Scienze naturali
Tetjus Prugel era più lesto nel picchiare di altri insegnanti e anche più efficace. Poiché picchiava con grandissima veemenza soprattutto chi era disattento - non i negligenti, gli stupidi o i duri di comprendonio - quel giorno, in classe nostra, nessuno osò guardare i vetri che tutta la mattina avevano tremato per lontane detonazioni, nessuno osò osservare gli aerei che sfrecciavano a bassa quota balzando dal mare oltre la diga, puntavano verso la strada asfaltata, viravano quasi sopra le nostre teste - si potevano distinguere i colori inglesi - e proseguivano in direzione di Husum. Ogni volta che i motori mutilavano il suo discorso, Prugel guardava il soffitto con aria sarcastica, attendeva che il rumore diminuisse, quindi riprendeva a parlare ritrovando senza fatica la frase o addirittura il predicato. Quell'uomo largo e calvo che si tuffava non appena i ghiacci andavano alla deriva e che poteva diventare paonazzo in una maniera davvero impressionante - e allora era sufficiente a riscaldare, se non tutta la scuola, almeno un'aula - quell'uomo, dico, non vide alcun motivo di rinunciare all'ultima ora. Insisteva con la sua lezione anche se doveva interrompersi di continuo per via delle detonazioni e degli aeroplani che quel mattino parevano molto inquieti.
Noi eravamo inchiodati ai banchi, con la schiena ritta, le mani appoggiate sul piano leggermente obliquo e i volti puntati verso di lui, pendevamo dalle sue labbra, succhiavamo timorosamente la sua scienza: tutto sui pesci, no, sulla genetica dei pesci; ma non è esatto nemmeno così, bisogna dire sul miracolo della formazione di una nuova vita nei pesci. Era questo miracolo che voleva mostrarci in quella calda giornata di fine aprile o di inizio maggio, nella cosiddetta ora di scienze naturali, con l'aiuto del suo microscopio personale che si era portato in classe. Il microscopio era già stato montato, e là vicino giacevano le due scatole di metallo con il misterioso contenuto che avrebbe dovuto fornirci la prova di quel miracolo. Heini Bunje e Peter Paulsen avevano ricevuto un ammonimento che doveva essere esemplare per tutta la classe: tre colpi ben centrati, anche se improvvisi, sulla punta delle dita; in questo modo Prugel aveva ottenuto l'attenzione generale e se l'era garantita per qualche tempo.
Certamente varrebbe la pena di soffermarsi alcuni istanti su Prugel, di descrivere le sue vecchie ferite e farsene raccontare la storia; quando era di buon umore capitava che mostrasse l'ombra mobile di una pallottola di rivoltella rimasta conficcata nelle carni, sopra le costole. Sarebbe altrettanto illuminante far visita alla sua famiglia originaria del Meclemburgo, che con ogni tempo lui convinceva a compiere lunghe passeggiate sulle dune naturalmente in tuta sportiva. Non volendo affatto renderlo irriconoscibile con tante descrizioni, mi limito a constatare che nella nostra classe quel giorno era in corso la lezione di scienze naturali sul tema: il miracolo della formazione della vita nei pesci.
Dunque Prugel parlava, mentre lontano, molto lontano - la cosa dunque non doveva riguardarci - si sentiva un calibro ottantotto e di tanto in tanto interveniva anche una batteria contraerea da venti; rari erano invece i cannoni da centocinquanta: avevamo imparato a distinguerli dal rumore e dall'onda d'urto. Come sempre Prugel se ne stava in piedi, immobile, davanti alla lavagna - come il bravo partner di un lanciatore di coltelli - e ci paralizzava con lo sguardo. A un certo punto, abbassando il tono della voce, ci invitò a immergerci nel mondo dei pesci. Tutte queste specie, disse, tutti questi nomi: piccoli e grandi. Una buona volta anche voi, bestioni, dovete immaginarvi questa vita, disse, questi esseri viventi che si muovono sul fondo del mare: pescecani, aguglie, sgombri, l'anguilla, la lepre di mare, il merluzzo e non va dimenticato il passero dei mari, l'aringa. Che cosa accadrebbe, si chiese, se i pesci non continuassero a riprodursi? Una dopo l'altra, si rispose, tutte le specie scomparirebbero. E che cosa sarebbe un mare senza pesci? Un mare morto, ovviamente. Quindi, per qualche istante, divagò sul magistrale disegno della natura dove tutto pare perfettamente pensato e previsto. Scomodò persino la macchina a vapore per dimostrarci, con un esempio, come la vita sia combustione di forze, e non dimenticò la selezione naturale; quindi, a capofitto, si rituffò nei pesci.
Dunque anche i pesci - notoriamente muti, ma in realtà non lo sono affatto - hanno organi sessuali, differenze sessuali nonché aperture sessuali. Nel tempo della deposizione delle uova gli esemplari dei due sessi si radunano in banchi piuttosto grossi, cercano un fondale poco profondo nelle adiacenze della foce di un fiume o vicino alla costa, percorrono lunghi tratti, e talvolta, come sicuramente avrete già sentito, risalgono i fiumi superando notevoli ostacoli: basta pensare al salmone. In un luogo protetto e dove sia facile procurarsi del cibo vengono allora deposte le uova, sovente a grappoli, e i pesci maschi le fecondano con il loro seme. Certamente i teleostei… Prugel si interruppe e, dimostrando un autocontrollo che doveva esprimere il suo disprezzo, attese che la folle ombra di un aereo fosse sfrecciata sul nostro campo sportivo e che il frastuono si fosse smorzato. Allora riprese: e una gran parte degli squali dà alla luce piccoli pesci vivi, ma è solo un episodio marginale che voi, bestioni come siete, dimenticate. L'uovo: la vita è racchiusa nell'uovo. E sorprendente come solo pochissimi pesci si preoccupino dell'uovo appena deposto o si assumano la cura della prole. Il piccolo spinarello, sì, lui si costruisce il nido, fa la guardia alle uova e per un certo tempo protegge persino gli avannotti. Ci sono poi altre specie che inghiottono le uova e le trasportano tra gli opercoli fino alla nascita dei piccoli. Ma la maggior parte dei pesci abbandona l'uovo a se stesso, non si cura né dello sviluppo né dell'allevamento dei figli. E il pesciolino? Non cresce dentro, come pensate voi bestioni, ma sta sopra all'uovo e a poco a poco se ne stacca.
Ma di questo, disse Prugel, potrete convincervi da soli fra poco. Oggi vi ho portato la materia - disse: la preziosa materia — dalla quale si sviluppa la vita. Attraverso il microscopio osserveremo il fatto da vicino.
In lontananza si annunciò la batteria contraerea a quattro bocche da fuoco e il fratello maggiore, l'ottantotto, finì di sgretolare lo stucco, del resto già screpolato, dei nostri vetri. Ma Prugel diede l'impressione di non voler prestare il minimo ascolto a rumori di nessun genere e montò sulla cattedra. Aprì prima il coltello a serramanico e poi le due scatolette di metallo. Annusò il contenuto, con la punta del coltello ne tolse una piccola massa verde grigia e la trasportò su alcuni vetrini uniformandola con il polpastrello, la distribuì cioè sulla superficie del vetro con ripetuti tocchi leggeri. Allora inserì il vetrino e si chinò sul microscopio. Chiuse un occhio contraendo la faccia in una smorfia ghignante, annaspò intorno allo strumento finché trovò la manopola nera, la girò e ottenne la nitidezza desiderata, quindi di scatto — si sentì il crepitio - si rizzò e ci passò in rassegna. Trionfante. Avvertendoci. Ma ci squadrò anche con aria scettica come se considerasse sciupate, buttate via, le cose che pensava di mostrarci. Ordinò: In piedi, saltare, in piedi, e ci ingiunse di avvicinarci e di formare una fila: in fila, bestioni. Ci tirò e spinse finché tutti ci fummo avvicinati e allineati, le ginocchia ben tese, in una formazione irreprensibile. Eravamo dunque pronti a gettare un profìcuo sguardo al miracolo. All'uovo del pesce.
Grazie a Dio il primo era Jobst; per primo avrebbe dovuto dire ciò che bisognava riconoscere. Lo osservammo paralizzati dalla tensione: si chinò, si girò a guardare ansiosamente Prugel ma poi, appoggiandosi sulle punte dei piedi, si inarcò sul microscopio. Più giù, ordinò Prugel, più vicino. E il pingue mostro fece aderire l'occhio alla lente e cominciò a fissare. Continuò a osservare mentre il suo poderoso deretano tendeva il pantalone e il velluto a coste si infilava tra le natiche. A un certo momento disse: Uova, forse di aringa. Ma che altro vedi? chiese Prugel, e Jobst, dopo avere osservato intensamente ancora per qualche attimo: Uova, parecchie uova di pesce.
Jobst potè tornare al banco. Sapevamo dunque che cosa dovevamo dire per poter essere rispediti ai nostri posti. Dopo Jobst, con le dita gonfie e blu che certamente gli ronzavano per il dolore, prese il microscopio Heini Bunje. Mentre Bunje analizzava il campione, Prugel intervenne per dire: Non pensate a uova di pesce fritte, affumicate o in salamoia, non pensate al cibo, bestioni, pensate al miracolo racchiuso in ciascun uovo. Una vita autosuffìciente in ogni piccolo uovo. Molte di queste piccole vite sono destinate a soccombere presto, servono come sostentamento, eccetera eccetera, ad altre vite. Solo i più forti, i migliori, i più resistenti e così via sopravvivono e conservano la specie: è sempre così dovunque, naturalmente a prescindere da voi. Una vita di scarso pregio deve necessariamente scomparire. L'ordine della natura prevede questa regola e noi dobbiamo rispettare il suo disegno.
