce le conseguenze.

Il portalettere assentì. Diede l'impressione di non avere niente da obiettare, tuttavia non chiarì quale fosse la sua opinione personale. Alcuni si preoccupano, disse, alcune persone si fanno preoccupazioni per te perché pensano che i tempi potrebbero cambiare: sai benissimo che ha molti amici. So anche di più sul suo conto, disse mio padre. Mi è noto che cosa rappresenta per loro all'estero. All'estero lo ammirano addirittura. E so che anche qui ce ne sono parecchi che vanno orgogliosi di lui - me lo ha confermato il vecchio Holmsen. Sono orgogliosi perché ha scoperto o creato o fatto conoscere il nostro paesaggio. Mi è capitato di sentire che all'ovest e nel sud si pensa istintivamente a lui quando si pensa alla nostra regione… Ne so abbastanza, potete credermi. Ma farsi delle preoccupazioni? Chi compie il proprio dovere non ha da preoccuparsi, nemmeno se i tempi dovessero cambiare.

Si dice, disse il portalettere, che tu hai sequestrato i quadri degli ultimi anni.

È giunta da Berlino una disposizione, disse mio padre, e io ho curato che i quadri, bene imballati, venissero trasportati a Husum. Quel che è avvenuto poi, non lo so.

Hanno proseguito per Berlino, disse il portalettere. Una metà è stata bruciata e l'altra venduta: questo è quanto alcuni affermano di aver saputo. Io non ne so nulla, disse mio padre; personalmente non ne ho saputo nulla perché la questione non è più di mia competenza. Sono competente solo per Rugbiill.

Ma perché gli vietano di dipingere, chiese il portalettere, perché gli requisiscono i quadri degli ultimi anni? La ragione la sai. Nell'ordine sta scritto che è estraneo allo spirito del nostro popolo, disse mio padre. Di conseguenza è nocivo e indesiderato, insomma degenerato… se conosci il significato delle mie parole.

In ogni caso, disse il portalettere, alcuni si preoccupano per te, soprattutto due che non hanno dimenticato che è stato lui a tirarti fuori dalle acque del porto di Gliiserup. Prima o poi si finisce per essere pari, disse mio padre, e noi lo siamo. Sappilo e puoi dirlo anche agli altri che hanno tanto da blaterare. Tutti e due siamo di Gliiserup, sia lui che io, ma ormai abbiamo fatto piazza pulita. Adesso dipende solo da lui se la cosa avrà un seguito, e di quali proporzioni.

Ciò nonostante, disse Okko Brodersen, dovresti lasciarlo in pace, Jens. E mentre mio padre lo fissava con l'aria di chi durava fatica a capirlo, il portalettere sollevò l'orologio, se lo portò all'orecchio, lo caricò alla svelta e lo fece scomparire in tasca. Quindi bevve con rapide sorsate il resto del tè ormai freddo e si alzò rumorosamente. Aveva molta fretta, forse perché provava disgusto per aver parlato tanto. Lo aiutai a sistemare la sua grossa borsa, e lui salutò appena senza neppure attendere che mio padre rispondesse al saluto. Uscì e lasciò nella casa il poliziotto: un poliziotto che non era né agitato né preoccupato, che non scattò in piedi, non fece minacce e non si mostrò neppure a disagio, ma che rimase seduto e cominciò a meditare sull'accaduto alla sua maniera fredda e placida.

Si capiva subito quando mio padre stava meditando. E anche in quel momento, sebbene guardasse il lavandino e il rubinetto d'ottone che sgocciolava sempre e si appannava, il suo sguardo era in un certo senso introspettivo, il suo respiro si era fatto impercettibile, il polso pareva rallentato e il busto sembrava essersi leggermente afflosciato su se stesso. Le mani, invece, erano in tensione, si premevano, si stringevano l'una contro l'altra, e le punte dei piedi picchiettavano con moto irregolare. Quando meditava niente poteva disturbarlo: non si irritava nemmeno se qualcuno di noi si muoveva entro il suo campo visivo o conversava o lavorava nella stessa stanza.

