Il termine

Ciò che so, desidero dirlo. Anche se sarà lavato via dalla prima pioggia: devo dire della stalla rosso ruggine di Bleekenwarf che da tempo non veniva più utilizzata, devo parlare di uno di quei nostri mattini in cui piatti banchi di nebbia calano sulla pianura. Devo aprire la porta della stalla e fare che si veda l'animale ferito, e devo radunare nuovamente, di giorno, in una luce modesta, tutte le persone che si erano riunite per macellare la vacca o, piuttosto, per assistere a quell'atto imposto dalle circostanze. Vorrei, per prima cosa, ricordare la stalla ventosa di Bleekenwarf con i recinti per i porci, gli anelli arrugginiti ai quali venivano legate le bestie, e una stia tutta sconquassata che pendeva da un lato. Seduti su una traballante catasta di assi: il vecchio Holmsen, sua moglie, Jutta, il pittore e io. Appoggiata al muro imbiancato a calce, con le zampe anteriori puntate, la bava alla bocca e ansante: la bestia morente che perdeva sangue dalle ferite sul collo e sulla schiena.

Se dico che un aereo ha sganciato per emergenza le due bombe nel cielo di Rugbull, mi si può domandare come faccia a saperlo. Prescindendo dal fatto che non riesco a immaginarmi come un pilota, che per di più volava sopra le nubi, abbia considerato Rugbull degno di una bomba, ritengo comunque la domanda di secondaria importanza. In ogni caso l'aereo ha sganciato per emergenza due bombe: una cadde nel mare, l'altra in mezzo ai pascoli acquitrinosi nelle immediate vicinanze di Bleekenwarf; scavò un cratere e le schegge colpirono la mucca sul collo e sulla schiena. Era la vacca degli Holmsen.

Noi eravamo nella stalla e, seduti su una catasta di legna, osservavamo la bestia che non riusciva più ad alzarsi; le ferite, tuttavia, non bastavano a farla morire. Su un sacco di patate vuoto, ben allargato, c'erano un'ascia, un coltello e una sega - non una sega da macellaio adatta per tagliare le ossa, ma un saracco unto - e, vicino, erano allineati, oltre ai catini, una tinozza e un secchio ammaccato di quelli usati per la mungitura; era pure pronto, appoggiato in terra, un grembiule di cuoio strappato in diversi punti. Non mancava niente per la macellazione. Noi osservavamo la bestia. Sembrava seduta sulle zampe posteriori e la mammella sporca con i capezzoli raggrinziti per la febbre si appoggiava sul pavimento di terra battuta: pulsava, batteva, sobbalzava. La coda con il ciuffo arruffato si muoveva spazzando leggermente il suolo, di quando in quando frustava il muro. Come se bevesse, la bestia tendeva la testa, sbuffava e si leccava il muso fino alle narici; soffiava emettendo una bava vischiosa. A tratti scalpitava con lo zoccolo anteriore, voleva staccarsi dalla parete, ma non riusciva e si lasciava ricadere con un rumore simile a quello della raspa. Il sangue continuava a sgorgare dalle ferite, colava sulla pelle bianca e nera disegnando un rigagnolo luccicante, sgocciolava per terra. Una scheggia le aveva fracassato la zampa posteriore destra, aveva strappato la pelle e messo a nudo l'osso.

Il vecchio Holmsen aveva già tentato due volte di abbatterla. Incitato dalla moglie - una donna scontrosa con le gambe storte e una corona di capelli grigi, che doveva dare al marito la sensazione di avere sposato un bassotto — aveva sollevato l'ascia e si era avvicinato alla mucca, seguito e sempre incalzato dagli ordini della vecchia. Tutte e due le volte, come potevamo capire, aveva preso in considerazione un punto preciso sulla fronte dell'animale, dove il pelo si arriccia, e si era messo in posizione per sferrare il colpo, ma, per quanto le ingiunzioni della moglie si fossero fatte ancora più insistenti e furiose, non se l'era sentita di lasciar cadere la scure. Alzando le spalle, sia la prima che la seconda volta, era tornato alla catasta di legna e si era seduto tra noi. La vecchia mugugnava e lo punzecchiava. Minacciava di partire per Gliiserup e andare a chiamare Sven Pfriim, che da tempo macellava per i privati della zona: lui, Holmsen, lo avrebbe dovuto pagare se non si fosse sbrigato ad abbattere la vacca. Mentre il pittore fissava la bestia, la vecchia gridava: Muoviti, Holmsen, muoviti, se no ce la perdiamo. E che ci guadagniamo? La miseria, ci guadagniamo. Per indurlo a compiere quel lavoro necessario, acchiappò il secchio ammaccato e si avvicinò alla mucca: con quel suo gesto voleva fargli capire che avrebbe raccolto lei il sangue, che era comunque disposta a collaborare alla macellazione.

Tutto inutile. Niente dava al vecchio Holmsen la forza o la fiducia di cui abbisognava. Si fece rifornire di tabacco dal pittore e fumò nervosamente emettendo il fumo di lato. La donna gli ricordò che aveva già sgozzato delle anitre, oltre che piccioni e polli. Prese l'ascia, gli mise in mano il manico, e gli fece intendere che se si fosse deciso avrebbero risparmiato i soldi di Sven Pfriim. Impossibile che non lo capisse. Il vecchio fece di sì con il capo sospirando, si alzò dalla catasta, ma un lungo sguardo alla bestia gli dimostrò i limiti delle proprie possibilità. Lasciò scivolare l'ascia per terra. Forse con un'altra vacca, disse, ma Thea no. Thea no. Era la seconda delle mie migliori mucche da latte e mi ubbidiva subito. Ma adesso, disse la vecchia, non ti ubbidisce più perché è mezza morta: si può solo liberarla dalle sue sofferenze abbattendola. In quel momento Jutta chiese se non fosse possibile fasciare le ferite della bestia sperando che guarisse. A quella domanda la vecchia Holmsen, stizzita e non nascondendo il proprio disprezzo, disse quel che non potè fare a meno di dire: A te si dovrebbero mettere le fasce. A te. Anche in questo modo viene talvolta presa una domanda.