Un girino, gridò Heini Bunje, un minuscolo girino. E già qualcosa, disse Prugel, e lo corresse: Un pesciolino che sta per uscire, guarda bene. E morto, gridò Heini Bunje e Prugel: Lo spreco, eccovi un esempio dello spreco che può permettersi la natura. Cento, ma che dico, mille, persino centomila piccole uova, e questo nella speranza che ne siano risparmiate quelle poche che garantiscano la conservazione della specie. Selezione, dico, e sempre: lotta. Nella lotta i deboli periscono e restano i forti. Quel che si verifica nei pesci accade anche con noi. Tenetevi a mente questo: il forte vive del debole. Inizialmente tutti hanno le stesse possibilità, ogni uovo racchiude e alimenta una vita, ma quando ha inizio la lotta, quello che è indegno - disse veramente: indegno - resta sul terreno.
Dopo aver partorito queste e altre verità, mi fece un cenno perché mi avvicinassi al microscopio. Mi lasciò libero il campo e disse: Sentiamo un po' quel che scopre il nostro Jepsen, e nello stesso istante mi venne vicino con la riga in mano. Non mi ero ancora chinato sul microscopio che già voleva per così dire riscuotere il suo balzello. Mi chiese: E allora? Osservai frettolosamente il casuale disegno formato dalle palline verdastre ammaccate qua e là - parevano di gelatina - e stavo già per pensare a qualcosa di preciso quando la sua riga mi visitò nell'incavo delle ginocchia, scivolò senza farmi male lungo le gambe e la sua frescura risalì fin sulle cosce. Ma non tolsi l'occhio dal microscopio: tollerai le peregrinazioni della riga e ricercai un segno che mi svelasse il miracolo promesso. Piccoli occhi sbarrati, un minuscolo corpo trasparente e tra l'uovo e il pesce il cordone ombelicale: credevo di aver riconosciuto questi elementi, tuttavia mi pareva che non bastassero. Volevo… ma non so nemmeno più che cosa volessi. Forse non dissi una sola parola perché mi sentivo deluso da quel che mi si presentava sotto il microscopio. Niente? chiese Prugel, dunque niente? Nasello, dissi per mia fortuna, potrebbero essere uova di nasello. Alle mie parole ritrasse la riga e confermò: Proprio così, di nasello. Ma la sua osservazione non fu quasi sentita perché sopraffatta da un grido: Gli inglesi, sono inglesi! E noi ci precipitammo alla finestra.
Nel cortile della scuola si era fermato un polveroso autoblindo. La lunga antenna vibrava e i cannoni, modesti in verità, erano puntati contro una delle porte dipinte in bianco del nostro campo di football. Due uomini, che sembravano inglesi, uscirono dalla botola, si fecero passare le mitragliatrici, gridarono qualche parola all'autoblindo fermo alle loro spalle e si mossero verso la scuola. Parevano pronti a scattare, stavano all'erta. Indossavano una divisa kaki e stivali stringati. Erano giovanissimi. Tutti e due avevano le maniche rimboccate.
Vicini uno all'altro, si diressero verso l'ingresso camminando nel sole. Rasentarono l'asta della nostra bandiera, e mentre io pensavo: ma quando guarderanno su, sollevarono la faccia e ci videro. Si fermarono e si indicarono reciprocamente la scolaresca incollata contro i vetri. Si consultarono. Quindi si ordinarono vicendevolmente di procedere e scomparvero, tagliando obliquamente il nostro campo visivo, nel portone della scuola.
Saremmo rimasti dietro ai vetri che continuavano a tremare, se il maestro Prugel non ci avesse ordinato: In fila. Poiché secondo lui non eseguivamo l'ordine con la dovuta rapidità, vibrò la sua riga sulle nostre schiene, facendola schioccare o usandola come un pungolo; ci spinse via dalla finestra e ci dispose in una fila che cominciava dalla cattedra e continuava in mezzo ai banchi. A Jobst, a Heini e a me fu concesso di tornare al posto.
Ma non pensate che il professore abbia chiesto: Dove siamo rimasti? o qualcosa del genere. Benché nel cortile della scuola sostasse un autoblindo e nell'edificio scolastico fossero già entrati due soldati inglesi, disse: Si tratta di uova di nasello. Jepsen ha visto giusto. Uova di pesce di cui si nutrono altri pesci.
Ma che altro si può ravvisare in un uovo? Bertram! E Kalle Bertram si scostò dalla fronte i capelli biondo cenere e si chinò sul microscopio. Noi tutti - meno Prugel - stavamo in ascolto con la bocca aperta e, per quanto ci fosse possibile, tenevamo d'occhio la maniglia della porta. Era un rumore di passi? Accento inglese? No, era Kalle Bertram che nello sforzo dell'osservazione si sgranchiva le gambe. Ma la maniglia non si muoveva? Si muoveva. Prima che Kalle Bertram avesse il piacere di commentare il miracolo contenuto nell'uovo, la porta si aprì. Rimase spalancata, ma non comparve nessuno: si poteva supporre che la serratura fosse scattata da sola. Nello stesso istante in cui Prugel molto probabilmente stava per dire: Jepsen, chiudi la porta, entrarono due soldati. Erano entrambi biondi, entrambi con gli occhi chiari, entrambi con le facce arrossate.
Avanzarono fino a metà del corridoio laterale, si volsero verso di noi e ci passarono in rassegna, come se sperassero di riconoscere una faccia incontrata in un lontano passato. Uno di loro disse: Niente guerra, guerra finita, voi a casa. Credo che noi li guardassimo imbambolati. Continuarono a fissarci con lo stesso sguardo indagatore, ma non per molto tempo perché erano attratti dalla cattedra e dalla lavagna; ce ne accorgemmo subito. Uno prese il cancellino, lo strinse fra le mani e poi lo rigettò nella cassetta; l'altro ciondolò nei pressi della cattedra, e in silenzio, con un semplice gesto della mano, invitò il maestro Prugel a sedersi. Ma il maestro Prugel rimase in piedi e l'inglese dal canto suo non insistette perché il suo ordine venisse eseguito: forse in quel momento aveva scoperto il microscopio. Si avvicinò al microscopio, ci lanciò un'occhiata diffidente, chinò il viso e si rizzò; si rizzò con stupore, devo dire, e fece cenno al compagno. In due passi questi lo raggiunse e gli rivolse un gesto interrogativo; l'altro rispose indirizzandolo al microscopio. Anche il secondo inglese guardò allora attraverso la lente, premette l'occhio contro l'oculare e osservò con molta attenzione come se avesse visto una sirena oppure un pinnipede o, per dirla in breve, come se avesse scoperto qualcosa che noi tutti, persino il biologo Prugel, ci eravamo lasciati sfuggire. Che cosa guardava? Che cosa scopriva nell'uovo di nasello?
Si staccò dal microscopio solo quando il suo commilitone gli batté sul collo. Assentirono muovendo la testa: avevano visto ciò che a loro importava. Uno dopo l'altro avanzarono lungo la parete con le finestre e raggiunsero il fondo della classe dove si trovava il nostro armadio di storia naturale: un armadio a vetri a due ante, eternamente chiuso: una delle sue chiavi arricchiva da tempo la mia collezione. Per ovviare all'effetto di rifrazione, accostarono il volto al vetro: quelle cose morte sogghignavano. Sogghignava lo svasso imbalsamato, sogghignavano la folaga imbalsamata e la puzzola che correva su un tronco d'albero lucidato, sogghignavano la lepre imbalsamata, il corvo e il luccio che brillava come pergamena grazie allo speciale trattamento cui era stato sottoposto, e persino l'orbettino sogghignava nella sua sfera di vetro, sogghignava nonostante le impossibili spire. Senza parlare i due inglesi si additarono l'un l'altro le loro scoperte e si accoccolarono sulle ginocchia per osservare lo scheletro di una foca. Uno tentò di aprire l'armadio. Finalmente si scambiarono un cenno d'intesa e si avviarono verso la porta. Noi immaginavamo che non ci avrebbero detto niente andandosene, che non avrebbero avuto niente da dirci, invece sulla soglia si fermarono e guardarono la classe. Uno di loro disse ancora: Guerra finita. Allora se ne andarono.
E Prugel? Ci aveva dimenticati? Aveva dimenticato il microscopio e il miracolo racchiuso nell'uovo? Perché la sua riga non correggeva più l'ordine della fila? Per quale ragione ammetteva che alcuni di noi andassero alla finestra e rimanessero incollati contro il vetro? Ricordo esattamente che stritolò un pezzo di gesso fra le dita. Ricordo anche che contrasse le labbra, buttò indietro la testa socchiudendo gli occhi e respirò affannosamente. Ricordo pure la fissità e il pallore del suo viso: all'improvviso sembrò un atleta allo stremo delle forze. Delusione, disorientamento e rabbia. Il movimento lento, ondeggiante del suo corpo. Ansimava. E ricordo come avanzò barcollando verso la cattedra, come salì trascinandosi faticosamente sulla predella e subito si accasciò: trovò la forza di afferrare la seggiola e si lasciò cadere. Tutta la classe fu testimone: si nascose la faccia tra le mani, rimase seduto per qualche istante in quella posizione e sospirando si strofinò la faccia con il palmo delle mani, piano, come volesse togliersi uno strato di pelle che si stava staccando. E ricordo anche l'attimo in cui si alzò con fatica superando un'immane resistenza, chiuse le due scatolette di latta e si strinse nelle spalle. Guardò la classe, stava per dire qualcosa ma non riuscì a proferire parola: Prugel, il nostro esperto di scienze naturali. Con un ultimo sforzo ci ordinò: Andate a casa, e mentre noi in fretta e furia raccoglievamo le nostre cose rimase immobile, non fece nemmeno l'atto di uscire dall'aula. Rimase in piedi accanto al microscopio, indeciso e disorientato, lasciò che uscissimo e non rispose ai nostri saluti: in quella posizione vidi per l'ultima volta l'insegnante di scienze naturali Prugel.