Socchiudendo gli occhi guardai lontano, dalla parte del mulino dove ero atteso. Nella tasca il pane diventava sempre più pesante, o così parve a me, che cominciai ad avvertirne il peso. Sul davanzale della finestra giaceva la bandiera azzurra che mi ero costruita: la presi e per un attimo la sventolai davanti alla faccia di mio padre. L'aria, forse anche la durata del segnale, lo indussero a sollevare la testa, e subito notai che mi stava inserendo nella sua meditazione. Accese la corta pipa. Si toccò con il polpastrello un incipiente orzaiuolo sull'occhio destro. Poi, emettendo rumorose boccate di fumo precedute da brevi schiocchi delle labbra, cominciò a fumare assumendo con tutto il corpo una posizione di scenografica solennità. Odio quel modo superbo di stare seduto, temo quel silenzio che presume di essere significativo, odio quella laconicità imponente, lo sguardo proiettato in insondabili lontananze e il gesto diffìcile da descrivere, e temo, sì, temo quella nostra abitudine di ascoltare solo i moti interni rinunciando alle parole.

La guardia della stazione di polizia di Rugbùll guardava imperturbabile la parete attraverso il fumo della pipa, la fissava con lo sguardo velato, profetico; in quel momento non mi sarei certamente sorpreso se avessi visto una chiazza formarsi sul muro o staccarsi una tegola.

Volevo domandargli il permesso di uscire ma non osai; non osavo parlargli e tirarmi addosso prematuramente il suo sguardo. In silenzio disegnai per la stanza, con il mio vessillo, degli otto orizzontali e con un sol colpo avrei spazzato via dalla mensola la spalliera dei barattoli di riso, semolino, tapioca e orzo se mio padre non mi avesse afferrato da dietro. Mi attirò a sé e disse: Non dimenticarti che noi due lavoriamo insieme: se vedi qualcosa, devi dirmelo. Con la bandiera, ribattei. E mio padre: Come vuoi, solo devi comunicarmelo. Contro noi due, Siggi, non la spunterà nessuno.

Avevo già sentito quelle parole. Rapido chiesi: Ora posso andare? Vai, rispose, per me vai pure a Bleekenwarf, però tieni gli occhi aperti. Voleva dirmi altro, ma in quell'istante nel suo ufficio suonò il telefono. Mio padre balzò in piedi e con un gesto che tradiva timore appoggiò la pipa su un piattino. Si lisciò i capelli divisi dalla netta scriminatura e camminando si abbottonò la giacca: fuori, sulla scala, udii la sua voce comunicare: Stazione di polizia di Rugbiill.

Scesi le scale di corsa, raggiunsi la strada ammattonata, sempre non visto, o per lo meno senza udire richiami, raggiunsi la chiusa, mi rannicchiai e, per maggior sicurezza, feci sgorgare l'acqua scura per alcuni attimi. Solo allora, dopo un primo dietrofront alla diga e un secondo alla cintura del canneto, tornai di corsa al mulino. Non sfiorai né la cintura di canne né lo stagno davanti al mulino, ma quella volta mi avvicinai da dietro, avanzai all'ombra della collinetta artificiale e sostai contro la piattaforma sfondata. Feci una lunga sosta, almeno fin quando i due uomini sul prato antistante il cimitero ripresero il loro lavoro di drenaggio. Mi calai dove si trovava l'ingresso e spalancai la porta che dava sulla scala.

Non lo vidi subito. Accolto dal fresco mi fermai, mi fermai nella penombra del primo mattino e tesi l'orecchio.