Quando la bestia cominciò a scalpitare e quindi cadde in avanti allungando il muso sul suolo, la vecchia alzò un'altra volta l'ascia non perché volesse passarla al marito ma solo per ricordargli che quello era il momento buono. Con l'ascia in mano si avvicinò alla vacca. La povera bestia pareva non accorgersi di nulla e muoveva la testa ripetendo i suoi disperati tentativi di raggiungere con la lingua una ferita sulla schiena. Rinunciando, sbuffò sul terreno così violentemente da far volare frammenti di paglia e foglie secche. Poco dopo riuscì a staccarsi dal muro e resistette per qualche istante con le sue ultime forze, quindi si abbandonò nuovamente al suolo. Non fece più alcun tentativo di leccarsi via la bava. La tensione che visibilmente contraeva il suo corpo diminuì, la coda non spazzò più il pavimento. Con il palmo della mano la vecchia indicò allora la bestia, e il suo gesto, che inconfondibilmente voleva essere un'accusa, era rivolto a tutti e non esclusivamente al vecchio Holmsen, a quell'uomo smilzo con i capelli grigio ferro che sedeva sull'angolo della catasta buttando di lato grosse boccate di fumo e che, lo si capiva, stentava a mettere ordine nei suoi pensieri, eccetera eccetera. Se ne stava seduto con le spalle curve ed evitava di guardare l'animale ferito.

Con calma il pittore si lasciò scivolare dalla catasta, si spinse il cappello all'indietro, fin sulla nuca, batté con forza la pipa contro lo stipite della porta e quindi, senza parlare e senza indugiare minimamente, si avvicinò alla vecchia. Lanciò a noi - a Jutta e a me - un rapido cenno perché ce ne andassimo, ma non attese che eseguissimo l'ordine. Afferrò il manico dell'ascia o, piuttosto, lo sfilò dalle dita della vecchia, diede una spinta alla donna facendola arretrare fino alla catasta di legna e si avvicinò nuovamente alla bestia. La mucca degli Holmsen non si accorse di lui. Muoveva spasmodicamente il collo a pochi centimetri dal suolo e con fatica tendeva la testa verso l'alto. Il pittore soppesò l'ascia sulla mano, fece un passo, sfregò le suole sul pavimento, e si girò per assicurarsi che la sua posizione fosse sufficientemente salda. Per tutto il tempo in cui rimase a guardare la bestia, quel cranio duro e pesante, quegli occhi scuri, indifferenti, il viso del pittore rimase impassibile. Sulla fronte dell'animale il pelo appiccicato formava cerchi neri; dalla bocca pendeva un filo di sostanza viscida e le orecchie pelose si tendevano verso l'uomo. Il pittore, lo si capiva, stava calcolando il punto esatto in mezzo agli occhi dove l'ascia avrebbe dovuto colpire. Poi roteò il busto per guardare dietro di sé, sollevò l'ascia e le impresse lo slancio necessario. Noi sedevamo immobili. E io l'ho sempre ben presente davanti agli occhi, nella sua stalla, in quella posizione: l'ascia alzata, la testa leggermente all'indietro, lo sguardo abbassato sull'animale che in quel momento non dimostrava alcun interesse per lui. Lo rivedo con il corpo teso in avanti mentre si muoveva, mentre colpiva, così teso che l'orlo del suo lungo pastrano si sollevò fino all'incavo delle ginocchia.

Mentre l'ascia colpiva, il pittore emise un gemito. Sfruttando lo slancio ritrasse subito l'attrezzo, lo sollevò sopra le spalle, fece un passo indietro e colpì una seconda volta con la lama smussa. Accompagnava, accelerava con tutto il corpo la traiettoria dell'ascia, e fu inevitabilmente strappato in avanti: perse il cappello. Dopo il secondo colpo si strofinò frettolosamente la bocca, sussurrò qualcosa che nessuno comprese, guardò dalla nostra parte, mia e di Jutta, e io ebbi la sensazione che non ci notasse o almeno che non si stupisse di vederci ancora lì. Tenendo il manico perpendicolare davanti a sé lasciò scivolare l'ascia tra le gambe. Il terzo colpo, che qualche istante dopo ritenne indispensabile, fu più rapido, ma meno forte e meno sicuro. Allora si girò, diede l'ascia al vecchio Holmsen, si sedette sulla catasta di legna e si massaggiò le dita.

Ma di quella mattina nella stalla di Bleekenwarf la mia memoria ha conservato altre sensazioni. Sento la lama smussa dell'ascia colpire la testa dell'animale, vedo la sua testa battere pesantemente contro il pavimento per la violenza del colpo, sento le dita di Jutta affondare dolorosamente nel mio braccio. Emettendo lo stesso rumore che avrebbe prodotto contro un tronco d'albero cavo all'interno, l'ascia colpì la bestia in mezzo agli occhi, le fracassò la fronte, e per un istante parve che tutto il corpo si appiattisse, ma gli zoccoli anteriori presero poi a scalpitare, cercarono un appoggio, un punto di resistenza, il collo si mosse, la schiena si irrigidì e le zampe posteriori scalciarono debolmente: sotto il colpo quel corpo informe sembrò ricordarsi dell'istinto di conservazione o della fuga. I sensi dell'animale ferito si ridestarono, ma la bestia non trovò la forza che cercava e che le era necessaria; soltanto un ultimo sussulto, un ultimo scatto degli zoccoli tradirono i suoi impulsi. La testa si alzò da terra con un ritmo faticoso e subito ricadde, e a ogni movimento si sentì un rumore come se qualcosa si rompesse. I fianchi furono percorsi da brividi che si fecero più vibranti dopo il secondo colpo, come se la bestia volesse scacciare gli insetti che la pungevano.

Penso adesso di poterla far stramazzare definitivamente, di poterla lasciare immobile, sebbene percorsa da invisibili riflessi, inerte, distesa contro la parete bianca. Da morta pareva più grande, mi pareva assumesse proporzioni gigantesche, si ingrandisse, si gonfiasse. E ricordo anche questo: odiai quella donna che non seppe aspettare di vedere l'animale finalmente immobile, ma che subito allargò il grembiule strappato in diversi punti e lo porse al marito. Gli porse anche il coltello indicandogli, con un gesto irritato, la massa gibbosa davanti al muro; dal suo braccio penzolava già il secchio. Odiavo lei - non il vecchio Holmsen e neppure il pittore - e il mio odio accresceva la mia attenzione. La seguii mentre si accovacciava vicino al collo della bestia morta e appoggiava saldamente il secchio sul pavimento, con l'imboccatura verso la gola dell'animale. E non si rivolse più al marito con ordini precisi ingiungendogli di iniziare, ma volutamente si limitò a fissare con ostinazione il secchio come se già il sangue cominciasse a defluire. Il vecchio Holmsen capì. Passò le dita sulla lama del coltello e batté leggermente il pollice sulla punta. Accarezzò con le dita anche il collo della bestia, poi strinse la grossa testa fra i piedi e si chinò adagio, ma senza ripugnanza. Appoggiò il coltello contro la pelle del collo, a piccoli colpi lo spinse nella carne e prima di estrarlo guardò la moglie. Diede l'impressione di convogliare lo zampillo di sangue esattamente dentro il secchio.