Il corridoio, la scala, appena il maestro ci lasciò andare, si trasformarono in un toboga. Balzammo, rotolammo, scivolammo verso l'uscita, ma il cortile era vuoto e l'autoblindo stava voltando sulla strada asfaltata per proseguire verso nord. I miei compagni corsero sulla strada a guardare ed erano ancora là, ammassati, quando io arrivai sulla nostra strada di mattoni. Ero ormai irraggiungibile per Jobst e Heini Bunje, che quel giorno forse non sentivano la mia mancanza. Il mio distacco aumentò e non mi buttai nemmeno una volta sulla scarpata, quando alcuni piccoli aerei scavalcarono la diga: le loro ombre sfrecciavano sulla mia testa, le eliche scintillavano come una sega circolare e solcavano quella limpida giornata. Giornate simili ce le porta solo la primavera: limpide, con poche nubi immobili, giornate con una luce dura e il vento di tramontana che brucia sulla pelle.
La porta di casa era aperta. La bicicletta di Hinnerk Timmsen era appoggiata al muro vicino alla scala. Mio padre era nel suo ufficio: stava telefonando, sbraitava alla sua solita maniera. Lo si poteva sentire fin dal capannone: Armi ricevute, signorsì, numerose, signorsì, gli uomini sono istruiti. Cominciai a correre. Garantire sicurezza della strada, signorsì, gridò mio padre, e dopo una pausa: Sarà fatto. Con due salti salii la scala di cemento e mi precipitai nel corridoio. Anche i bracciali, signorsì, gridò mio padre, e senza dubbio alludeva alle fasce che dal vestibolo vidi ammucchiate sulla credenza di cucina. Hinnerk Timmsen era in piedi davanti al tavolo e mi accolse con queste parole: Adesso viene il bello; volendo risparmiarsi ulteriori spiegazioni mi mostrò gli aggeggi militari radunati sul tavolo: bombe a mano in cassette nuove di zecca, bazooka, carabine e munizioni. Gli chiesi chi avesse portato quella roba nella nostra cucina e Hinnerk disse: Nessuno, Siggi, nessuno pensava che avremmo dovuto tirarci fuori da soli un'altra volta. Da Husum? domandai. Ma lui non mi diede risposta. Prese in mano un bazooka, alzò il congegno di puntamento e mirò alla nostra sveglia; poi prese di mira i vasi nemici di riso, semolino e tapioca e li rese innocui senza far rumore. Esaminò le carabine, lesse le scritte e constatò: Materiale bellico italiano; il che non ispirava certamente fiducia. Mise le bombe a mano sotto il tavolo e contò le munizioni. A un certo momento entrò mio padre: Seicento colpi circa, Jens. Stanno arrivando tutti, rispose il poliziotto, le sentinelle sono già scaglionate. Noi garantiremo la sicurezza della strada. Noi due? Kohlschmidt e Nansen si uniranno a noi. Nansen? Sì, e adesso infilati una delle fasce: entra in azione la milizia popolare.
Hinnerk Timmsen si infilò la fascia sulla manica del giubbotto giallo zafferano. Non compì un gesto meccanico, casuale, ma lo fece con scrupolosa attenzione: giudicò la fascia prima troppo in alto, quindi troppo in basso, e quando finalmente si disse soddisfatto della sua posizione io gli fissai con due spille di sicurezza quella striscia di tessuto che doveva trasformarlo in un soldato. Quell'uomo robusto, che si era provato in tanti mestieri, esaminò un'altra volta davanti allo specchio la posizione della fascia, quindi aiutò mio padre a suddividere il materiale bellico in quattro mucchi. Frattanto beveva a piccoli sorsi il tè che Hilke gli aveva versato: a giudicare dalla sua espressione, non doveva piacergli. Io allora riferii dell'autoblindo che si era smarrito nel cortile della nostra scuola, e Hinnerk Timmsen uscì fuori con un bazooka in mano per sincerarsi che tutto fosse in ordine. Tornò di lì a poco dispensando tranquillizzanti gesti della mano. C'è aria pulita, disse, e si sedette sulla panca vicino a mio padre. Rimasero in silenzio. Del resto non avevano molto da dirsi poiché tutto era già stato deciso e tra loro non restavano punti oscuri da chiarire; il sovrintendente alla diga, tra l'altro, aveva ritirato la sua denuncia contro Hinnerk dopo una chiarificazione alla quale era intervenuta la guardia della stazione di polizia di Rugbiill. Io mi ero messo dietro alla finestra e non perdevo d'occhio i prati. Chi sarebbe venuto per primo? Da noi dunque entrava in azione la milizia popolare.
Per primo venne il pittore. Lo vidi arrivare dai prati con il suo lungo cappotto azzurro, il cappello in testa e le mani sprofondate nelle tasche. Sta arrivando zio Nansen, annunciai, e mio padre disse: È ora. Per quale motivo, chiese Timmsen a voce bassa, perché vuoi che venga anche lui, Jens? Proprio adesso che tutto può decidersi da un momento all'altro. Appunto per questo, disse mio padre. Adesso che tutto può decidersi da un momento all'altro voglio averlo vicino: è meglio, Hinnerk, credimi. Ma di' piuttosto che non ti fidi di lui. Già, è così, disse mio padre. Se potessi fidarmi di lui non avrei bisogno di tenermelo vicino. Si alzò, guardò dalla finestra il pittore che stava arrivando. Non era né il solo né il primo. Si fermò sotto il cartello con la scritta "Stazione di polizia di Rugbil", gesticolò verso il podere dei Sollring, attese, sventolò il braccio un'altra volta, con minor forza, e fece qualche passo incontro all'uccellatore Kohlschmidt. Una stretta di mano. Un accavallarsi di domande. Kohlschmidt faceva grandi cenni, tentava di persuaderlo, cercava di convincerlo o per lo meno di strappargli un'approvazione non so a quale proposito. Il pittore sembrava indeciso: continuando ad ascoltare, prese Kohlschmidt per il braccio, lo guidò verso casa nostra e lo trascinò su per le scale. Non si sentivano ancora i loro passi strascicati nel vestibolo che già la guardia della stazione di polizia di Rugbiill si predisponeva a riceverli; diciamolo pure: assunse un atteggiamento marziale. Con il busto ben eretto, le gambe leggermente divaricate, immobile, comodo ma non troppo, si piazzò al centro della cucina dimostrando così di esigere totale ubbidienza per l'autorità derivatagli dalla carica di istruttore serale e da quel giorno comandante distrettuale del cosiddetto Volkssturm. A Timmsen che si stava preparando una sigaretta disse in tono brusco: E vietato fumare.
Attese dunque i due uomini nella posa che gli parve richiesta dalle circostanze e rispose distrattamente al loro saluto non lasciando alcun dubbio in merito a chi dovesse salutare per primo. Li pilotò verso la panca della parete di fronte e disse: Sedetevi vicino a Hinnerk. Quando i due si furono seduti, si rilassò, raggiunse il tavolo, appoggiò la mano sul calcio di un fucile italiano, ne accarezzò il calcio, e così facendo ottenne che quegli uomini levassero incuriositi gli sguardi senza porre domande. Ma non fu il primo ad avere la parola. Il primo fu l'anemico uccellatore Kohlschmidt che con un movimento del tutto inatteso si svincolò dagli altri, si sollevò con una certa fatica e disse con voce chiara: Ma è una fesseria, è una grossa fesseria quella che facciamo. Sono già arrivati all'Elba, sono entrati a Lauenburg, sono a Rendsburg e magari la loro avanguardia è già qui. Tutti la fanno finita e solo noi, solo noi qui, vogliamo cominciare daccapo. E dovremmo fermarli con un pugno di vecchi rimbambiti e con un paio di forbici. Se il tutto avesse senso… ma non ha senso, è una pura fesseria!
Visibilmente eccitato, Kohlschmidt si lasciò sprofondare in mezzo agli altri. Poi pescò dal taschino della giacca la pipa corta, aggiustata con del nastro isolante nero, e se la mise in bocca. E vietato fumare, disse mio padre, e con queste parole avrebbe iniziato la sua risposta se non fosse stato preceduto da Hinnerk Timmsen. Pur con tutto il suo slancio oratorio, l'oste del Wattblick non riuscì a dimostrare la non assurdità della resistenza. Proprio nel momento in cui tutto sembrava perduto lui voleva continuare a resistere: perché è un dovere verso se stessi. Finché le cose vanno bene è facile dar buona prova di sé, ma è proprio quando il successo non arride in modo certo che bisogna essere pronti al massimo sacrifìcio. Quanto a lui, poi, non aveva mai dato niente per perso rinunciando in anticipo a lottare. E chi sa se adesso è veramente tutto inutile, si potrebbe in fondo dare un esempio e comunque far meditare il nemico. Questo lo si poteva certamente fare: opporre una resistenza tenace e inattesa che non doveva necessariamente durare in eterno. Tentare almeno di resistere: questo lo si doveva fare in ogni caso.
Poiché gli altri avevano espresso le loro opinioni senza essere stati invitati, mio padre tacque dopo le parole di Hinnerk e si mise a fissare Max Ludwig Nansen in un modo che questi non potè non comprendere: Ora tocca a te dire la tua. E il pittore non indugiò. Perché in casa, disse, possiamo aspettare anche fuori. Non aggiunse altro. Anche quando mio padre lo invitò a esprimersi con maggior chiarezza, confermò solo quanto aveva detto rinunciando a spiegare la propria posizione.
E la guardia della polizia distrettuale di Rugbull? Ovviamente anche lui doveva chiarire il suo punto di vista: da lui infatti dipendeva, se non tutto, senz'altro gran parte di ciò che si doveva fare. Ma il poliziotto prese tempo, distinse i punti negativi da quelli positivi emersi dalle diverse affermazioni, li confrontò, tracciò una riga e fece la somma. Dopo aver riflettuto con la solita tenace lentezza rese noto che c'erano ordini precisi e che, se c'erano, era per una ragione precisa: gli ordini andavano dunque eseguiti e per di più alla lettera. Nel caso specifico si trattava di difendere la strada. Quindi, disse mio padre, noi ci assumeremo la difesa della strada a partire da questo momento, e chi non ha ancora la fascia ne prenda una. Entreremo subito in azione.