Dietro i vecchi cassoni della farina, nell'angolo dove si trovava la scala a pioli, avvertii uno scricchiolio. Una ventata mi investì, un richiamo che pareva un rimprovero mi ragiunse: no, non era un grido di voce umana, ma un rumore simile a un grido. E come sempre qualcosa volò attraverso l'alto stanzone, passò nella penombra imprigionata nel vecchio mulino, svolazzò e cadde: non erano i gabbiani. Mentre stavo per prendere la scala e appoggiarla, vidi Klaas. Era sdraiato vicino ai cassoni della farina, proprio sotto la botola. Nella mano sana reggeva un pezzo di fune e sopra la sua testa, oscillando lentamente, silenziosamente, innocentemente, penzolava la catena della vecchia carrucola. Aveva pensato di lasciarsi calare aggrappandosi alla catena. L'aveva allungata con la corda, fissandole l'una all'altra, ma solo la catena aveva resistito al peso. Deposi la scala a pioli e mi inginocchiai accanto a mio fratello. Quindi gli tolsi di mano la fune tirando l'estremità rimasta sotto di lui: era la corda che pensavo di utilizzare in caso di necessità per calarmi nello stanzone sottostante; la tenevo sotto il mio giaciglio. La fune non era strappata, si era solo rifiutata di congiungersi con la catena, si era sfilata dall'ultimo anello ed era annerita a un'estremità per la trazione e la morsa. Ma questa esatta spiegazione non basta a rimettere in piedi mio fratello. Infatti, quando gli sfilai di mano la fune, rimase sdraiato. Era raggomitolato; visto dall'alto, pareva avesse la schiena curva in posizione di corsa. In ogni caso non si mosse e quando lo toccai e lo scossi cautamente, rispose con un debole gemito.

Tolsi di tasca il pane e glielo porsi. Tenni la fetta ormai tutta sbriciolata vicinissima al suo viso e lo invitai a mangiare o, almeno, ad aprire gli occhi. Mio fratello continuava a gemere. Sollevò solo il braccio con l'ingessatura e subito lo lasciò ricadere. Spezzai il pane. Lentamente glielo portai alle labbra, spinsi un poco, spinsi di più finché avvertii la resistenza dei denti serrati: ma non riuscii a ficcargli in bocca neppure un boccone. Muoverlo, trascinarlo fino a un palo di legno, appoggiarvelo contro con la schiena: non ci riuscii, perché lui, semplicemente, era troppo pesante. Non potendo fare nulla, sedetti vicino a Klaas e gli raccontai che cosa era successo a casa.

Parlai pazientemente al suo viso tondo senza riuscire a scoprire se mi capiva e quali sensazioni liberavano o evocavano in lui le parole che coglieva. Ma neppure il mio racconto mutava qualcosa: Klaas giaceva sempre davanti a me, immobile, raggomitolato. Non mi rimase altro da fare che uscire di tanto in tanto dal mulino, salire sull'armatura sfondata della piattaforma di legno e guardare. Non fui costretto a osservare sempre i due operai impegnati nell'opera di drenaggio. La mia attenzione venne attratta da un carro che giungeva dalla parte di Gliiserup, da un uomo solitario fermo sulla terrazza del Wattblick e dalla casa, dal capannone della stazione di polizia di Rugbull.

Fin quando devo continuare a guardare? Devo ammettere che a un certo momento, scendendo senza alcun sospetto dal mio osservatorio, non trovai più Klaas coricato davanti alle casse di farina. Da solo si era sollevato a mezzo e aveva appoggiato la schiena a un palo levigato a colpi d'accetta. Ci era riuscito da solo: inspirava ed espirava forte. Vedendomi mi fissò e con quel suo muovere lentamente la testa come per assentire confermò ogni cosa: il senso di panico che lo aveva sopraffatto quando lo avevo lasciato solo, il desiderio di andarsene dal mio nascondiglio dove gli pareva di trovarsi in una trappola, il tentativo di prolungare la catena della carrucola con la fune, la discesa con una mano sola, la caduta; confermò tutto, confermò anche il dolore al basso ventre premendo con forza la mano sana in quel punto, buttando indietro la testa e chiudendo gli occhi. Ma neppure allora volle mangiare. Sul palmo della mano gli tesi il pane, e lui rifiutò.