In quell'istante mi sentii afferrare per il collo. Feci per girarmi, ma la morsa aumentò e mi accorsi solo d'essere rimorchiato fino alla porta. Vidi Jutta che in modo sorprendente imitava ogni mio movimento come se noi due venissimo ormeggiati insieme; anche lei venne rimorchiata nello stesso modo fino alla porta. Tenendoci vicini, il pittore ci spinse fuori nel cortile e chiuse l'uscio alle nostre spalle. Lo riaprì però subito vedendo Ditte uscire dalla casa e dirigersi verso di noi. Prima dello stagno Ditte ci lanciò un segnale, o più esattamente lo lanciò al pittore.

Su, disse il pittore, andatevene, non sono cose per voi, e ci costrinse ad allontanarci dalla stalla dove la macellazione d'emergenza proseguiva. Ci spinse fino ai tronchi accatastati. Che c'è, Ditte? domandò con impazienza e, come se dovesse giustificarsi per il suo tono, aggiunse: Abbiamo già cominciato. Ditte gli disse qualcosa a bassa voce, e il pittore prima si osservò le mani, quindi guardò verso Rugbùll e poi, nuovamente, si osservò le mani e il cappotto sul quale si notavano macchie di sangue. Vengono a sapere tutto, disse, non sfugge loro niente, ma per conto mio che vengano pure. Holmsen non poteva lasciar morire la bestia, doveva pure abbatterla. Sarebbe sicuramente crepata prima dell'arrivo dell'autorizzazione.

Ditte gli sussurrò ancora qualcosa e il pittore disse: Perché? Possono restare tranquillamente nella stalla e continuare. Che cosa può capitare se sono in grado di dimostrare che la vacca è stata colpita dalle schegge, in tutto il corpo? E loro possono fornire le prove. Quando l'automobile arriva… noi siamo nella stalla. Ditte, tu intanto facci del tè: ne abbiamo bisogno tutti. Poi si voltò, e, girandosi, mentre allungava la mano verso la porta, guardò in direzione di Rugbiill e costrinse anche noi a guardare da quella parte. Così, quasi contemporaneamente, scoprimmo la vettura che si avvicinava attraverso i piatti banchi di nebbia, scompariva a tratti dentro una nube grigia e ricompariva nel punto previsto. Prosegui a identica velocità fino al viale fiancheggiato dagli ontani. Qui si arrestò, si fermò per qualche istante, ma non ne scese nessuno: le sagome degli occupanti non si mossero e il brusio del motore acceso non si interruppe.

Il pittore lasciò cadere la mano e a piccoli passi si diresse verso l'automobile ferma. No, non è esatto: forse proprio perché la vettura si era fermata e nessuno ne era sceso, lui si incamminò verso il cancello, lo spalancò lentamente e fece un gesto di invito, seppure rude. La vettura entrò. Allora il pittore chiuse il cancello di legno, e l'auto proseguì lungo il cortile. Giunta allo stagno voltò, non verso di noi ma verso la casa, fermandosi proprio vicino alla porta d'ingresso.

Per primi scesero due in cappotto di pelle. Partendo dalla direzione opposta girarono attorno all'auto, non frettolosi o distratti ma imperterriti come se si muovessero al rallentatore: aggirarono la vettura verde scuro e si ricongiunsero davanti al radiatore dove, senza visibili cenni d'intesa, si fermarono contemporaneamente e si volsero verso di noi. Erano, i loro, lunghi cappotti di pelle con tasche applicate; cadevano perfettamente sicché si poteva intuire il peso dei due. Ai loro movimenti duri, sempre in qualche modo sopra il rigo, penso si adattassero benissimo gli stivaloni pesanti e il cappello a cencio con l'ampia tesa che nascondeva la faccia. Mentre i due se ne stavano a gambe larghe davanti al radiatore, dall'auto scese il poliziotto della stazione di polizia di Rugbiill: impettito, maledicendo la mantella che si impigliava dappertutto. Anche quella volta mio padre dovette lottare con il suo impermeabile che rimaneva ostinatamente preso in maniglie, ganci e manovelle. Dando energici strattoni riuscì tuttavia ad avere la meglio e raggiunse i due cappotti di pelle davanti al radiatore. Aspettarono. Non si diedero la pena di venire verso di noi. Restarono là tutti e tre, aspettando; non abbandonarono il loro posto nemmeno quando il pittore fece un cenno e additò la porta della stalla.

Max Ludwig Nansen si fece loro incontro a metà strada e con il pollice sollevato sopra la spalla indicò dietro di sé. Disse: E là dentro. Venite da questa parte. Ma non sembrava che l'invito interessasse molto i cappotti di pelle. Non si mossero, e lo costrinsero così ad avvicinarsi. Sento ancora la sua voce: E là, da quella parte. A queste parole mio padre scosse la testa e fece un gesto per interromperlo: probabilmente neanche a lui interessava che cosa stesse succedendo nella stalla o, per lo meno, la cosa non gli sembrava importante come il motivo per cui era venuto. E il gesto della sua mano voleva dire: dopo, dopo, adesso si tratta d'altro.

Con un passo breve, la guardia della stazione di polizia di Rugbiill passò dietro ai due cappotti di pelle e da quel punto squadrò il pittore. Lo squadrò con costanza, soprattutto con costanza. Jutta colse l'occasione per sgusciare di nuovo nella stalla e chiuse la porta dall'interno. Io mi trovavo alla stessa altezza di Max Ludwig Nansen. In quel momento il pittore perse la sua sicurezza. Alzò le spalle e chiese, a se stesso: Ma a che gioco stanno giocando? Poi, avanzando verso il gruppo che se ne stava nello stesso punto sempre impalato, domandò con voce chiara: Che significa questa visita, Jens?

Preparatevi, disse inaspettatamente uno dei due cappotti di pelle. Il pittore chiese: Perché? Che è successo?

Vi diamo mezz'ora, disse il secondo cappotto. Il pittore li fissò stringendosi nelle spalle e chiese: Siete venuti a prendermi? A quella domanda nessuno vide la necessità di rispondere direttamente. Hai mezz'ora, disse mio padre, guardia della stazione di polizia di Rugbiill, e io non mi sorpresi che estraesse l'orologio da tasca e guardandolo ripetesse a bassa voce: Mezz'ora. Con le dita tese compì poi un breve movimento come per spiegargli meglio la questione, annuì e mise via l'orologio.

