Alla lente ustoria
Nella mia situazione, di fronte a quaranta sigarette guadagnate solo con ricordi lievitati in un componimento dato per castigo, non si può certamente dire di no. Inoltre, quando entrò in punta di piedi nella mia cella, Wolfgang Mackenroth aveva davvero un'aria sofferente, dava per lo meno l'impressione di un uomo indebolito, forse febbricitante: parve vacillare quando gli battei sulla giacca per togliere le tracce di calce che gli aveva lasciato la parete del gabinetto comune. Quasi tutte le pareti da noi tingono. Una stretta di mano in silenzio. Un gesto di compiacimento per la mole del mio lavoro, poi girò verso la finestra la sua - diciamolo pure - signorile testa da psicologo e guardò fuori, dove l'inverno era un'altra volta affaccendato con l'Elba. Stava per dire una parola sul panorama, ma la trattenne e mi portò invece i saluti del direttore Himpel con il quale era in grande amicizia. Himpel aveva ricevuto la mia lettera, e Wolfgang Mackenroth era presente quando la aveva aperta, la aveva letta, si era seduto, la aveva riletta una seconda volta e aveva quindi parlato di costrizione, costrizione pedagogica. Invece di esplodere o di placare la propria ira con una canzone, il direttore Himpel - a detta di Mackenroth - aveva compiuto cerchi ansiosi, sempre più stretti, attraverso la stanza; in ogni caso il suo roteare non era rimasto senza effetto: ritornato alla scrivania, aveva spiegato come talvolta, anche usando la costrizione, si ottengano buoni risultati. Non gli aveva riferito il contenuto della mia lettera: aveva dunque acconsentito al mio desiderio di poter continuare a scrivere anche oltre l'Epifania.
L'unico sedile che potevo offrire a Wolfgang Mackenroth era il bordo del letto, ma lui rifiutò di sedersi perché voleva andarsene alla svelta. Voleva tornare a casa, sulla terraferma, nella sua stanza ammobiliata di Altona dove lo aspettavano otto bottiglie di birra che gli avrebbero consentito un profondo sonno di quindici ore. Si sentiva sovraffaticato, sfinito e, come mi fece intendere dandosi piccoli colpi sulla schiena, gli pareva di essere svuotato dentro.
Gli chiesi se aiutasse sempre negli allenamenti domestici la padrona di casa, campionessa di asse d'equilibrio per la Germania settentrionale, correggendole la posizione del corpo. Sì, sempre, ma adesso non voleva parlarne. Gli domandai anche se il marito della donna, che faceva il manovratore di gru, continuasse a pregarlo, ogni venerdì, di nascondere venti marchi da restituirgli la domenica mattina. Sì, sempre, ma in quel momento non aveva voglia di raccontare altri particolari. Sarebbe stato ovvio chiedergli allora perché fosse venuto se si sentiva così stanco e non voleva parlare di niente: Wolfgang Mackenroth, sensibile come era, rispose a quella mia tacita ma indispensabile domanda nel modo consueto: con titubanza infilò la mano nella tasca interna della giacca ed estrasse un manoscritto piegato in quattro che appoggiò sul mio cuscino. Lo appesantì con due pacchetti di sigarette e fece un gesto di invito rivolto alle due cose, le sigarette e il manoscritto, come per dire: Serviti a piacere, eccetera eccetera. In ogni caso non si preoccupò di infilare i doni sotto la dura coperta grigia che mi procurava sempre grandi pruriti notturni, e questa sua inavvertenza mi dimostrò che era veramente "svuotato dentro". Non mi diede altre spiegazioni, mi sorrise stancamente e mi batté sul braccio: fu il suo modo di congedarsi. Così poteva essere Mackenroth. Ma sapeva anche essere diverso.