Con questi e simili discorsi entrò in campo da noi la milizia popolare. Poiché mio padre e il pittore dovevano garantire insieme la difesa della nostra strada - una via in realtà fuori mano e scarsamente importante, ma sempre carrozzabile - alla mia mente affluirono immagini precise: una buca umida, si capisce, profonda un metro e mezzo circa, prevista per quattro uomini; sul lato sud un terrapieno; sul terrapieno schizzano i proiettili, o più esattamente i proiettili si schiantano solo in un primo momento contro la parete di terra perché dopo molti attacchi infruttuosi, oltre a questa tenue protezione, si forma un altro sbarramento, un vallo di corpi esanimi, si capisce, dal quale spuntano mani protese verso il cielo; e davanti, sparsi sul prato con i cingoli sconnessi e le torrette sfondate, numerosi carri armati; alcuni fumano ancora con foga e nascondono così i resti, sorprendentemente miseri, degli aerei abbattuti conficcati per lo meno fino al seggiolino del pilota nel terreno torboso. E io ero addetto alle mansioni più disparate, procacciare munizioni, cibo, acqua, e come molti uomini avevo anch'io la mia bella fasciatura intorno alla testa, forse opera di Hilke. Visioni! Come se si fosse giocato agli indiani in un modo diverso!
Ma non era facile scacciare quelle visioni mentre gli uomini si mettevano la fascia al braccio, si distribuivano le armi e stabilivano il posto dove, per così dire, si sarebbero accaniti i carri armati inglesi. Fu deciso sotto il mulino, il mio mulino: avrebbero scavato una trincea nella collina artificiale perché da quel punto si vedeva la strada sino alla Husumer Chaussee e si poteva contemporaneamente difendere la vecchia chiusa; inoltre il pascolo degli Holmsen avrebbe offerto spazio sufficiente per eventuali carri armati e aerei abbattuti. Si misero a tracolla le carabine e in ispalla i bazooka, presero le cassette con le munizioni e le bombe a mano e si mossero all'unica andatura consentita dal peso dell' armamento. Uscirono comunque dalla cucina a passo di trotto, ma quando scesero sulla strada ammattonata già le loro ginocchia cedevano; un po' troppo presto, direi. Io trottai dietro di loro mentre Hilke e mia madre seguirono il nostro esodo dalle loro stanze. Lo seguirono con un certo interesse. Poiché gli altri erano carichi e armati e non potevano salutare, salutai io per loro le due donne: Hilke mi rispose con un gesto di minaccia; mia madre non rispose affatto. La nostra milizia popolare entrò dunque in azione.
A pochi metri dal mulino fu scavata la trincea con le due vanghe che avevo portato. Era una buca nella quale un uomo sprofondava fino al petto e che tuttavia non presentava acqua freatica sul fondo, il che da noi vuol dire già qualcosa. Tutt'intorno scavammo dei condotti orizzontali per le bombe a mano e le munizioni; vi infilammo anche alcuni bazooka. Particolarmente illuminante fu per me osservare i quattro uomini mentre scavavano: Hinnerk Timmsen fischiettava imperturbabile senza dare alcuna espressione alle sue melodie e serbava un sorriso incoraggiante pronto per chiunque ne avesse bisogno; Kohlschmidt palesava senza reticenza il suo malumore e continuò a imprecare imperterrito per tutto il tempo inventando alcune varianti interessanti delle usuali imprecazioni; Max Ludwig Nansen eseguiva qualunque ordine di mio padre con la stessa espressione glaciale e con un'attenzione implacabile: sembrava deciso a comunicare solo a gesti. E infine il poliziotto di Rugbùll: chiunque avesse osservato la scena avrebbe riconosciuto in lui il protagonista, per la solerzia nel congetturare, calcolare e correggere che dimostrò sia nel sovrintendere allo scavo della trincea, larga anche se non molto profonda, sia nel verificare il poligono di tiro; in effetti mio padre pareva interamente assorbito da quella trincea sotto il mulino, dal suo tracciato e dalla sua mimetizzazione. In tre o quattro ore quei tipi dal temperamento tanto diverso riuscirono a costruire una postazione discreta che diffìcilmente poteva venire avvistata e aveva il pregio di sovrastare la strada. Era inoltre facile da difendere su tre lati: solo verso il Mare del Nord era senza riparo ed esposta a eventuali pericoli, un rischio che ci si poteva tuttavia permettere data la notevole improbabilità di uno sbarco. E dall'alto? Quando disseminammo di zolle d'erba il parapetto piuttosto basso, la nostra fortificazione, vista dall'alto, avrebbe probabilmente ricordato una cacca di mucca un po' troppo grossa ma pacifica, piazzata all'ombra del mulino. Poiché tutti gli accertamenti e i sopralluoghi risultarono soddisfacenti, i quattro uomini, aiutandosi a vicenda, scesero nella trincea, appoggiarono le carabine e i tre bazooka sulla spalletta e si misero a osservare intensamente la strada fino alla Husumer Chaussee, pronti a far fuoco al momento opportuno.
Mi avevano mandato via due volte e per due volte ero tornato. Al terzo avvertimento che mio padre pronunciò con flemma, con una calma per me sinistra, seppi immediatamente che cosa dovessi aspettarmi se fossi ricomparso una terza volta. Falciando i ranuncoli, mi ritirai dunque verso la diga, eseguii un'ampia diversione, e dopo un po', senza farmi notare dalla milizia popolare, me ne tornai al mulino e mi arrampicai fin sotto la cupola, nel mio nascondiglio: non dimenticai di ritirare la scala affinché nessuno potesse seguirmi.
Si vedeva già qualcosa? Mi ero lasciato sfuggire qualcosa? Strappai dalla finestra i pezzi di cartone, mi buttai sul pagliericcio e feci funzionare le mie antenne. Innanzi tutto guardai la postazione sotto di me - la guarnigione era sempre al completo - ma poi spinsi lo sguardo verso il nastro lucido d'asfalto della Husumer Chaussee. Lì un punto avanzava rollando, qualcosa veniva spinto e tirato: una carretta zeppa di roba e, intorno, una mezza dozzina di uomini. Nemmeno un autoblindo. Neppure un carro armato. Anche dalla parte di Glùserup non si vedeva niente e il Mare del Nord, che ispezionai per precauzione, era pulito fino all'orizzonte. Nessun aereo nemico scambiava il cortile della scuola per un parcheggio. Niente si muoveva nel cimitero di Riepen. Solo una carretta, un obiettivo di scarso interesse per quei quattro uomini all'erta, un motivo che non poteva certamente indurli a scatenare una bufera artificiale.
Già allora mi stupii che la nostra milizia popolare non pensasse all'opportunità di mettere qualcuno in vedetta sul mulino, e poiché gli uomini non esaminarono questa necessità, io mi considerai, benché non richiesto e neppure autorizzato, la loro sentinella personale. Agivo comunque per mio conto. Del resto si possono compiere azioni utili anche senza averne l'autorizzazione: in caso di pericolo, io avrei trasmesso loro qualsiasi particolare qualora avessi avvistato un carro armato o un autoblindo. Ma niente pareva incline a mostrarsi né in primo piano né sull'orizzonte, perfettamente nitido anche in lontananza. Sembrava inconcepibile, eppure non si vedeva proprio niente che meritasse di essere bersagliato da una scarica di proiettili. Anche gli uomini sotto di me se ne resero conto, e dopo una mezz'oretta di dura ma infruttuosa vigilanza si consultarono e convennero sull'assurdità che un orizzonte libero dovesse essere vigilato da tutti. Si accordarono rapidamente, e si divisero in due gruppi: due uomini continuarono a intrattenere lo stesso rapporto con l'orizzonte, mentre gli altri, li chiameremo sentinelle a riposo, sedettero sul fondo della buca, sonnecchiarono, recuperarono le forze, eccetera eccetera. Mi fu subito chiaro che mio padre e il pittore avrebbero deciso per lo stesso turno di guardia; in un secondo tempo sarebbero stati di sentinella Timmsen e l'uccellatore. Aspettarono davanti alle loro carabine e ai bazooka. Avrei potuto dare l'allarme se a un tratto i tondi cespugli vicino al podere dei Sòllring avessero cominciato ad avanzare verso di noi, ma gli arbusti restarono fermi. O se la siepe di biancospino di Riepen si fosse appiattita. O se si fosse avvicinato un animale di una specie sconosciuta ornato di fronde di betulla. Eravamo costretti ad attendere. Senza nessuna intenzione precisa - tutt'al più desideravo passare il tempo - raccolsi pezzetti di stucco duro, incurvato, e piccoli frammenti di vetro. Ne radunai un bel mucchietto e, a titolo sperimentale, lasciai cadere un pezzo di stucco nel bel mezzo della nostra postazione. Colpì Hinnerk Timmsen sulla nuca. Hinnerk non immaginò certo di essere stato ferito, ma di essere stato pizzicato da Kohlschmidt: e subito gli diede una spinta così energica che per poco non lo mandò a gambe all'aria. Fin lassù sentii il loro breve litigio che mio padre compose probabilmente ricordando la gravità del momento. Poco dopo si offrivano già del tabacco.