A quei tempi bastava dire e chiedere davvero poco per capirsi e si sapeva alla svelta che cosa gli altri si aspettassero. Non riesco a ricordare infatti che Max Ludwig Nansen si sia sforzato di sapere altro quando quelli gli ebbero dato mezz'ora per mettere le sue cose nella valigia e prepararsi ad andare via con loro. Rinunciò anche a guadagnare tempo col porre nuove domande o ad accertarsi sul motivo per cui erano venuti. Chiese soltanto: Quanto durerà questa faccenda? E siccome uno dei cappotti di pelle alzò le spalle e mio padre abbassò la testa, lui decise di entrare in casa. Lentamente si mosse per passare davanti a loro e quando fu alla stessa altezza disse: Vado a prepararmi. Non ho bisogno di più di mezz'ora.

Nessuno di loro andò nella stalla. Un piede appoggiato sul paraurti, l'altro sul predellino, la sigaretta fra le labbra, il busto chino in avanti con aria forse indolente, certamente distesa, aspettarono sicuri del fatto loro e del loro uomo. Aspettarono silenziosi e forse apatici, non provando interesse per quel che poteva essere accaduto nella stalla. Ma soprattutto aspettarono calmi e placidi perché avevano capito che uno come Max Ludwig Nansen avrebbe utilizzato il tempo che gli era stato concesso, ma non ne avrebbe abusato. Non lanciarono nemmeno un'occhiata alla stalla. Aspettarono mentre il pittore scomparve in casa: probabilmente sciupò una parte del tempo fermandosi nel vestibolo ad ascoltare con la schiena appoggiata contro la porta: era immaginabile del resto.

Se io utilizzo i particolari indispensabili e tralascio quelli superflui, se con la memoria mi trasferisco a Bleekenwarf, in quel giorno, posso raccontare le cose solo in questa progressione: mentre mio padre, guardia della stazione di polizia di Rugbiill, e i due in cappotto di pelle lo aspettavano fuori tranquillamente, il pittore entrò in casa. Si fermò dietro la porta e appoggiandosi con la schiena rimase nel buio del vestibolo per qualche istante, per lo meno fin quando Ditte aprì la porta della sala e lo vide. Allora si staccò dalla porta e le andò incontro. Lì, in corridoio, non volle parlare. La prese per il braccio, la trasse a sé e la riportò in salotto. Dal modo in cui la prese, Ditte capì che era successo o stava per succedere qualcosa. Si lasciò ricondurre davanti alla minacciosa sfilata dei sessantadue orologi a pendolo che segnavano tutti il quarto. Il dottor Busbeck si alzò dal divano e venne loro incontro.

Io, disse il pittore, e dopo una pausa: Io devo andare con quelli. Sono venuti a prendermi. Non c'entra la macellazione d'emergenza? chiese Busbeck. E il pittore a bassa voce proseguì: Mi hanno dato mezz'ora. E Jens, disse Ditte, è lui che puoi ringraziare. Avrà trasmesso tutto a Husum. Ti interrogheranno, disse il dottor Busbeck, so come vanno queste cose. Ma aspetta almeno che torni, disse il pittore. Ma quanto, quanto ti tratterranno? chiese Ditte. In genere dura un giorno e una notte, commentò Busbeck. Ma aspetta almeno che torni, fece il pittore cominciando a caricare con cura una delle pipe. Senza guardarla in faccia disse quindi a Ditte: Prendo la valigetta marrone, due pipe, il rasoio e carta da lettere: lo sai. Vedrai, intervenne il dottor Busbeck, ti interrogheranno e ti faranno i soliti avvertimenti. Sono obbligati perché hanno ricevuto una denuncia da Rugbiill. Ma non oseranno farti niente. Noi, disse il pittore, noi con la nostra fantasia pensiamo che quelli non osino, ma guardati intorno: ciò che molti considerano impensabile… quelli lo fanno, osano farlo. E qui sta la loro forza: nel non avere nessun riguardo.

Si scusò con Teo Busbeck, scosse la testa annuendo alle pendole e disse: Mezz'ora. Sai che devo chiudere tutto. Andò in camera da letto. Sedette su uno degli stretti pancacci e si sfilò le scarpe. Poi si tolse cappotto, giacca e camicia, aprì i cassetti del comò e pescò calze, stringhe e fazzoletti gettando il tutto sul letto; vi aggiunse anche una camicia di flanella. Allora prese dal catino la brocca con il beccuccio e versò dell'acqua. Si chinò sulla bacinella e senza fretta si lavò il collo e la faccia; quindi si strofinò il busto con una pezzuola di spugna umida. Trattò le mani con la pietra pomice e per due volte si ravviò i capelli sottili.

Dopo aver buttato l'acqua sporca in un secchio, pulì il catino con slancio esagerato e gli restituì la brocca. Pulì anche il piano del lavabo disegnando spirali con la pezzuola umida, che poi appese ad asciugare sul bordo della vaschetta. In quel momento, immagino, scoprì che le sue bretelle erano sudicie e allentate: si mise allora a cercare nel cassettone il paio nuovo, ancora nel sacchetto. Le allacciò ai calzoni e per provarle se le passò sulle spalle, le tirò per verificarne l'elasticità: era soddisfatto.

E poi? In un momento simile non si può interrompere la pellicola. Semplicemente va detto ancora che il pittore infilò le stringhe con grande meticolosità, occhiello per occhiello, tenendo la scarpa in grembo. Poi alcuni passi per verificare l'elasticità: soddisfatto. Allora sollevò la camicia sopra la testa e buttò in alto le braccia: sembrava annegare nella sua stessa camicia. Indossò la giacca, il cappotto azzurro, il cappello. Fece qualche passo avanti e indietro, gettò in un angolo gli indumenti che si era levato e appiattì persino la coperta del letto. Non andò alla finestra. Non guardò fuori. Prima di uscire dalla camera prese da una scatola di porcellana azzurra l'orologio, lo caricò e se lo mise in tasca: lo avrebbe regolato più tardi.

Rientrando in salotto notò che Ditte e il dottor Busbeck lo stavano aspettando. Ditte gli tese la valigetta marrone e gli andò incontro. Ma lui disse: Dopo, un momento, adesso devo fare delle firme. E in piedi, appoggiato a un tavolo d'angolo, tolse due fogli da una busta chiusa, li firmò e li mise in un'altra busta che ripose in un cassetto. Immagino che la sua calma, in realtà precaria, e la scrupolosità con cui sfruttava il tempo concessogli avessero trattenuto il dottor Busbeck dal dare sfogo alle sue tranquillizzanti esperienze personali. Il pittore regolò l'orologio controllando l'ora a una pendola alta quanto una persona, fece un gesto insofferente come per dire: tanto torno subito, e si avvicinò all'orologio grigio topo. Lo aprì. Dalla base aperta sfilò una scatola di sigari, ne prese una manciata, e con un rasoio, probabilmente un rasoio scartato, li tagliò in pezzi delle dimensioni adatte per la pipa. Quindi raccolse i pezzi in una scatoletta di metallo con la scritta sbiadita, ripose la cassetta dei sigari nell'orologio e infilò la scatoletta nella tasca del cappotto.