Su, piccolo, disse pronunciando le parole con fatica, portami via di qui. E io allora gli dissi: Vieni, andiamo a casa, Klaas. Una volta che sarai là, ti aiuteranno. Mi fa male, disse, mi fa male qui in basso. Ti porto a casa, dissi ma lui ribatté: Là no, a casa no, là sono bell'e spacciato. E io: Ma dove vuoi andare se non a casa? Da chi ti devo portare? Klaas doveva aver già riflettuto, perché non fu a caso che disse: Il pittore… portami da lui. Tu non sai, dissi, che cosa è successo. E l'unico, disse mio fratello, mi nasconderà, lo so. Ma tu non sai che cosa è successo, ripetei. Lo farà, disse mio fratello, e subito si levò da terra, si aggrappò al palo e mi fece un cenno perché mi avvicinassi; lo fece con la mano ingessata, e il suo ordine mi parve piuttosto una minaccia. Già, il pittore, disse, avrei dovuto andare subito da lui. Questa mattina avrei dovuto bussare alla sua porta.

Klaas si staccò dal palo e si appoggiò a me, verificando quale peso potessi sostenere. Non era gran che, devo dire, a ogni passo sembrava più leggero. Quando uscimmo fuori al sole, tolse la mano dalla mia spalla e si accoccolò sulle ginocchia vicino a una pozzanghera. Si spalmò di fango l'ingessatura compiendo ogni movimento con cura estrema, mentre io lo aiutavo: a strofinare il gesso con la terra bagnata e bruna del color della torba, a immergere più volte il braccio ingessato nella pozzanghera finché assunse l'aspetto di un informe pezzo di torba stranamente allungato. Allora iniziammo la nostra marcia: siamo passati dallo stagno e alla svelta abbiamo raggiunto i fossati camminando curvi. Neil'avvicinarci a Bleekenwarf, rinnovavo con sempre maggior frequenza i tentativi di convincerlo a tornare a casa. Mio fratello pareva indifferente: non udiva nemmeno le mie parole e non mi rispondeva.

Ma non ci fidavamo di quel silenzio, non ci fidavamo di quella calura estiva sopra la tiepida acqua dei canali neri: da noi chiunque esca di casa viene subito visto e, sapendolo, né io né mio fratello ci lasciavamo ingannare dall'orizzonte pulito. Sapevamo che da noi c'è sempre qualcuno con la vista buona a ispezionare i canali e la pianura, senza muoversi, nascosto dietro una siepe, dietro un portone o una finestra. Così correvamo verso Bleekenwarf come se fossimo stati già scoperti e ci stessero inseguendo: spiccando brevi salti per superare le chiuse, camminando a fatica tra le canne degli argini, guadando le grosse pozze dove si abbeveravano le mandrie, slittando sul terreno fangoso, cosparso di orme di zoccoli, dei recinti dove i contadini riuniscono il bestiame per la mungitura. Ricordo esattamente che il filo di ferro delle staccionate cigolava e tremava quando noi lo slegavamo frettolosamente per poter passare, e vedo ancora come, di tanto in tanto, ci allungavamo a terra e premevamo l'orecchio contro il suolo per avvertire rumori lontani. Seguivo mio fratello nella corsa perché facevo tutto ciò che mi ordinava; e lo avrei fatto in ogni caso anche se non fosse stato sopraffatto dall'angoscia, anche se non lo avessero tormentato quei dolori che lo facevano gemere ogni volta che ci buttavamo a terra. Così accompagnai mio fratello in quella corsa benché fossi convinto che Max Ludwig Nansen ci avrebbe rispedito se non proprio a casa, certamente al mulino.