Sporsi un braccio, aprii la mano, ritirai velocissimo il braccio, e vidi il frammento cadere nella buca confermando tutte le leggi di gravità e mandando intermittenti bagliori. Cosa che non avevo affatto previsto, il pezzo atterrò nella tabacchiera di Timmsen nello stesso momento in cui Kohlschmidt stava per prendersi una presa di tabacco. L'uccellatore tolse stupito il frammento di vetro, lo fissò nel modo in cui secondo me si guarda un meteorite piovuto dal cielo e per un istante lo usò come monocolo per osservare le nubi basse e in continuo movimento. Poi lo passò a Hinnerk Timmsen che, scuotendo la testa, lo lanciò fuori dalla postazione.
Decisi allora di far piovere sulla nostra milizia popolare un'intera manciata di pezzi di stucco e vetro, con l'obiettivo di colpire mio padre. Mi mancò tuttavia il tempo materiale per portare a termine questo proposito, perché nello stesso istante vidi qualcosa muoversi nella piana.
Una figura passò saltellando vicino alla chiusa, costeggiò il fossato, virò di bordo, e corse, ignara di tutto, verso la postazione: Hilke. Ma era davvero ignara? Portava un cesto e un bricco, il cesto nella destra e il bricco nella sinistra, e li faceva oscillare come se fossero stati le sue clave, lasciandosi portare in avanti dalle brevi oscillazioni. Raggiunse il sentiero invaso dalle erbacce, quindi il leggero pendio di un bel verde carico e arrivò davanti alla trincea. Se fosse dipeso da me, li avrei fatti mangiare prima gli uomini, ma Hilke non arrivò che in quel momento e solo allora porse il cesto e il bricco ai miliziani in piedi nella postazione. Voleva scendere sul fondo della buca ma mio padre glielo impedì. Sedette allora sul legno marcio delle pale del mulino e attese che la milizia popolare finisse di mangiare e bere. Mangiarono panini imbottiti e bevvero tè. La guardia della stazione di polizia di Rugbiill chiese con che cosa avessero imbottito il pane, e se si trattasse di un ripieno abbondante; quindi lo aprì, osservò il companatico, e visibilmente deluso mangiò la sua razione. Hinnerk Timmsen ritenne opportuno invitare mia sorella a scendere nella buca: le lanciò segni furtivi ma comprensibilissimi. Hilke scosse il capo sorridendo: sembrava sapere che cosa volesse quell'uomo. Il pittore non mangiò. In piedi, appoggiato contro la parete di terra, visibilmente assorbito nei suoi pensieri, bevve solo il tè e fumò. Kohlschmidt era seduto e masticava: confermando, anche con quel gesto, la sua irritazione per ciò che si pretendeva da lui. Mangiarono. Soltanto mio padre non perse d'occhio l'orizzonte.
Non potevo stare a guardarli mangiare, dovevo scendere di sotto. Mi calai dalla scala. Non si aspettavano di vedermi così all'improvviso: Hilke si spaventò veramente e sputò tre volte, il locandiere disse: Il piccolo, guardate se c'è qualcosa da mangiare. E qui anche lui. Ma di dove sbuchi? Di là, dissi, e feci un gesto con la testa indicando un punto qualsiasi della diga. Allora ti sono spuntate le ali? Sì, risposi. Mi diedero del tè. Lo bevvi dal coperchio del bricco e mangiai il pane che il pittore si era rifiutato di mangiare. Mangiai di lena anche quello lasciato dall'uccellatore, perché sul pane era stata spalmata salsiccia di fegato casalinga. Mio padre tollerò che mangiassi insieme a loro e che in quell'occasione ascoltassi i loro discorsi. Identificandosi nel loro ruolo, gli uomini della milizia popolare parlarono di un tipo di carro armato che è bene lasciar avvicinare al massimo e ne identificarono il punto debole nello scappamento. Parlarono delle previsioni del tempo per la notte, nebbia e gelate primaverili, e finirono anche per affrontare il problema delle lampadine tascabili e del modo di risparmiarne le batterie.
Solo il pittore non intervenne nei discorsi: di propria iniziativa, si era assunto l'incarico di montare di guardia. Gli altri tre, seduti sul fondo della buca, facevano l'inventario delle cose mancanti. Naturalmente mancavano le carte da gioco: nessuno ha delle carte? Timmsen aveva nel suo giubbotto un mazzo di vecchie carte che un tempo, quando terrorizzava ancora gli avventori con i suoi pezzi di bravura, facevano parte del suo "armamentario": Eccole, chi le dà? Mentre il pittore continuava a tener d'occhio l'orizzonte, alle sue spalle i tre uomini cominciarono ad ammazzare il tempo giocando a skat. All'inizio erano ancora distratti e prestavano attenzione a eventuali rumori, poi giocarono con accanimento e interesse sempre maggiori. Si lamentavano, calcolavano, dimostravano: Se tu non ce l'hai allora io… e quindi sarebbero le ultime due mani… si capisce.
Mio padre giocò per due volte quadri e perse per due volte consecutive. L'uccellatore Kohlschmidt si portò a casa un "grand" per due volte consecutive, ma questo non diminuì la sua irritazione: pareva che l'idea di vincere lo facesse impazzire di rabbia, e in realtà non mi è mai capitato di vedere un vincitore fosco come Kohlschmidt. Aveva bisogno di perdere per alimentare il proprio malumore, ma per sua disgrazia gli toccava aver fortuna. Altra merda, disse, e giocò la carta della vittoria. Hinnerk Timmsen, che si considerava abilissimo, si rivelò invece un giocatore mediocre. In ogni caso i tre uomini erano tanto presi da quella partita che se non dimenticarono il nemico, certamente si dimenticarono di me: nessuno mi costrinse ad allontanarmi. Mi fu dunque negata la gioia di osservare l'effetto prodotto da una manciata di pezzi di stucco secco e di frammenti di vetro lanciata sulla postazione dall'alto del mulino.
Finalmente nel tardo pomeriggio si fecero vedere alcuni aerei: Spitfire e Mustang che rientravano da Flensburg o Schleswig e sfrecciavano a bassa quota sulle nostre teste scomparendo poi sopra il Mare del Nord. Ancora non si vedevano che già Timmsen cominciava ad aprire il fuoco con la sua carabina italiana: fuoco a ventaglio, disse in seguito a sua giustificazione. Sfiorando le cime degli alberi come se giocassero al salto della siepe, gli aerei puntarono su di noi; sempre più assordante diventò il rumore dei motori, sempre più nitido e deciso. Scavalcarono la nostra scuola e si abbassarono: impossibile che non si impigliassero nella siepe di Holmsenwarf piegata dal vento. E invece non si impigliarono, ripresero leggermente quota e si prepararono all'atterraggio. Le loro ombre si ingrandirono, si fecero più lente: si stavano certo predisponendo per l'atterraggio. Ma all'improvviso rinunciarono, probabilmente perché tutti gli uomini della postazione cominciarono ad aprire il fuoco: anche Kohlschmidt, soprattutto Kohlschmidt. Caricavano e sparavano senza poter rilevare con calma la rotta dei loro forsennati bersagli.
Anche il pittore sparava? Sì, anche il pittore Max Ludwig Nansen sparò qualche pallottola agli aerei, ma poiché premeva il grilletto troppo alla svelta alcuni colpi finirono nello stagno del mulino. Dall'acqua si levarono sottili zampilli e dal canneto le anitre selvatiche si alzarono in volo, sbattendo le ali come prese dal panico, e sorvolarono la postazione con il collo rigido e teso. Gli aerei non risposero al fuoco. Presumibilmente avevano sganciato tutte le bombe e sparato tutti i proiettili di riserva; o forse, non voglio però essere io a decidere, non si accorsero nemmeno del fuoco per quanto Timmsen fosse pronto a giurare di aver più volte colpito un aereo "proprio a dovere", come disse. La diga: volevano abbattersi con gli aerei contro la diga? No, si sollevarono un poco per scavalcarla, raggiunsero il mare, e le loro strisce scure sfrecciarono incontro all'orizzonte restringendosi sempre più, divennero punti minuscoli, infine scomparvero. La milizia popolare poteva mettere la sicura ai fucili.
Mentre gli uomini prendevano a commentare quanto era successo, io mi misi a raccogliere i bossoli vuoti, li contai, e mi stupì che fossero tanti: credevo di aver sentito meno colpi. Gli uomini della milizia popolare erano tutti dello stesso parere: avremmo dovuto concentrare il fuoco, un solo aereo alla volta, bersaglio da decidere, dobbiamo farlo alla prossima occasione… E dopo aver raggiunto senza difficoltà un perfetto accordo a questo proposito, dopo aver montato la guardia per qualche minuto tutti e quattro insieme, videro scemare la loro attenzione: raccolsero le carte, le pulirono, le ammucchiarono, e quando Timmsen disse: Toccava a me e vi avrei inchiodato con la carta di fiori, lo presero subito in parola, si accovacciarono sul fondo della buca e tagliarono il mazzo. Tu preferisci stare in piedi? chiese mio padre, e il pittore, accompagnando le parole con un gesto della mano, disse: State pur seduti. Io mi sedetti vicino a lui sulla spalletta della trincea coperta di zolle d'erba. Non osai parlargli e seguii il suo sguardo vagante per quella campagna che tante volte aveva dipinto: il verde pesante, il rosso fiamma delle fattorie. Insieme perlustrammo i viottoli e le strade fiancheggiate da alberi da frutto selvatici e nello stesso attimo scorgemmo in lontananza un uomo a cavallo - il pittore annuì quando glielo additai. Non ci sfuggì neppure il camion che percorse la strada sabbiosa prima della proprietà Sòllring sollevando una piccola colonna di polvere. Seguivo il suo sguardo come meglio potevo. I nostri corpi si giravano con la stessa rigidità. Talvolta anche lui mi additava qualcosa, ma io scoprivo le stesse cose nello stesso momento. Allora assentivo col capo. Fui io per primo a vedere Hilke: veniva dal Wattblick e avanzando sul coronamento della diga si dirigeva verso casa facendo roteare il bricco vuoto. A Bleekenwarf non si notava alcun movimento. A Holmsenwarf, invece, il vecchio Holmsen continuava a trascinare senza sosta dal granaio al cortile rotoli di filo, sicuramente di filo spinato, con ogni probabilità per barricarsi in un recinto e difendersi dalla vecchia Holmsen. Solo raramente il pittore si portava agli occhi il cannocchiale del poliziotto.