La bottiglietta tascabile? Ditte si ricordò che suo marito usava riempire di acquavite la fiaschetta piatta rivestita di tela e tenerla nella tasca posteriore dei calzoni. Il pittore andò verso la moglie e il dottor Busbeck, che lo aspettavano accanto alla finestra. Appoggiò una mano sulla valigia ma non la aprì. Non manca niente? chiese. Ditte rispose: E tutto legato alla denuncia di Jens. Non ci saranno grosse imputazioni. Già, è così, disse il pittore e tacque con un sorriso rassegnato quando gli orologi a pendolo cominciarono a sostenere caparbiamente, ciascuno per conto proprio, che era la mezza: battevano, rintoccavano, rimbombavano, i congegni scattavano, le catene di metallo si mettevano in movimento sobbalzando, i pesi si abbassavano cigolando e oscillando. A Bleekenwarf si poteva aspettare solo in silenzio che gli orologi annunciassero l'ora esatta. E quando si furono calmati, il pittore disse: Restate qui. Torno subito. Lasciò la valigia sulla finestra e andò nello studio.

Dal giardino lo vidi entrare nel suo atelier, vidi cioè la sua ombra e il mutar della luce quando lui abbassò un avvolgibile. I cappotti di pelle erano sempre vicini all'automobile e fumavano. Mio padre girava e cercava qualcosa che doveva aver perduto, un bottone o la coccarda del berretto: anch'io tante volte gliel'avevo ritrovata. Nessuno si accorse quando io mi infilai nello studio, o forse uno di loro all'ultimo momento aveva visto la porta venir chiusa dall'interno? In ogni caso entrai nello studio e mi chinai vicino alle brocche, ai vasi e alle latte che in estate erano state utilizzate come vasi e che ora erano accatastate in un angolo: mandavano un odore di acqua putrida. Sollevai lo sguardo per osservare i quadri e fui colto dallo spavento: i profeti, i banchieri e i coboldi, i mercanti con la loro furbizia e i contadini con la schiena che pareva piegata dal vento erano avvolti in una luce verde; una fiamma ardeva, si consumava, divampava un fuoco verde che si rifletteva sui quadri. Ricordo perfettamente che il mio primo impulso fu quello di gridare, di dare l'allarme, ma poi, come mi avvicinavo alle tele, il fuoco smise e la luce verde scomparve.

Il pittore si muoveva nella grande stanza. A un certo punto trascinò una cassa sul pavimento, la aprì e la richiuse. Girò il rubinetto dell'acqua e buttò una scatola di conserva vuota sul tavolo delle ceramiche. Sfruttando gli angoli e le nicchie, protetto dai giacigli provvisori, riuscii ad arrivare quasi fino a lui: solo una stretta striscia ci divideva. Scostai la coperta tesa a mo' di paravento: lui era davanti a me. Con circospezione aprì un largo armadio, rimase in ascolto, spalancò le due ante, rimase in ascolto, si chinò: là dentro - non posso dimenticare ciò che accadde all'interno dell'armadio - una distesa di marrone irresistibile nascondeva l'orizzonte; una distesa marrone, interrotta da strisce nere e orlata di grigio, avanzava, cresceva sempre più su un paesaggio crepuscolare. Il quadro era intitolato Il costruttore di nubi. Il pittore lo osservò guardandolo di lato, indietreggiò e mi venne così vicino che avrei potuto toccarlo. Non era soddisfatto, non gli piaceva la sua opera; rivedendo il quadro si sentiva deluso. Con aria preoccupata scosse la testa, si avvicinò al quadro, sollevò una mano, e premette il pugno chiuso sul punto da cui scaturiva il marrone: Qui, disse, qui ha inizio l'azione. Lasciò cadere nuovamente la mano, si strinse nelle spalle e parve colto dal freddo. Non seccare, Baldassarre, lo vedo anch'io che manca il presentimento, il presentimento della tempesta. Per questo il colore deve suggerire meglio l'idea della fuga e ci vuole maggiore attenzione, maggiore disponibilità, e qualcuno che esprima l'angoscia.

La porta dello studio si aprì ma il pittore non se ne accorse. Io avvertii la corrente d'aria che entrava con violenza, attesi - lo ricordo esattamente - il rumore dell'uscio che si richiudeva. Ma il rumore non venne. Allora sollevai la coperta, uscii dal mio nascondiglio e premendo l'indice sulle labbra mi avvicinai al pittore in punta di piedi. Gli diedi dei piccoli colpi. Il pittore sobbalzò, sopraffatto dallo spavento non aprì bocca. E quando stava per dire qualcosa colse il significato della mia mano puntata verso la porta. Quasi fosse preparato a quell'imprevisto, comprese immediatamente il mio avvertimento: in fretta e furia staccò il foglio dall'anta interna dell'armadio, lo arrotolò, lo spinse sotto l'armadio e subito lo estrasse di nuovo. Si guardò in giro: c'erano centinaia di nascondigli e tuttavia nessuno che gli sembrasse adatto per il suo Costruttore di nubi. Angoli, recessi, fessure si offrirono al suo sguardo, e insieme a loro le disponibili bocche dei vasi, ma in quel momento tutto gli parve inadatto: perché mi aveva scoperto. Mi spinse contro il fianco dell'armadio, si chinò su di me e da vicino mi guardò con uno sguardo penetrante che non gli conoscevo. Sentii il profumo di sapone e l'odore di tabacco del suo respiro. Avvertii il freddo dei suoi occhi grigi. Witt–Witt, disse sussurrando, tese l'orecchio verso la porta e continuò a voce bassissima: Posso fidarmi di te? Siamo amici? Farai qualcosa per me? Sì, dissi, e annuii, sì, certo.

Sapevo già quello che voleva. Sfilai il mio pullover verde sollevandolo fino alle spalle, scostai i pantaloni intorno ai fianchi, e il pittore fece aderire il quadro al mio corpo, tirò giù il pullover, lo infilò e lo pigiò dentro i pantaloni. Il golf era adesso molto teso. Cercai di allargarlo tirandolo qua e là. Feci dei movimenti per provare. Portalo via, al sicuro, mi disse piano, e dopo riportalo a zia Ditte. Ne ho bisogno. Mi diede la mano. Ebbi paura quando mi diede la mano con tanta gravità e in ogni caso senza ammonirmi, neppure con gli occhi. Dimenticò di passarmi una mano sui capelli come faceva di solito e tralasciò i soliti gesti, i piccoli colpi e buffetti sul collo. Faccio quel che vuoi, dissi. Il pittore approvò con un movimento del capo e dopo aver teso l'orecchio per l'ennesima volta, sempre sussurrando, aggiunse: Bene, Witt–Witt, non lo dimenticherò.