L'ultimo tratto lo percorremmo con il busto eretto: avevamo raggiunto la protezione della siepe di Bleekenwarf. Ma dietro il ponte di legno, privo di parapetto, Klaas cadde bocconi e rimase a terra. Tentò di rialzarsi cercando di far leva sulle ginocchia, ma non ci riuscì: si piegò su se stesso e ricadde con la faccia contro il terreno. Corsi allora al varco della siepe, guardai nel giardino, dalla parte della casa: non c'era nessuno, e tornai da mio fratello. Lo tirai, lo trascinai sul bordo del viottolo e gli coricai la testa su una zolla d'erba. Gli chiesi: Ora devo andare a chiamarlo? e poiché mio fratello mi fissava senza capire, ripetei con maggiore insistenza: Devo andare a chiamarlo? Sì, disse piano, sì. Prima di andarmene, mi accoccolai sulle gambe e pulii, per quanto mi era possibile, la divisa di mio fratello: raccolsi un piccolo fascio d'erba, strofinai via il fango secco e gli lucidai gli stivali. Poi gli sistemai il colletto e gli abbottonai la giacca. Non muoverti di qui, dissi, non andar via. Quindi lo lasciai.

Giunto al varco aperto nella siepe mi fermai, e prendendo una posizione agevole - un ramo nella mano destra e uno nella sinistra - passai in rassegna il giardino, la casa e lo studio, poiché volevo assicurarmi di non incontrare nessuno, non volevo imbattermi in Jutta o in Jobst, quel piccolo mostro obeso, e tanto meno lasciar loro capire qualcosa dell'accaduto. Nel giardino, tra le aiuole, scorrazzavano i polli, Goldsprenkel amburghesi e Leghorn belgi: raspavano tra i lupini e le zinnie, beccavano insetti dagli steli dei gigli, eccetera eccetera. Non c'era nessuno. Anche il capanno degli attrezzi era deserto, e le quattrocento finestre si rifiutavano di dare la più piccola informazione. Chi aveva urtato l'altalena sotto il melo? Perché si muovevano i papaveri giganti? Vai nello studio, mi dissi, cercalo nello studio. Entrai nel giardino e rasentai la siepe riuscendo così a non perdere di vista l'aiuola fiorita e la casa. Attraversai il viottolo esterno ben rastrellato e voltai per raggiungere il retro dello studio. Udii alcune voci. Tesi l'orecchio: no, era una sola voce che poneva domande in tono irritato e dava risposte sprezzanti. La porta non era chiusa a chiave. Senza far rumore la aprii, mi infilai dentro piano e subito sentii di nuovo la voce del pittore giungere dal fondo della stanza; era in corso un bel litigio, penso, e credo che proprio quella volta il pittore abbia esclamato: Non dire stupidaggini, Baldassarre, in ogni quadro c'è un'azione sola, la luce. A piedi nudi, camminando sulle solide tavole del pavimento, mi avvicinai, e ancora oggi mi rivedo avanzare in punta di piedi. Il pittore non si accorse di nulla. Sedetti su uno dei tanti giacigli provvisori, scostai una coperta appesa che serviva da paravento e me lo vidi davanti con il suo vecchio cappotto azzurro e il cappello in testa. Stava dipingendo. Litigava con il suo Baldassarre e lavorava al Paesaggio con sconosciuti.

Il quadro era fissato sul retro dell'anta destra dell'armadio, mentre a sinistra, nei cassetti aperti, c'erano i suoi strumenti, come lui chiamava i colori: era sufficiente un duplice movimento laterale per chiudere l'armadio e far scomparire quadro e colori. Non so se anche in quel momento, all'udire un passo, una voce o un rumore sospetto, avrebbe chiuso le ante dell'armadio, perché quel giorno la sua lite con Baldassarre mi parve molto seria. Era impegnato a dimostrare al suo interlocutore in pelliccia di volpe color lilla che il paesaggio - sul quale accampavano le gigantesche figure degli sconosciuti disposte in gruppo secondo un'intenzione chiara - poteva suggerire l'idea dell'approssimarsi della violenza e della fine, non certo affondando in una luce morente o in colori acquosi, ma unicamente se investito da uno spaventoso chiarore, da un arancione terrificante interrotto da pennellate bianche sovrapposte. Un grido acuto lanciato nel grigio nero: giallo, marrone, bianco. Solo così cessa immediatamente il mutismo, il ritegno, la rassegnazione, e ha inizio il dramma. E il verde marcio: in basso, come sempre, stese del verde terroso. Gli bastava quella tonalità: il color verde terra sapeva evocare tutto, e il suo Baldassarre non voleva o non riusciva a capirlo.