Aspettammo. Aspettammo fino al tramonto. Tutto rimaneva calmo. Il sole calava dietro la diga proprio come il pittore gli aveva insegnato a fare sul foglio di carta compatto, non assorbente: si abbassava in strisce di luce rossa, gialla, solforosa o faceva sgocciolare le strisce colorate fin dentro il Mare del Nord. Le frastagliature delle onde si tingevano di nero, toni di ocra e di cinabro si diffondevano nella sezione di cielo non direttamente investita dalla luce, macchie di colore senza contorni, appena sfumate con un panno, sfumate maldestramente: ma era così che lui lo voleva. L'abilità, mi disse una volta, non m'interessa. Dunque un tramonto lento, maldestro e tuttavia con qualche cosa di eroico, inizialmente ancora contenibile e poi via via sempre meno: bagnato sul bagnato, per così dire; dietro alla postazione si rinnovava in maniera stilisticamente ineccepibile.
Nello skat le fortune erano alterne. Solo di sfuggita i giocatori commentavano le partite appena giocate. Hinnerk Timmsen di tanto in tanto domandava se si vedeva già la "donna". Alludeva a Johanna, la sua ex moglie che doveva venire dal Wattblick a portare da mangiare e da bere: glielo avremmo annunciato in tempo, il pittore e io. La nebbia che in giornate del genere scendeva verso il tramonto si faceva aspettare. Le mucche, invece, cominciarono a lamentarsi come sempre a quell'ora: dapprima giunse da lontano, da una bestia invisibile sotto l'orizzonte, un cupo muggito interrogativo, poi dalla parte opposta, nel pascolo sottostante alla nostra postazione, le vacche bianche pezzate di nero si volsero in quella direzione, mossero e girarono le orecchie pelose, ma non risposero. Solo quando il lontano muggito si udì per la seconda volta, una delle vacche inarcò la groppa e rispose gettando faticosamente in alto la testa ed emettendo un respiro biancastro. Non ricevette però una risposta diretta. In quel momento, infatti, si inserì nel loro dialogo un nuovo muggito che non lasciò indifferente un'altra bestia dalle parti di Riepen: un inaudito tono di basso che, probabilmente, era la risposta al quesito posto dalla prima vacca: questa, da lontano, rispose infatti con particolare insistenza. Il basso profondo non si annunciò subito ma lasciò che prima intervenisse il muggito di quella sotto a noi.
Per me era normale stare ad ascoltare le vacche la sera quando i loro richiami vagano da orizzonte a orizzonte, e anche quella sera le ascoltai e non mi accorsi che il pittore meditava una decisione, si preparava a qualcosa nel tramonto. Inaspettatamente si alzò, uscì dalla buca, si riassettò il vestito e voltandosi verso gli uomini disse: Fra poco non ci vedrete più, nemmeno voi… A domani, dunque. Allora scese lungo il viottolo.
Mio padre buttò le carte e gridò: Fermati, Max, un momento. Il pittore proseguì. Il poliziotto si fece allora aiutare da Hinnerk Timmsen a uscire dalla trincea. Con il berretto in mano, corse allo stagno attraversando il prato per tagliare la strada al pittore: non era necessario perché Max Ludwig Nansen camminava adagio. Lo raggiunse e gli mise una mano sulla spalla. Disse: Che ti succede? Da qui non si può svignarsela. Si fa buio, disse il pittore, a quest'ora bisogna tornare a casa.
Mio padre gli si avvicinò di un altro passo, sostenne quel suo sguardo sprezzante e disse piano: Hai dimenticato che porti la fascia. Evidentemente non sai che significa. Il pittore si sfilò la fascia dal braccio e la porse al poliziotto che si rifiutò di prenderla; la diede allora a me: Tienimela fino a domani. Riprendi la fascia, ordinò mio padre: In servizio non è possibile svignarsela quando si vuole, non si va a casa quando si vuole.
Voi potete continuare a giocare, disse il pittore. Non ho niente in contrario. Ma il cauto disprezzo delle sue parole non sortì l'effetto prevedibile perché mio padre era tanto arrabbiato da non udire quasi quella frase; o, se la udì, gli mancava forse in quel momento la possibilità di prenderne nota. E questo perché mio padre cercava di sistemare l'accaduto ricorrendo al regolamento in vigore: anche per un caso del genere esisteva una norma precisa che evidentemente gli era nota e alla quale in quel momento pensava. Disse, letteralmente: Adesso te lo ordino per la seconda volta, e quell'ordine era anche una concessione. Timmsen e Kohlschmidt avevano osservato la scena dalla postazione, poi, rendendosi conto che le cose si stavano mettendo male e desiderando essere testimoni, si avvicinarono ai due: furono subito liquidati. Mio padre disse infatti: Ciascuno torni al proprio posto. Esatto, disse il pittore, al proprio posto.
E il mio posto adesso è a casa mia. Stava per andarsene come chi ne avesse il diritto avendo esposto le proprie ragioni, ma la guardia della stazione di polizia di Rugbiill era di parere diverso: con un colpo secco strappò la corta linguetta della fondina, la aprì, estrasse la rivoltella, la puntò contro Max Ludwig Nansen - press'a poco all'altezza della cintura - e con questo rinunciò a ripetere l'ordine. Là. Nel tramonto. Niente in vista. Com'era tranquilla la sua mano mentre reggeva la pistola d'ordinanza di grosso calibro, che non aveva quasi mai adoperato! Con quale naturalezza riusciva a starsene lì sui due piedi con la rivoltella in pugno! L'aveva usata per ragioni di servizio solo due volte: quando una volpe in preda alla rabbia era rimasta con i denti conficcati nel corpo di un vitello, e poi quando il toro degli Holmsen aveva sconvolto l'orario dei treni di passaggio per la stazione di Glùserup.
A un tratto Kohlschmidt disse: Su, ragiona, ma non era chiaro a chi si rivolgesse. Per molto tempo si fronteggiarono in silenzio: non erano né particolarmente attenti né curiosi di sapere fino a che punto potevano spingersi; mantenevano un notevole autocontrollo come se conoscessero già la fine di tutta la faccenda: forse si erano trovati altre volte nella stessa situazione. La pistola d'ordinanza ripeteva solo la frase del regolamento: Te lo ordino per l'ultima volta. Io porsi al pittore la fascia sulla mano tesa, ma lui non la notò neppure. Non staccò gli occhi da mio padre. Infine il suo corpo reagì, rinunciò a quella calma ostentata e si curvò leggermente in avanti come se avvertisse la pressione dell'arma. Conoscendoli, non dubitavo che il pittore se ne sarebbe andato come aveva deciso e che mio padre avrebbe poi sparato: in fin dei conti erano entrambi di Gliiserup. E il pittore confermò la mia certezza. Disse: Vado, Jens. Nessuno mi tratterrà, nemmeno tu. Poiché il poliziotto del distretto di Rugbiill taceva, il pittore proseguì: Niente, neppure la sconfìtta vi cambia. Bisogna aspettare che siate morti tutti. Mio padre non rispose. Per il momento gli premeva solo che l'ordine venisse eseguito, sul resto sarebbero ritornati in un secondo momento. L'ordine era stato dato, aspettava che fosse eseguito.
Se te ne vai, Max, disse Kohlschmidt, vengo con te. Si abbottonò la giacca. Bene, disse il pittore, andiamo via insieme. Devi capirlo, Jens, disse Kohlschmidt a mio padre, non cambiamo niente neppure restando qui tutta la notte. Come se potessimo impedire qualcosa! E solo una merda, tutto.
Sembrava che alla guardia della stazione di polizia di Rugbiill non importasse minimamente che un altro dei suoi uomini volesse lasciare la postazione: teneva d'occhio solo il pittore, solo con lui voleva discutere. Via, Jens, disse Kohlschmidt, non fare sciocchezze, metti via quell'aggeggio. Pronunciando tali parole fece l'atto di battere sulla spalla al poliziotto, ma all'improvviso ebbe paura, interruppe il gesto e con evidente titubanza ritirò il braccio che aveva già allungato. Mio padre mosse le labbra, preparò una frase, quindi si girò a guardare in faccia Kohlschmidt: Disertori… voi non sapete che cosa tocca ai disertori. Piano, disse l'uccellatore, e dopo aver girato attorno a mio padre si mise di fianco al pittore formando insieme a lui un fronte, un fronte di rifiuto o per lo meno di opposizione. Con voce molto calma disse: Parole pesanti, Jens. Dovresti chiarirti le idee. Noi adesso ce ne andiamo e domani mattina presto torneremo tutti. Se tutti se la squagliano, disse Hinnerk Timmsen, allora mi ritiro anch'io. Non ha senso star qui di notte. E per di più da soli. Si staccò dal fondo della buca e si avvicinò al gruppo formato dal pittore e da Kohlschmidt confermando così la propria decisione. Ma benché tutti fossero risoluti ad andarsene, benché le loro dichiarazioni concordassero, nessuno di loro osò fare il primo passo, e non tanto per paura della mano tranquilla che reggeva la pistola d'ordinanza sempre alla stessa altezza quanto perché volevano tirare il poliziotto dalla loro parte, convincerlo a lasciare la postazione insieme a loro.
Imperterrito, mio padre continuava a tenere d'occhio il pittore: solo lui infatti poteva dire qualcosa, ma evidentemente non aveva più voglia di parlare. Non disse nulla nemmeno quando Timmsen lo urtò da dietro come per incoraggiarlo; rinunciò a parlare forse perché era l'unico ad aver capito che mio padre, prima di lui, aveva rinunciato a discutere, precisamente nell'attimo in cui anche gli altri avevano deciso di tornarsene a casa. Lo abbandonò semplicemente a se stesso. La sua faccia era inespressiva. Attese, e in questo modo obbligò tutto il gruppo ad aspettare; presto uno dei due fronti avrebbe però abbandonato l'altro.