Benché il lettore lo sappia già, devo tuttavia ricordare che il manoscritto lasciatomi da Mackenroth sul cuscino era una parte della sua tesi di specializzazione Arte e criminalità illustrate dal caso di Siggij. Un capitolo non numerato, ma dal titolo illuminante e in ogni caso chiaro: "B. Infanzia e influenze ambientali". Anche questa volta Mackenroth si aspettava dunque un parere, si aspettava di sapere se fossi soddisfatto di me stesso. Aveva tenuto la sua scientifica lente su un ragazzo di nome Siggi J., e adesso anch'io dovevo usarla finché uno di noi cominciasse a bruciare sotto il fascio di luce concentrata. Che cosa dovevo correggere? E come? Si attendeva proposte concrete? Approvazione? Rifiuto? Mi presi il manoscritto e accesi una sigaretta.
…terzo e ultimo figlio della guardia di polizia distrettuale Ole Jepsen. Il suo paese natale è Rugbiill, un piccolo centro vicino a Gliiserup all'estremo nord della Germania, non lontano dal confine danese. Siggi - i suoi nomi esatti sono Siegfried Kai Johannes - discende per parte materna da una famiglia di tenaci contadini che da secoli lavorano terre di loro proprietà; nella famiglia del padre, invece, prevalgono - prevalgono! - piccoli commercianti, artigiani e funzionari statali dei ruoli inferiori. Nella casa paterna, dove la vita si svolgeva normalmente, il ragazzo crebbe senza contrasti e superò i normali stadi di appercezione (!). All'affetto per il padre si contrapponeva un amore per la madre che può essere definito timoroso. I fratelli Klaas e Hilke, maggiori di molto del soggetto in esame, non furono suoi compagni di giochi, il che portò il ragazzo a crearsi un proprio mondo infantile notevolmente vivace, animato, secondo le dichiarazioni della madre, da due figure, Kaes e Piich, fonte per lui di gioia ma anche di tormento.
Wolfgang Mackenroth aveva dunque incontrato quelli di Rugbiill e li aveva indotti a parlare.
Nonostante l'intensità del suo mondo interiore, i rapporti dell'io infantile con il mondo esterno si conservarono intatti: anche i lunghi periodi nei quali il ragazzo fu abbandonato a se stesso non lasciarono conseguenze visibili, a giudicare dal suo comportamento reattivo. Secondo l'opinione dei genitori e anche di taluni vicini di casa, prima dell'età scolare il soggetto in esame dava l'impressione di essere un fanciullo modesto, semplice e complessivamente normale, che godeva delle simpatie generali. Alcuni testimoni ne ricordano in particolare il "patologico" bisogno di pulizia e la costanza nell'escogitare domande che riuscivano a mettere a disagio anche gli adulti: è stato inoltre evidenziato il suo precoce senso della giustizia che tra l'altro si manifestava quando a tavola venivano fatte le porzioni di cibo. Per contro, pare errato il giudizio di un anziano vicino il quale sostiene di aver notato nel bambino sintomi di falsità e di anormale senso del possesso, nonché una tendenza all'esagerazione incontrollata. Secondo l'opinione di tutti gli interpellati, dal primo giorno di scuola Siggi è stato sempre il migliore della classe; da ricordare il fatto che la scuola fu da lui considerata per lungo tempo un luogo di predilezione. Spesso il fanciullo arrivava in classe un'ora prima dell'inizio delle lezioni e, come confermano i suoi genitori, al mattino non era necessario svegliarlo. Le vacanze estive gli sembravano troppo lunghe. Il suo maestro ha definito Siggi J. un "bambino vecchio": non solo non partecipava agli scherzi dei suoi compagni, ma cercava sovente di dissuadere i coetanei dalle loro imprese, o le impediva ricorrendo a modi assai fantasiosi. In occasione di ispezioni scolastiche ottenne non solo elogi ma anche ammirazione. Alcuni suoi ex compagni di classe gli hanno riconosciuto uno spiccato senso di solidarietà, che testimoniava ultimando per primo i compiti in classe per poter passare agli amici il suo quaderno.