Guardai il pittore, guardai gli sconosciuti e poi nuovamente il pittore: ora tendeva l'orecchio e rifaceva l'espressione dei suoi personaggi, l'espressione di chi si sente minacciato, come dovevano sentirsi loro, stranieri e allo scoperto in un paesaggio che non pareva raggiungibile casualmente al termine di una passeggiata, ma dove si poteva solo venir gettati, costretti, dove il terrore è comprensibile. Mi disturbavano - e mi disturbano tuttora - i copricapi degli sconosciuti: un miscuglio tra il fez e il turbante che pareva imitare la foggia usata in non so quale guerra turca. Ma il loro stupore, la loro paura, il loro abbandono, trovavano perfetta rispondenza nella particolare atmosfera del paesaggio.

Ora vorrei lasciar ricadere cautamente la coperta che serviva da paravento per il giaciglio provvisorio, vorrei tornare inosservato alla porta ed entrare un'altra volta, ufficialmente per così dire e rumorosamente. Come in realtà feci: sempre in punta di piedi raggiunsi l'ingresso, bussai, aprii e richiusi la porta. Poi gridai: Zio Nansen? Sei qui, zio Nansen? Non rispose subito. Solo dopo aver chiuso l'armadio e ritirato la chiave gridò di rimando: Che c'è? Chi è? e lentamente uscì dall'invisibile fondo dello studio, avvicinandosi: non brontolava, né pareva contrariato per essere stato distolto dal suo lavoro, ma strascicava i piedi con ostentata indifferenza… Lo lasciai arrivare fino alla porta. Witt–Witt, disse vedendomi, e pronunciò il mio soprannome senza dimostrare né sollievo né sorpresa. Dunque, Witt–Witt? Ma pareva tendesse l'orecchio dalla parte da cui era venuto, come se Baldassarre potesse approfittare della sua assenza, aprire l'armadio e ritoccare il paesaggio a modo suo. Poi domandò: Che vuoi? Indicai con la mano la siepe e dissi soltanto: Klaas. Ma poiché non mi capiva e i suoi occhi grigi guardavano lontano, oltre il mio viso, spiegai: E venuto Klaas, devi aiutarlo.

Ma tuo fratello è via, disse, è ferito e si trova in ospedale. No, è disteso per terra, vicino al ponte, dissi, e aggiunsi: Voleva venire da te, soltanto da te. A quelle parole il pittore si afferrò i lembi del cappotto, fece scomparire la pipa accesa in una tasca, si girò per sentire Baldassarre, tornò a voltarsi e uscì dallo studio. Io chiusi la porta e lo seguii di corsa. Ne combinate proprio delle belle, disse turbinando a piccoli passi attraverso il giardino. E io, standogli alle spalle, le sue spalle robuste, anche se un po' curve, risposi: Lo stanno cercando. Sono già stati a casa. Solo seccature si hanno da voi, brontolò, non ci lasciate mai in pace. Poiché il lungo cappotto azzurro nascondeva i suoi passi, avevo la sensazione che lui veleggiasse davanti a me guidato dalla collera o almeno sospinto dal rancore. Di nuovo sentii la sua voce minacciosa: Ne combinate proprio delle belle! Prendemmo una scorciatoia, correndo lungo la siepe fino al varco ci lasciammo alle spalle il giardino e trovammo Klaas come lo avevo coricato io, con la testa ancora appoggiata a un ciuffo d'erba. Il pittore si chinò, e il suo ampio cappotto si afflosciò su mio fratello, lo avvolse, forse lo rinfrescò. Ora io mi vedo costretto a fare una constatazione: il gruppo, una persona supina e un'altra inginocchiata in atto di portare irreprensibile conforto, ricordava uno dei quadri più amati dal Fiihrer, Dopo la battaglia; ma in quel dipinto la persona in ginocchio, tanto sollecita nel dispensare il proprio conforto, doveva essere di sesso femminile. Soltanto, il pittore non intendeva confortare mio fratello, desiderava piuttosto capire che cosa fosse accaduto a Klaas, per quale ragione giacesse a terra proprio dietro alla sua siepe, senza una decorativa aureola di sangue intorno alle tempie, e ciò nonostante non si alzasse.