Potrei tenere insieme la nostra milizia popolare ancora per alcuni minuti nella luce del tramonto, davanti al mulino senza pale. Chi ricorda deve tuttavia far conto delle perdite, al pari del commerciante quando pesa. Io ne tengo conto e proprio per questo preferisco che mio padre rinunci a quello scambio di occhiate con il pittore, guardi con aria sorpresa quegli uomini per qualche istante, esca dal loro raggio a passi regolari, sfili loro davanti, risalga la collina artificiale e torni alla postazione, che lui considera il posto al quale è stato assegnato.
A me non rimase altro da fare che seguire mio padre. Senza dire una parola mi aiutò a scendere nella buca e avvicinò una cassetta. Sedetti sulla cassetta e trovai davanti a me un fucile, ma non lo toccai. Tutti e due guardammo gli uomini che non si decidevano ancora ad andarsene. Se ne stavano sempre allo stesso posto, vicini gli uni agli altri, e parlottavano; può darsi che all'ultimo momento non fossero più d'accordo. In ogni caso dopo un po' se ne andarono: a noi giunse di tanto in tanto il rumore dei loro passi. Arrivarono insieme fino alla chiusa, per quanto solo l'uccellatore Kohlschmidt dovesse passare di lì. E anche alla chiusa si fermarono parecchio tempo prima di dividersi. Non doveva essere facile per loro separarsi e quando finalmente sciolsero il gruppo e si avviarono nelle diverse direzioni ma noi non li vedevamo più - io immaginai che almeno uno, Hinnerk Timmsen per esempio, sarebbe tornato alla postazione per rimettersi dietro a un fucile come se nulla fosse accaduto. Non tornò nessuno.
Così restai nella trincea da solo con la guardia della stazione di polizia di Rugbiill: accese la pipa facendole schermo con la mano, quindi, alla sua maniera asciutta e imperturbabile, passò in rassegna le strade e i prati, l'intera campagna buia, per scovare una traccia del nemico che era per giunta favorito dalla nebbia. Le vacche erano tranquille. Si erano sdraiate sull'erba: oltre lo stagno del mulino si vedevano le loro masse oblunghe. La nebbia si era radunata in banchi bassi e isolati che si incontravano, crescevano, si alzavano e facevano galleggiare dolcemente le fattorie, come la marea, alzandosi, fa dondolare le barche sul fondo del mare. Da molto lontano giungevano isolate le onde sonore di detonazioni - parevano esplosioni più che spari.
Vai a casa, disse mio padre. E tu? domandai. Vai a dormire, disse. Lo guardai con aria incredula, ma lui era convinto di quel che diceva e con la testa mi indicò la strada per Rugbiill. Mi arrampicai sulla parete della trincea e gli lasciai la postazione tutta per sé. E tu? chiesi un'altra volta. Io cercherò un nome, disse. Un nome? Sì, per la miseria. Cercherò un nome per la miseria e tutto il resto, già. E mangiare? gli chiesi. Alla mia domanda fece un gesto di rifiuto. Poi rifletté, si strinse nelle spalle e disse: Se sono rimaste delle aringhe sott'olio potete mettermene qualcuna in serbo. Ho ancora da fare qui.
Andarmene, descrivere un'ampia curva, tornare senza farmi vedere come già una volta: non ne avevo voglia. Quindi tornai a casa sotto lo sguardo di mio padre, senza mai voltarmi. Dal cortile cominciai a sentire i brevi trilli del telefono: il telefono non si calmava. Perché non alzavano il ricevitore? In cucina era accesa la luce: avevano dunque finito di mangiare, Hilke e mia madre, e adesso erano di sopra in camera da letto. Quindi dovevano pur sentirlo, il telefono, ma non volevano essere in casa per nessuno. Forse Hilke stava pettinando sua madre seduta sul letto. Le pettinava i capelli di un biondo rossiccio, li stringeva e poi li raccoglieva in una crocchia scintillante. Oppure scioglieva la polverina calmante in un bicchiere, facendo girare l'acqua in senso orario. O la massaggiava con le sue dita forti ed esperte. Non accompagnato, non avevo il permesso di entrare nell'ufficio di mio padre: quindi il telefono non mi riguardava. Nella dispensa trovai la terrina con le aringhe sott'olio e la portai in cucina. Mangiai una delle aringhe giallognole che nuotavano sotto anelli di cipolle e chiodi di garofano. Di un'altra mangiai solo la pelle raggrinzita e coprii le ultime due con un foglio di giornale dove spiccava la fotografìa di un certo Dònitz che mi guardava con uno sguardo fìsso e vuoto. Su un foglietto scrissi: Lasciare, non mangiare, aggiunsi un punto esclamativo e fermai il pezzo di carta con una forchetta. Il pane? Il pane poteva tagliarselo da solo. Portai fuori le lische e le buttai nel cortile buio. Poi salii di sopra e rimasi inutilmente in ascolto davanti alla porta della camera da letto. Allora andai nella mia stanza, non calai gli avvolgibili, ma mi buttai sul letto vestito e attesi il suo ritorno.
Ricordo ancora esattamente: aguzzavo lo sguardo nel buio e ascoltavo, e all'improvviso Hilke si mise a suonare il pianoforte; non aveva mai imparato e tuttavia suonava con dita incerte un piano installato all'aperto vicino alla chiusa. Mentre lei suonava, i gabbiani le volavano sopra la testa, ed era come se stalattiti di ghiaccio, ghiaccioli piccolissimi, piccoli e medi, si staccassero da una gronda e cadessero, cadessero per infrangersi su una superficie di vetro, e proiettassero poi, rompendosi, frammenti colorati, in prevalenza rossi e gialli. Poi un'ombra scese su Hilke, l'ombra di un aereo: si avvicinò dolcemente a motore spento, un aereo grigio piuttosto grosso; tentò di atterrare vicino alla postazione di mio padre e dopo avere descritto nell'aria diverse volute - in quei momenti si sentivano folate di aria gelida - riuscì a toccare terra, ma subito si ribaltò su un'ala. Allora la porta ovale si spalancò e uomini e donne si riversarono fuori: tutti conoscenti con in testa il capitano Andersen, ma c'era anche il vecchio Holmsen e il maestro Plònnies e Bultjohann e Hilde Isenbiittel, e Hilke allora aumentò i suoi voli sul pianoforte, e questo si rispecchiava nell'acqua della chiusa. Ed era anche quella melodia a invitare tutti a prendersi per mano: accerchiarono a passo di danza la postazione di mio padre, e il cerchio si fece sempre più stretto, sempre più opprimente; i loro abiti svolazzavano eppure non si udiva vento: ed ecco le loro vesti toccarono mio padre, e loro lo avvolsero, lo sollevarono dalla trincea e a passi di danza appena accennati lo portarono su per il verde pendio fino al mulino. Ora il mulino aveva di nuovo le pale: rivestite di tela sporca, vibravano per l'impazienza. Legarono dunque mio padre alla ruota e batterono ritmicamente le mani quando le pale cominciarono a girare lentamente e a sollevare a stratti mio padre da terra: i piedi gli si tesero, si appuntirono, e proprio in quella situazione lui venne, per così dire, esposto al pubblico. Ma poi il movimento accelerò, si udì un sibilo e si notò l'effetto della forza centrifuga: quando la pala risaliva, il corpo di mio padre era perfettamente orizzontale, e le ombre delle pale roteavano sui nostri visi, e nello stagno un altro mulino ripeteva ogni movimento finché dal tetto a cipolla uscì un sottile pennacchio di fumo denso; sì: il mulino fumò e nell'aria si sparse l'odore di bruciato.
Balzai dal letto e corsi alla finestra. Saliva una sottile colonna di fumo. Sotto, in cortile, alla luce del primo sole mio padre era in piedi davanti a un falò. Alimentava il fuoco con gesti lenti buttando sulle fiamme uno dopo l'altro i fogli di carta che staccava da alcuni raccoglitori. Badava che il vento prodotto dalle fiamme non disperdesse le pagine bruciacchiate. Le raccoglieva e gettava nel fuoco solo quel tanto che le fiamme potevano divorare; se gli sembravano troppo alte, aspettava sfogliando, leggendo.
Ero in piedi dietro alla finestra e lo guardavo. A un certo punto mi vide. Non mi minacciò né mi chiamò. Scesi allora in cortile e, benché non richiesto, lo aiutai a recuperare i fogli che volavano tutt'intorno. Mio padre si accorse che continuavo a osservarlo con la coda dell'occhio, ma resistette a lungo ai miei sguardi prima di chiedermi: Che ti succede? Non mi conosci? Non gli raccontai né del mulino né dell'aereo atterrato mentre Hilke suonava. Gli chiesi solamente: Quando andiamo là? Superato, disse, è tutto superato; strappò a uno a uno i fogli di un raccoglitore e prima di buttarli nel fuoco li accartocciò. La sua faccia era grigia, non sbarbata. Aveva il berretto storto e sulle scarpe si notavano ancora i resti della terra argillosa della postazione. Teneva le spalle curve, si muoveva a fatica; parlava con voce roca. Chi vede un uomo con un aspetto simile immagina subito: quello ha rinunciato, quello non trova più una sponda a cui aggrapparsi. Si evita di parlare a un uomo con un aspetto simile perché di lui si sa già quanto basta. Lo si lascia sedere su una pietica e lo si guarda da dietro.