Per interessamento del suo insegnante il soggetto in esame si è presentato diverse volte alla radio dei ragazzi della stazione di Amburgo e, a detta della regista, ha riscosso un eccezionale consenso nei cicli intitolati Ragazzi guardano il mondo e Le risposte dei ragazzi; ha partecipato anche a un quiz vincendo diversi premi. Se si esclude la religione, ha dimostrato in tutte le materie capacità uguali. Il suo insegnante ha tuttavia messo in evidenza le sue particolari doti in disegno e in tedesco, ricordando a questo proposito che alcuni suoi componimenti furono letti in occasione delle feste scolastiche. Eccelleva nelle descrizioni di quadri; la sua descrizione di un naufragio, tratta da un dipinto del pittore Paul Flehinghus, fu addirittura inviata a Kiel, al ministero. Se più tardi, durante la scuola media superiore frequentata a Glùserup, Siggi J. non riuscì sempre a essere il primo della classe, il fatto va attribuito ai nuovi interessi e alle nuove attività che esplicava nelle ore extrascolastiche; a questo riguardo ci diffonderemo più avanti. Comunque, anche relativamente a questo periodo, vengono concordemente messi in rilievo la sicurezza nel giudizio, la caparbietà e T'aggressivo senso artistico", come fu detto da più parti.
In ogni caso il bilancio delle informazioni raccolte giustifica la supposizione che il motivo del precoce isolamento in cui Siggi venne a trovarsi sia da ricercare esclusivamente nelle sue doti. Accade sempre che una comunità di persone, qualora si senta sfidata, minacciata o indebolita da un individuo eccezionalmente dotato, finisca per riversare su di lui il proprio interesse, la propria rabbia, e giunga infine a perseguitarlo con il proprio odio.
Questa esperienza fu fatta dal soggetto in esame il giorno in cui venne indicato ai compagni come modello e ideale; ogni volta che la cosa si ripeteva, Siggi J. si sentiva sempre più isolato. Il fatto che durante i compiti in classe i suoi compagni si aspettassero l'aiuto di Siggi, non li tratteneva dal testimoniargli, nelle ore extrascolastiche, un chiaro disprezzo. La sua famiglia ricorda come talvolta il ragazzo si nascondesse per sfuggire ai compagni e rincasasse solo al calar della sera. All'isolamento nella scuola faceva riscontro una particolare posizione nell'ambiente familiare: i suoi fratelli erano ormai grandi e i doveri dei genitori erano aumentati, sicché nessuno badava troppo a lui e gli accadeva spesso di venir trattato come un adulto. Siggi fu testimone di trattative, discussioni, disposizioni ed episodi riguardanti l'attività del padre. Prese parte ad azioni che non poterono rimanere senza effetto sulle sue capacità cognitive. Il padre lo mise a parte dei suoi doveri d'ufficio, ma Siggi J. dimostrò sempre una spiccata autonomia non accettando le alleanze che il padre gli proponeva oppure violandole qualora si ritenesse nel giusto. Quando giudicava di essersi meritato una punizione non solo non opponeva difficoltà a chi lo puniva, ma ne facilitava il compito offrendosi spontaneamente al castigo.
Il precoce senso d'indipendenza del ragazzo non si spiega solamente con il fatto che il padre, a causa della guerra, non trovava più il tempo per assolvere ai suoi doveri educativi; si trattava senza dubbio, da parte di Siggi ]., di una spiccata volontà di autonomia ma, come è stato confermato da diverse parti, lui stabilì con i fratelli un rapporto profondo caratterizzato dalla fiducia e dalla sua incondizionata devozione. Forse è stato proprio questo tipo di rapporto con i fratelli maggiori che portò il ragazzo a considerare gli adulti suoi pari e a mettersi dalla loro parte. Con questo non abbiamo affatto spiegato il rapporto tra il pittore Max Ludwig Nansen e Siggi J., rapporto per il quale i genitori non trovarono una spiegazione allora come non la trovano adesso. Gli interrogatori condotti hanno rilevato che questa amicizia nacque nel periodo in cui Nansen lavorava al suo famoso quadro Puledri e temporale; inizialmente il ragazzo gli rendeva piccoli servizi e si limitava a restar seduto in silenzio osservando come il quadro nascesse sotto il pennello. I vicini notarono non senza meraviglia come il pittore, che si era quasi sempre rifiutato di lavorare alla presenza di estranei e trattava con offensiva rudezza eventuali ammiratori, non solo sopportasse la continua presenza del ragazzo, ma addirittura - questo in un secondo tempo — la ricercasse. Furono visti spesso per mano. Il padre del soggetto in esame non aveva niente da eccepire a questo rapporto amichevole in quanto anche lui, come Nansen, era originario di Gliiserup e fin dall'infanzia era legato da amicizia al pittore.