Klaas, disse il pittore, Klaas, ragazzo mio, che ti è successo? Mio fratello sollevò il braccio inservibile, nel quale a brevissima distanza si era sparato due pallottole, e lo lasciò ricadere. Il pittore gli tastò la spalla, il petto e infine il ventre. Allora Klaas sussultò e disse: No, lì no. Riesci a camminare? chiese il pittore. Klaas gli rispose: Certo, posso alzarmi, adesso va meglio. E con l'aiuto del pittore si mise a sedere, si scosse, e mentre si rizzava completamente disse: Devo nascondermi. Gesummaria! disse il pittore. Ne combinate delle belle, voi! Lo tormentate, voi, un essere umano. A casa, disse mio fratello, a casa non posso farmi vedere. Sono stati già lì e torneranno di sicuro. Voi ci riuscite sempre, ad angustiare un essere umano, disse il pittore, e sorresse mio fratello. Gemendo Klaas aggiunse: Se mi acciuffano, questa volta sono finito. Semplicemente voi non ci lasciate mai in pace, disse il pittore, e trasse mio fratello molto vicino a sé. Poi tentò il primo passo, quindi imprecando, scuotendo la testa, brontolando e ripetendo le sue accuse, lo tirò, lo trascinò al varco nella siepe e poi per un tratto nel giardino fino al capanno. Qui nella luce smorzata lo fece sedere su una larga poltrona di vimini. Con la mano gli sollevò il viso, non perché gli volesse parlare guardandolo negli occhi, ma perché doveva ritrovare quella particolare espressione che per un certo tempo lo aveva spinto a ritrarre mio fratello Klaas in alcuni quadri. Poiché il viso di Klaas in alcuni momenti era capace di una commozione spontanea, esemplarmente semplice, Max Ludwig Nansen lo aveva raffigurato nella sua Ultima cena, mentre guardava fiducioso nel calice. E Klaas è anche la figura fortemente infantile della Natura morta con cavallo rosso, ed è in piedi davanti a Tommaso l'incredulo come se volesse fargli lo sgambetto, mentre nel dipinto intitolato Spiaggia con danzatori e occasionali bagnanti è il personaggio dagli occhi chiari e il viso azzurro che cerca di capire la scena.

Una dozzina di tele o più testimoniano la sua eccezionale capacità di commozione, e quando il pittore nel capanno del giardino sollevò il viso di mio fratello e lo girò verso la luce, io pensai che stesse cercando proprio quell'espressione. Ma può anche darsi che mi sia sbagliato, perché a un tratto domandò: Sai, sai almeno che cosa mi chiedi? Klaas lo guardò con aria assente. Allora avanti, disse il pittore, su, vieni.