Chiuse l'armadio e mi fece un cenno perché me ne andassi, sollevò cioè la coperta che fungeva da paravento e attese che vi passassi sotto. Allora gridò: Teo? Sei tu, Teo? Nessuna risposta, ma solo il rumore di un passo lento che si stava avvicinando. Immediatamente riconobbi quel passo. Vengo subito, Teo, gridò il pittore, ho finito, e con un cenno della mano mi ordinò di accoccolarmi vicino al letto. Bevve un sorso dalla fiaschetta che portava nella tasca posteriore dei calzoni. La carta rigida prese a crepitare contro il mio corpo mentre mi accovacciavo di fronte a un'ombra comparsa d'improvviso all'estremità del giaciglio; quando sollevai la testa era già sparita. I passi si interruppero e la punta di una scarpa urtò, come per verificare, i vasi e le latte. Su un tavolo fu spostata una cartella. Evidentemente il pittore sapeva ormai che non era stato il dottor Busbeck a entrare nello studio. Tuttavia gridò: Vieni avanti, Teo! Lo vidi allora aprire e richiudere l'armadio per fìnta, con un gesto che provocò altri passi.

Dal passo avevo riconosciuto subito mio padre e anche il pittore doveva essersene accorto. Non parve sorpreso vedendolo. Si limitò a scostarsi facendogli capire col suo atteggiamento di essere pronto. La faccia di mio padre, quella sua faccia asciutta, appuntita, glabra, si protese verso la luce che entrava dall'alto: stava calcolando. Si notava in lui, appena accennata, un'espressione di superiorità, forse addirittura di soddisfazione. Rimise in tasca l'orologio. Indicò al pittore che il tempo non era ancora scaduto, che aveva ancora a disposizione alcuni minuti: poteva utilizzare il tempo che gli era stato concesso come meglio voleva, eccetera eccetera. Dal modo in cui stava in piedi: il busto eretto, le gambe larghe, le mani sulla schiena, si capiva che il pittore era deciso a non parlare, a non lasciarsi coinvolgere in nessuna conversazione. Non rispose quando mio padre gli chiese il permesso di prendere il plico di schizzi ingialliti appoggiato su un cavalletto e osservò in silenzio il poliziotto che saliva su un panchetto e guardava sopra gli armadi. Non disse né fece nulla quando mio padre aprì l'armadio, vi scomparve dentro con il busto, si chinò e dal fondo prese alcuni fogli bianchi di piccolo formato che tenne uno dopo l'altro controluce, girò e rigirò e depose infine con cura sul tavolo.

Mio padre aveva in mente non so che con quei fogli puliti: li dispose sul tavolo in doppia fila, tornò all'armadio dove scomparve un'altra volta. Frugò con ostinazione, esaminò, valutò, desistette presto da quell'ispezione e si riawicinò al tavolo. Soddisfatto radunò i fogli bianchi, li ammucchiò sul piano del tavolo, senza distogliere mai lo sguardo dal pittore, quasi desiderasse vederlo sorridere: si aspettava un sorriso solo perché si era preparato una risposta. Ma il pittore non sorrise. Mio padre gli chiese il permesso di portarsi via i fogli bianchi: il pittore rimase in silenzio. Il poliziotto disse: Finora hai avuto fortuna, Max, nonostante tutto, e se si è giunti a questo punto, sei responsabile tu solo. Ma io al tuo posto non mi fiderei di poter sempre riuscire a passare attraverso le maglie della rete. Una volta o l'altra rimarrai impigliato e allora niente ti aiuterà, che i tuoi quadri siano e non siano invisibili. In ogni caso li troverò. Abbiamo scovato già altre cose che si pretendevano invisibili.

Batté le nocche sui fogli bianchi di piccolo formato e si avvicinò al pittore. Questi era sempre in piedi immobile e squadrava il poliziotto con aria sprezzante, non ostile e neppure preoccupata, soltanto sprezzante. Adesso riesco a capire per quale ragione mio padre si sforzasse di interrompere quel silenzio, perché cercasse di avere una risposta. Ma Max Ludwig Nansen non si lasciò intrappolare, non dimostrò né stupore, né paura, né rabbia. Dato il suo comportamento, a mio padre non rimase altro da fare che ricordargli come tutto quanto era successo e sarebbe successo in futuro fosse imputabile a lui solo. Lo hai voluto tu, disse, tu stesso. Ma voi siete grandi, voi siete superiori a tutti, non vale per voi ciò che vale per gli altri. Rimase quindi stupito quando il pittore inaspettatamente fece questa considerazione, in realtà destinata più a se stesso che a mio padre: Il termine è scaduto. Dobbiamo andare. E senza aspettare il poliziotto, naturalmente desideroso di stabilire lui il momento della partenza, raggiunse la porta e subito uscì in cortile. Mio padre lo seguì visibilmente seccato.

I due cappotti di pelle erano sempre davanti all'automobile, con la sigaretta in bocca, mentre davanti alla porta di casa aspettavano Ditte e il dottor Busbeck con la valigetta in mezzo a loro: due coppie in attesa, indifferenti. Nessuno parlava. Io avrei desiderato rincorrere il pittore e accompagnarlo mentre si dirigeva verso il gruppo, ma temetti che mio padre potesse scoprire il quadro nascosto sotto il pullover. Andai quindi nella stalla e di lì osservai i due uomini. Uno dopo l'altro si avviarono alla vettura.

Lo ammetto: mi stupì che il pittore non avesse fatto il minimo tentativo di fuggire, per lo meno all'inizio, quando il suo distacco gli avrebbe consentito di raggiungere gli stagni e forse anche la penisola; scavalcando la finestra e attraversando il giardino sarebbe riuscito a sottrarsi alla loro vista. Ma il pittore non tentò di fuggire: diede anzi l'impressione di non aver neppure pensato a una simile ipotesi. Come se gli premesse di arrivare puntuale alla scadenza del termine, prese la valigetta marrone senza alcun indugio. Diede la mano a Ditte. Diede la mano al dottor Busbeck. Si avvicinò all'automobile, si consegnò - ma devo aggiungere: in modo sgarbato - ai due in cappotto di pelle e disse: Eccomi, partiamo. Perché non si va? Uno dei cappotti di pelle aprì la portiera e stava per prendergli di mano la valigia, no: aveva già in mano la valigetta e stava per spingere all'interno della vettura il pittore che si lasciava cadere sul sedile con la schiena curva e la testa bassa. Allora entrò in scena il dottor Busbeck. Fino a quel momento aveva assistito alla scena senza parlare: improvvisamente alzò un braccio, alt, aspettate un attimo, e in quattro passi raggiunse l'automobile. Abbassò il braccio magro e disse con eccitazione: Aspettate, aspettate un momento. Il cappotto di pelle si rizzò. Quell'ometto gli dava fastidio, evidentemente non gli interessava affatto conoscere il motivo di quell'intralcio. Fece un cenno alla guardia della stazione di polizia di Rugbiill, e mio padre accorse. Chiese: Che succede? e allontanò il dottor Busbeck dall'auto. Che vuole? domandò mio padre. Mi ascolti, disse Busbeck rivolto non tanto a mio padre quanto al cappotto di pelle che aspettava apaticamente: Sono stato io, è mia la responsabilità se lo studio quella sera non era oscurato. La colpa è solo mia. Il signor Nansen non c'entra.