Siggi J. — come suo fratello Klaas e più tardi sua sorella Hilke - fece da modello al pittore. Siggi J. posò solo due volte: è il piccolo folletto e il figlio del cattivo genio del fieno; in entrambi i quadri riesce a conferire alle due figure fantastiche gentilezza e addirittura un senso di familiarità. Risponde a verità il fatto che Nansen inventò per il fanciullo il ciclo di fiabe dove ogni colore racconta la propria storia; anche il saggio, rimasto incompiuto, Imparare a vedere è stato pensato per Siggi J. Capitava che Nansen portasse carta e colori per il ragazzo e dopo avere discusso il tema lo invitasse a gareggiare con lui. I vicini li hanno visti sovente lavorare insieme.
Per sfuggire ai compagni di classe il fanciullo si nascondeva spesso nello studio del pittore, e una volta vi rimase chiuso tutta la notte: gli venne così proibito per un certo periodo di entrare nell'atelier. Il pittore corresse il quadro Nina O. di H. perché il ragazzo non sopportava il viola dell'abito: lo mutò in verde.
Non in verde, Wolfgang Mackenroth, ma in giallo: cerchiamo di essere esatti almeno nei colori; tutto il resto, per quel che mi riguarda, può presentarlo come vuole.
Non è accertabile a che cosa sia da attribuire l'insolita passione di collezionista del ragazzo; forse era la manifestazione di un'inconscia rivalità con il pittore. In un posto sicuro aveva radunato le sue riproduzioni di figure di cavalieri e le aveva esposte alle pareti. Dimostrò una vera mania anche nel collezionare chiavi e serrature, dando prova tra l'altro di grande competenza. Quando la cosa si riseppe, molte persone della zona credettero di aver risolto l'enigma della inspiegabile scomparsa di chiavi, e la direzione del museo di storia regionale di Glùserup pensò di aver rintracciato il ladro che si era accontentato di rubare chiavi e serrature. La supposizione secondo la quale Siggi J. avrebbe compiuto alcuni furti in questa direzione è giustificata.
Quando negli ultimi anni di guerra il pittore Max Ludwig Nansen ricevette l'ordine che gli proibiva di esercitare la professione, ordine che non solo il poliziotto distrettuale Jepsen dovette trasmettergli ma di cui doveva controllare il rispetto, il soggetto in esame si trovò in un inevitabile dilemma. Assunto dal padre come delatore e contemporaneamente incaricato dal pittore di piccole incombenze (riuscì a mettere in salvo alcuni quadri), il ragazzo dimostrò un'istintiva comprensione delle esigenze imposte dal tempo.
Si potrebbe dirlo anche in un altro modo.
A questo si aggiunse una frattura all'interno della famiglia che causò molta sofferenza al ragazzo: il fratello Klaas, mutilatosi di proposito una mano e fuggito dall'ospedale, fu per così dire ripudiato dalla madre e, benché gravemente ferito, consegnato dal padre alla polizia. Conseguenza dell'episodio fu un progressivo allontanarsi del ragazzo dai genitori: probabilmente proprio in questa occasione Siggi J. cominciò a dubitare dell'affetto dei genitori.
Ecco la solita solfa delle circostanze attenuanti.
Solo, senza affetto, in un periodo in cui vennero a mancare sicuri valori umani.
Ma andiamo il ragazzo uscì dalla puerizia e fu costretto a fare esperienze che nessun adolescente può superare senza traumi. C'era la guerra, e sebbene Siggi non ne abbia riportato conseguenze dirette, le subì tuttavia indirettamente ed ebbe a soffrirne con maggiore intensità di molti suoi coetanei: erano esperienze che andavano dalla temporanea scarsità dei generi di consumo all'incontro con la morte. Sensibile e attento osservatore qual era, Siggi J. si preoccupò soprattutto e soffrì - fattore da considerare come uno dei presupposti del suo comportamento successivo - per il mutamento intervenuto nei rapporti fra suo padre e il pittore Max Ludwig Nansen.