Di nuovo trasse a sé mio fratello. Uscimmo dal capanno e costeggiando la facciata con le finestre raggiungemmo il cortile. Per tutto il tempo il pittore non smise di imprecare e di lamentarsi e colmò noi tutti, me compreso, di rimproveri: ne combinavamo troppe e non facevamo che accrescere le sue preoccupazioni. Solo quando entrammo nel corridoio tacque. Aprì la porta che immetteva nell'ala est della casa; lungo la facciata con le finestre correva il corridoio sul quale si aprivano diciamo centodieci porte, pesanti porte dipinte di verde scuro, tutte con grandissime chiavi fatte a mano infilate nella serratura. Il pittore spinse mio fratello per l'intera lunghezza del corridoio; dietro quelle porte non immaginavo esseri umani ma uccelli: avvoltoi con il collo nudo, grossi condor, aquile reali, tutti appollaiati con le palpebre abbassate su colonnette di letti scalfiti; non avrei mai osato origliare a quelle porte. Nel pavimento in pietra erano incise alcune date - milleseicentotrentotto, millenovecentododici - e sotto delle iniziali: A.J.E; EW.E I bordi dei giunti erano stati levigati dal tempo e alcune lastre erano percorse da crepe.

Ma il pittore apriva la porta giusta? Era quella la camera che aveva scelto per Klaas? In ogni caso inaspettatamente si fermò, girò una chiave, spalancò un uscio, scomparve, ritornò dopo un istante, assentì col capo e condusse dentro Klaas. Era una stanza da bagno, o, più esattamente, una specie di bagno. Qualcuno, probabilmente il vecchio Frederiksen, aveva destinato quell'ambiente a stanza da bagno, aveva fatto applicare una doccia e installare una vasca - un mostro biancastro appoggiato su rostri di grifone - ma né doccia né vasca erano funzionanti: mancavano i rubinetti, lo scarico, le tubazioni. Si poteva benissimo supporre che il progetto non fosse stato portato a termine perché ne era venuto meno il desiderio o che fosse stato dimenticato perché il vecchio Frederiksen faticava a ritrovare quella stanza. La ragione per cui in quel bagno spazioso mai ultimato vi fosse una pila di materassi usati mi è tuttora difficilmente comprensibile. Comunque i materassi c'erano, e il pittore preparò il letto gettandoli l'uno sull'altro e battendoli con il palmo della mano per sistemarli; a ogni lancio faceva sgorgare colonne di polvere che zampillavano nello stretto cono di luce obliquo. Poi invitò Klaas a sdraiarsi.

Mio fratello si lasciò cadere bocconi, si ribaltò sul fianco e infine si distese. Aveva freddo. Domandò: Una coperta, avete una coperta? Avrai ciò di cui hai bisogno, disse il pittore, e cominciò a sgombrare gli oggetti abbandonati sotto l'alta finestra: chiuse una scaletta battendo sui due lati e la appoggiò da un'altra parte; raccattò pezzi di tubo, valvole, seghe e guarnizioni varie e gettò il tutto in una scatola di cartone; con il piede ammassò frammenti di calcina, carta e trucioli; staccò da un chiodo una giacca logora con motivi a spina di pesce, batté sulle tasche, la piegò e la sistemò sotto la testa di mio fratello perché gli facesse da cuscino.

Klaas respirava faticosamente e mi guardava con un'espressione tristissima. Se oggi ripenso a lui in quella posizione e lo rivedo attraverso tutta quella polvere e le nebbie del ricordo, mi pare che mi lanciasse un segno furtivo, un segnale segreto come per pregarmi di restargli vicino. La polvere gli cadeva sul volto e sulle palpebre. Io allora non compresi quel segno. Il pittore percorse un'altra volta la stanza, considerò che cosa doveva fare e rinunciò. Mio fratello si girò sul fianco e nascose il viso nell'arco del braccio. Non ha ancora mangiato niente, dissi, e misi il pane sul materasso dalla parte della testa. Una cosa per volta, ammonì il pittore; se combinate tanti guai bisogna procedere con ordine, una cosa per volta. Con calma avrà quello che gli occorre. Vieni adesso, è bene che stia solo, e intanto io rifletterò sull'accaduto.