Mio padre trattenne per la manica quel piccolo uomo, lo squadrò con aria di rimprovero, ma non osò dire nulla perché in quell'occasione aveva palesemente ceduto ai cappotti di pelle il compito di parlare. Prendete me, disse il dottor Busbeck, prendete me e lasciate qui lui: è stata colpa mia. Fece un passo per accostarsi all'automobile, un passo solo, perché mio padre lo ricacciò indietro con forza. I due cappotti di pelle si scambiarono un segno. Uno sedette al volante e accese il motore. L'altro, additando il dottor Busbeck, chiese al poliziotto: Ma chi è? Ha qualcosa da dire, quello? Mio padre negò con un cenno della mano e rispose: E il dottor Busbeck, abita qui. E un amico. Vi prego, gridò il dottor Busbeck, vi prego di ascoltarmi. Il signor Nansen non sapeva che l'oscuramento…

Tacete, disse il cappotto di pelle, non fateci perdere tempo e tiratevi indietro. Vi consiglio di star tranquillo e di andarvene. Si sedette sul sedile posteriore accanto al pittore e chiuse la portiera. Mio padre lasciò il dottor Busbeck, lanciò un'occhiata a Ditte che era in piedi sulla soglia di casa, lanciò un'occhiata anche a me, girò attorno all'automobile e salì davanti. La vettura si mise in moto, e mentre si avviava lentamente verso il cancello aperto, io raggiunsi di corsa il dottor Busbeck, cercai la figura del pittore nell'auto, la riconobbi subito. Urtai allora con il gomito il dottor Busbeck, e attesi, attesi insieme a lui che Max Ludwig Nansen si voltasse a guardare, ma la sua figura non si mosse.

Seguii con lo sguardo l'automobile che si allontanava, guardai la stalla, dall'altra parte, dove quelli proseguivano la macellazione. Così non ho sentito la chiave nella toppa e i passi di Joswig, e nemmeno l'ho sentito salutarmi entrando. Solo quando il nostro amato sorvegliante mi pose timidamente una mano sulla spalla e premurosamente mi sussurrò: Non spaventarti, non spaventarti, Siggi, sono io, allora mi spaventai e balzai in piedi. Indietreggiai fino alla finestra. Joswig rimase in piedi davanti al tavolo: un cane da caccia in ansia. Sollevò il mio specchietto tascabile, cercando evidentemente di ritrovare la sua faccia, ma non riuscì a scoprire altro se non la luce della nuda lampadina elettrica, che il mio specchio catturava e respingeva. Rimise allora lo specchio allo stesso posto, accanto al mio quaderno, e senza parlare sedette sullo sgabello interamente coperto di tacche. Era già venuto per controllare che osservassi il riposo notturno? Voleva farmi il conto dell'energia elettrica che consumavo in più? Oppure, spinto dalla sua insonnia estiva, era piombato nella mia cella con la speranza che io gli dessi lettura di un "capitolo riuscito", come diceva lui? Si chinò sul mio quaderno e scuotendo la testa cominciò a leggere. Mentre leggeva, sfilava con le lunghe dita dalla tasca superiore della giacca due sigarette malconce, sigarette americane che gli doveva aver regalato uno psicologo statunitense. Le mise come segnalibro nel mio quaderno. Le dimenticò lì: non potevo seccarmene.

Del resto nessuno di noi poteva seccarsi con Joswig, se non per poco, seccarsi con quest'uomo timido e buono che dava l'impressione di subire ciò che subivamo noi, di soffrire quando noi soffrivamo, che si sentiva punito ogni volta che noi ricevevamo una punizione. Continuò a leggere, mentre io guardavo di là dalla finestra, sull'Elba dove non accadeva quasi nulla, dove molto lentamente, stancamente, passava un massiccio rimorchiatore, emettendo grossi getti di fumo. La sua densa nube si fermava davanti alla luna, si gonfiava, cambiava forma e creava una mandria di neri pony che si arrestavano a loro volta davanti alla luna come davanti all'abbeveratoio. Non c'erano gabbiani, e nemmeno interessanti formazioni di nuvole verso Cuxhaven. La luna faceva quel che poteva. In lontananza: la sponda opposta, nera, e una catena di fari di automobili.

Considerato come lettore, vorrei ora ricordare, Joswig non si differenziava affatto da altri lettori. Appena scorsa l'ultima pagina, appena appreso che Max Ludwig Nansen era stato caricato su un'auto della polizia, subito volle sapere se e quando e in quali condizioni sarebbe tornato. Perché mi poneva quelle domande? Scrollai le spalle dandogli l'impressione di non poter ancora decidere. Joswig mi guardò sorpreso, ma non mi chiese altro. Mi venne vicino e insieme a me guardò, attraverso l'inferriata della finestra, nella luce della sera, l'Elba che in alcuni punti, press'a poco dietro alla grande boa, si era inargentata. Le lampade appese ai muri delle nostre officine erano accese e allontanavano l'oscurità dal vasto spiazzo. I salici lasciavano fluttuare nel fiume i loro rami elastici indicando la direzione e la forza della corrente. Il cane del direttore ispezionava la spiaggia per scovare eventuali atleti nascosti sulla nostra isola. E l'ululato? Una nave da guerra, su nel porto, chiedeva l'aiuto di un rimorchiatore con segnali che parevano ululati.

Joswig mi concesse il tempo di notare queste e altre cose. Era in piedi vicino a me e non riusciva a parlare. Non sembrava voler spegnere la luce né pretendere che io andassi a letto: lo avevo capito subito. Stava soffrendo? Sì, soffriva ma non esageratamente. Cercava qualcosa? Sì, cercava il modo per confidarsi: nella sua evidentissima indecisione, che gli aveva riscosso tante simpatie, guardava l'Elba scorrere solerte e silenziosa. Si aspettava da me sollievo, si aspettava un appoggio.