Lasciò completamente a me il compito di curare il fuoco. Seduto sulla pietica piena di antiche ferite, mio padre si intrattenne con vecchi pezzi di carta, probabilmente di scarso valore; di tanto in tanto ne leggeva una riga con indifferenza come se quei fogli non avessero mai avuto importanza alcuna. Dopo aver foraggiato il fuoco con i primi pacchi, andò nel suo ufficio, tornò con altra carta. Se ne ammassa sempre molta nel corso degli anni. E lui, che in genere non riusciva a staccarsi da niente, aveva raccolto, messo in disparte, conservato ogni cosa: le testimonianze della sua vita della quale un giorno avrebbe dovuto fare il bilancio.
Era soddisfatto del mio lavoro, del modo con cui badavo al fuoco e lo tenevo in vita. L'ultima volta che rientrò in casa, portò oltre a due raccoglitori anche dei libri, un manoscritto e un pacco avvolto in carta oleata e legato malamente con una cordicella. Anche questi, anche i quadri invisibili. Anche questi? chiesi e mio padre mi rispose in tono amorfo: Tutto, tutto deve scomparire. Cominciò a strappare i fogli del manoscritto. In quel momento in cima alla scala comparve Hilke. Uscì fuori e ci chiamò per il tè, gridò: Il tè non si scalda di certo se non venite. Più tardi comparve una seconda volta: si avvicinò al fuoco e qui con aria svogliata ripete il suo invito. Ma non guardò il fuoco, osservò me e a un tratto disse: Tu, Siggi, hai una faccia vecchia, sembra che tu abbia già ventotto anni o giù di lì. Mia sorella: ogni tanto parla di un uomo come se fosse un cavallo. Io le dissi: Taglia la corda, e quando lei prese dal bordo del falò un foglio bruciacchiato e tentò di leggerlo, glielo strappai di mano e lo ributtai tra le fiamme. Vattene e continua a suonare, dissi. A suonare? chiese con aria stupita. Che cosa dovrei suonare? Il piano, dissi, e mia sorella si rivolse allora al poliziotto che visibilmente continuava a rimuginare: E ubriaco, questo, con la sua faccia da vecchio. Mi resi conto che non avrei potuto liberarmi di lei senza offenderla. Stavo considerando quale offesa fosse più opportuna, ma in quel momento Hilke gridò: Là, guardate! Là!
Ci voltammo a guardare: sulla strada era fermo un autoblindo verde, verde oliva. Era fermo là. Era là. Con il motore acceso e i cannoni abbassati. Dalla torretta spuntò la testa di un soldato: aveva un basco nero. La prora angolosa e obliqua dell'autoblindo si spostò lentamente oltre il cartello con la scritta "Stazione di polizia di Rugbùll", si girò verso di noi, sfiorò il palo che tuttavia non cadde, fece manovra vicino al vecchio carretto e si arrestò davanti al nostro fuoco.
Mio padre si alzò in piedi e istintivamente si accomodò l'uniforme. Fissava l'autoblindo rimanendo immobile, non angosciato ma immobile. Quando l'autoblindo si fermò a pochi metri dal fuoco, mio padre, abbassando il tono di voce tanto che io riuscii appena a capirlo, disse: Via questa roba, bruciala tu. Ma come?
Con il piede avvicinai un raccoglitore al pacco avvolto in carta oleata, adagio, centimetro dopo centimetro. Si sentiva il crepitio e una leggera traccia rimaneva sulla sabbia come se vi fosse passato un animale, forse una tartaruga. Dalla torretta sbucò una spalla, quindi due braccia, e il soldato fece segno a mio padre di avvicinarsi. Gli chiese qualcosa. Mio padre rispose con un breve cenno della testa. Il raccoglitore toccava il pacco. Nell'attimo in cui il soldato emerse dalla torretta e saltò a terra, io afferrai raccoglitore e pacco e camminando all'indietro raggiunsi il capannone. Lasciai cadere il pacco, semplicemente cadere, mentre tenni in mano il raccoglitore. Me ne tornai al falò, girai intorno al fuoco e raggiunsi mio padre che parlava con il soldato.
Il soldato aveva i capelli rossastri e due stellette pure rossastre sulle spalline della divisa, se questo dice qualcosa: appesa a una cintura di stoffa sbiadita portava una fondina pure stinta, dove era nascosta una pistola dello stesso calibro di quella usata da mio padre. Voleva spegnere il fuoco? Voleva requisire i fogli ancora leggibili per esaminarli in altro luogo? La guardia della polizia distrettuale di Rugbull era dunque così importante?
Il soldato inglese non si curò del fuoco. Non si interessò né dei documenti ancora intatti né di quelli semibruciati. Arenandosi a ogni parola - parlava però la nostra lingua — e guardando un foglietto di carta che aveva tolto dal taschino, chiese a mio padre se fosse lui il poliziotto Jepsen. Mio padre annuì. Domandò se quello era Rugbull. Mio padre annuì. Se è così, disse il soldato inglese, allora devo arrestare il poliziotto Jepsen di Rugbull. Ora. Ripiegò il biglietto e lo spinse nuovamente nel taschino. Lanciò un segno all'autoblindo, se non esattamente all'autoblindo ai due occhi chiari, luminosi che ci fissavano dietro alla spia, quindi fece cenno a mio padre di salire.
Il poliziotto indugiò. Alcune cose, disse, è pure permesso portare con sé alcuni oggetti personali. Il soldato non sapeva se doveva permetterglielo. Se ne sincerò parlando dentro alla spia dell'autoblindo. Gli occhi azzurri sembrarono d'accordo e il soldato si girò verso mio padre e gli indicò la casa. Mio padre camminava davanti, il soldato e io lo seguivamo.
L'angoscia, la continua tensione dal momento in cui entrammo in casa; credevo di sapere che tutto potesse succedere ma non una cosa simile: che mio padre senza compiere un solo tentativo di fuga, senza difendersi, senza dire una parola, raccogliesse le sue cose personali, salisse e se ne andasse proprio come quelli volevano. Entrammo in cucina. La prima colazione era pronta sul tavolo, la teiera invitava a sedere. Il poliziotto cercò sul davanzale vicino al lavandino il suo rasoio. Passammo nell'ufficio dove gli scaffali erano vuoti e i cassetti della scrivania aperti, come se fossero stati scassinati e derubati del loro contenuto.
Il poliziotto prese la sua cartella, aprì una cassettina dove non era conservato niente se non la seconda chiavetta e mise nella borsa il rasoio. In fila indiana salimmo in camera da letto, bussammo ripetute volte finché mia madre comparve in accappatoio e con i capelli sciolti. Tenendo la porta socchiusa mia madre gli porse un paio di calzini, un asciugamano e una camicia. Non disse niente. Non poteva vedere né il soldato né me. Entrammo in camera mia. Mio padre ci precedeva sempre e io gli chiesi che cosa avesse da prendere nella mia stanza. Mio padre girò intorno al tavolo, batté le nocche sulla carta nautica e poi sul letto. Uscì per primo e scese di sotto in cucina. Il soldato si tenne ad alcuni passi di distanza; aveva infilato le dita sotto la cintura di tessuto sbiadito e dava l'impressione di non essere affatto impaziente. Osservò mio padre che si versò del tè e che, dopo aver compiuto un gesto come per invitarlo alla comprensione, bevve il suo tè dalla spessa tazza di maiolica. Mentre beveva, sollevò lo sguardo oltre il bordo della tazza e osservò a sua volta il soldato con un'aria sprezzante e con nascosta ripugnanza. Io gli reggevo la borsa. Incredibile che potesse bere con quella tenacia e tranquillità e che riuscisse a versarsi una seconda tazza sebbene il soldato avesse appoggiato un piede sulla sedia e cominciasse a dondolarsi per l'impazienza. Dopo aver bevuto la seconda tazza mi prese la cartella e mi diede la mano. Chiamò Hilke, che era nella dispensa, e diede la mano anche a lei. Quindi passò nel vestibolo e tese l'orecchio sperando di sentire di sopra dei rumori. Era titubante. Guardò il soldato con un sorriso amaro. Il soldato non rispose al sorriso. Allora mio padre gridò: Ciao! E si irrigidì: era pronto.
Lo accompagnammo fuori, ma restammo in piedi sulla scala di pietra alla stessa altezza della torretta dell'autoblindo verde oliva sulla quale era dipinto un topolino ritto sulle gambe posteriori. Torno presto, gridò mio padre. Presto. Hilke piangeva in silenzio; me ne accorsi senza guardarla perché il suo pianto, come in altre persone, era frammisto a singhiozzi. Si erano fermati davanti all'autoblindo. Il soldato prese la borsa di mio padre e con il pollice gli indicò di salire. In quel momento due braccia nude, cosparse di efelidi, ci spinsero di lato - Hilke e me - contro il muro della casa.
Venne. Mia madre passò in mezzo a noi con i capelli sciolti e il grembiule marrone con le maniche corte. Il suo passo era incerto ma il corpo morbido e forte era ritto, la testa buttata all'indietro: la sua andatura mi ricordava una regina superba e cattiva, ma quale? In ogni caso con la sua apparizione costrinse il soldato a urtare leggermente mio padre e a dirgli qualcosa. Il falò si era quasi spento. Mia madre si fermò davanti al fuoco e lasciò che mio padre le si avvicinasse fino a toccarla. Allargò le braccia compiendo il gesto che si fa quando si vuole annunciare la grandezza di un pesce appena pescato. Lo abbracciò, lo strinse a sé in modo brusco e maldestro. Poi infilò una mano nella tasca del grembiule e gli porse qualcosa, un oggetto piccolo e luccicante, un temperino, credo. Lui prese il coltello e fece un breve gesto di saluto come se rispondesse a un segnale. Pronto? chiese il soldato. La guardia della stazione di polizia di Rugbiill si arrampicò sull'autoblindo e continuò a guardarci mentre la vettura girava attorno al falò. E quando la massa verde oliva ci passò vicino, mio padre si rizzò e tese la schiena in modo esagerato: salutando, voleva ricordarmi che non dovevo lasciarmi piegare da niente. Mai.