Mi staccai dalla finestra e raggiunsi il tavolo. All'improvviso scoprii come potessi aiutarlo: presi una delle sigarette che aveva infilato nel mio quaderno come segnalibro, e la accesi. Udendo la piccola esplosione del fiammifero strofinato contro la scatola, Joswig si voltò e mi vide fumare davanti al tavolo. Il suo braccio volò in alto per una protesta immediata: Joswig venne verso di me agitando la mano aperta. Non era indignato: soltanto sorpreso. Lo sentii dire: E proibito fumare nelle stanze… Gesummaria, lo sai che è proibito fumare in camera. Prima che me lo ordinasse spensi la sigaretta. Tu, disse, proprio tu Siggi, fai queste cose… Adesso che io ho bisogno di te. Trasse un sospiro. Gli indicai il mio letto. Sedette scuotendo la testa e mi osservò mentre pulivo l'estremità bruciacchiata della sigaretta; non si oppose quando la rinfilai nel quaderno. Adesso, pensai, adesso non ti chiederà aiuto, ma sicuramente ti chiederà di collaborare. E non mi sbagliavo: Joswig era venuto da me perché aveva bisogno del mio consiglio. Cominciò a mettermi a parte delle sue difficoltà nel modo usuale: partì da molto lontano, dalla solita tiritera, per così dire. Sei un anziano, disse, sei uno degli anziani qui e devi sapere che cosa è permesso e che cosa è proibito sull'isola. Poi fece una digressione intenzionale riguardo al regolamento. Per qualche istante si sentì a cavallo col paragrafo: "E proibito fumare negli ambienti chiusi e aperti", poi scivolò due paragrafi più sotto e mi ricordò le conseguenze di eventuali trasgressioni. Risalì l'invisibile ma onnipresente regolamento e si fermò al paragrafo due: "Il sorvegliante è inviolabile, i suoi ordini devono essere eseguiti immediatamente". Non mi resi subito conto del corso dei suoi pensieri. Con voluta indifferenza citò Ole Plòtz, tornò a parlare del suo tentativo di fuga di tempo addietro e con sorprendente frequenza disse "ti ricordi". Ti ricordi di quella sera piovosa? Avevano preparato e pensato tutto bene e c'era bassa marea. All'ultimo momento si erano decisi a usare le chiavi che avevano fabbricato nell'officina. E ti ricordi che dal mare si alzò una nebbia così fitta che le navi gettarono le ancore nel fiume? Si potevano sentire il fragore e lo sferragliare delle catene. Gli altri non volevano, ma Ole, nonostante la nebbia, era deciso, e le cose incominciarono nel modo stabilito. Ti sarai reso conto anche tu che hai fatto bene a non seguirli. Probabilmente anche tu ti saresti messo a gridare aiuto come gli altri! Bravo chi riesce a nuotare nell'Elba quando c'è la nebbia! E ti ricordi? Arrivarono all'alba con gli abiti grondanti, e noi tutti intorno. Non desiderando sentirmi un'altra volta quel disco, dissi: Sì, lo so, mi ricordo quella notte e la nebbia e il male che con quel loro tentativo di fuga hanno fatto ai sorveglianti, soprattutto a uno, eccetera eccetera. E passato parecchio tempo, ma non molto. Joswig fece di sì col capo, digrignò i denti e allargò le braccia, diciamo con un gesto di doloroso sconcerto. Perché, Siggi, uno si è fatto delle esperienze? Capisci la ragione per la quale le esperienze non servono a nulla o quasi? A chi sono destinate le esperienze?

Allora mi dimostrai molto interessato al suo racconto e per alcuni istanti gli rivolsi mute domande con gli occhi: Joswig non si trattenne oltre. Capisci, Siggi? disse. Dopo quanto è successo. Non subodorano affatto che io lo sappia. Hanno discusso il piano nei gabinetti. Tutti potevano sentirli. Che devo fare? Ole, il tuo amico Ole Plòtz, venerdì prossimo raschierà la marmellata dalle fette di pane e la raccoglierà in un pezzo di carta. La sera, così hanno deciso, durante l'ultimo giro lui mi stordirà, e poi un'altra volta la stessa storia: un'altra volta. Io dissi: Non ne so niente, davvero, e Joswig, abbastanza triste, proseguì: Ole dovrà restare a terra con la marmellata sulla faccia e sul collo e io dovrei pensare che si siano azzuffati o che sia caduto. Dovrei aprire la porta spaventato, precipitarmi dentro e chinarmi su di lui. Mentre io tenterei di alzarlo, lui, sempre secondo il piano, mi immobilizzerebbe e così non dovrebbe chiedermi due volte il permesso di avere le chiavi: un'altra volta la stessa storia, Siggi, e se senti queste cose ti devi semplicemente chiedere: ma non servono le esperienze?

Chi altro c'è? chiesi, ma Joswig si rifiutò di rispondere. Forse gli stessi dell'altra volta. E succederà venerdì? Sì, venerdì, e io da che lo so continuo a tormentarmi, disse Joswig. Che cosa posso fare di quel che so? Ci sono diverse possibilità. Mi chiese che cosa pensassi, per esempio, dell'ipotesi di non entrare da Ole, oppure di entrare ma, invece di chinarsi su di lui, di immobilizzarlo: sarebbe per così dire legittima difesa. Naturalmente, disse, potrei anche mandare a monte il loro progetto: basta dire una parola al direttore. E qui Joswig abbassò gli occhi e rimase in silenzio. Improvvisamente capii che lasciava a me il compito di trovare la quarta alternativa, quella che, a quanto credo, desiderava in cuor suo. Non avevo ancora cominciato che Joswig sollevò la testa pieno di speranza. Potrei parlare con Ole, dissi, e spiegargli che tutto è inutile perché la cosa è risaputa e finirebbe male come l'altra volta: potrei dirglielo, ma non sono certo che mi ascolterebbe. Ti ascolterà, disse Joswig, e io allora: Ma in ogni caso non va. Non posso avvertirlo: se lo avverto crederà che io collaboro con i sorveglianti. Nessuno qui può permettersi una cosa simile. Ma che devo fare? domandò Joswig. La sua pena era credibile. Che devo fare, Siggi? Venerdì fa presto ad arrivare. Se tu non lo avverti, che cosa succederà? Marmellata, dissi: bisogna mettergli sul tavolo un bel vaso di marmellata e incollato sul vetro un biglietto con la scritta: Servitevene liberamente nel caso in cui le ferite non siano sufficientemente rosse. Joswig mi guardò incredulo. Evidentemente aveva avuto lo stesso pensiero ma lo aveva respinto. Considerò l'idea di nuovo: parve che gli piacesse, finì per trovarla divertente. In ogni caso si familiarizzò e la ritenne l'unica soluzione possibile. Si alzò dal mio letto. Lo sapevo, disse, e mi diede la mano, lo sapevo, Siggi: da te non si viene inutilmente.