Fin qui e non oltre; anche con la migliore volontà quaranta sigarette possono ormai dirsi meritate. Le cose che Wolfgang Mackenroth scrive su di me, sono anche vere: personalmente non direi altro anche perché non spetta a me aggiungere altro. In fondo va anche bene: per me può continuare sulla via che ha imboccato, non danneggerà nessuno, nessuno si sentirà offeso. Soltanto: se qualcuno desidera conoscere il luogo e le persone menzionati in questo trattato scientifico, vuole individuare quel luogo e quelle persone o ha comunque intenzione di capire meglio la loro indole, segua il mio consiglio: procuri di raccogliere informazioni più precise da altre fonti. Di ascoltare altre voci. Di leggere altre descrizioni. Sulla formazione delle nubi, per esempio, o sul passaggio delle cicogne, sulla nostra memoria e il nostro odio, sui nostri matrimoni e i nostri inverni. Mackenroth mi esaminerà con la lente, partirà per Rugbull e porrà loro domande per quanto gli sarà possibile, poi riunirà i particolari di cui è venuto a conoscenza, li decifrerà, li fisserà con gli spilli del suo sapere, cucinerà il mio passato e lo lascerà condensare superando tutti gli esami con questa pietanza; ma una cosa è certa: a me non porterà mai aiuto.
So che cosa Mackenroth ci guadagnerà, ma so anche che a me non porterà aiuto. Non riesco a raccapezzarmi: nel suo testo vengono raccontati i fatti puri e semplici e a un tratto si arriva alla fine. Io invece mi rendo conto che niente può finire, che niente si interrompe. Io vorrei raccontare tutto un'altra volta, in un altro modo, per punirmi, ma poiché Himpel brontola già e mi concede a fatica di mese in mese le proroghe per continuare il lavoro, devo proseguire ridiscendendo negli anni: troppo aspetta ancora. Tornare indietro come la luce: allora sì che si capisce quali momenti aspettano di essere rievocati. Mi aspetta l'attimo in cui finì la guerra, ma prima dell'inizio del tempo di pace c'è un altro inverno, uno dei nostri inverni nordici con un sottile e irregolare strato di neve, con i canali che straripano e un vento umido che smuove le tegole e stacca dalle pareti le tappezzerie e le gonfia: quell'inverno.
Caddero neve e pioggia senza interruzione. I sentieri non lastricati si impregnarono d'acqua o ne vennero sommersi. La chiusa non si aprì più, tanto forte era la pressione dell'acqua. I canali erano agitati da una insospettata corrente che muoveva le erbacce morte aprendole a ventaglio. I pascoli liberi erano vuoti, sui fili correvano le gocce che se ne staccavano subito. Nella neve le orme duravano al massimo mezza giornata. Neri, luccicanti, gli alberi curvi, desolata la spiaggia, coperto di nubi il Mare del Nord: chi non era costretto non usciva. Nelle anticamere delle case c'erano sempre stivali di gomma umidi e malconci, e chi doveva uscire si trovava a dover superare una cortina di gocce che cadevano dalle grondaie traboccanti. L'intonaco - rosso vinaccia e bianco grigio - scorreva sui muri delle case e i vetri erano appannati per tutta la giornata. Fu l'inverno in cui Ditte si ammalò.
La gente parlò della sua malattia per allusioni, nascondendosi la bocca con una mano. Quanto io riuscii a capire fu che la moglie del pittore era tormentata da una sete lancinante, ma non afferrai se questa fosse la conseguenza della malattia o la malattia stessa. In ogni caso quell'inverno Ditte bevve smodatamente qualsiasi cosa: succo di fiori di serenella e tè, acqua, caffè di malto, latte, e la brodaglia nella quale era stato bollito il pesce. Con avidità si portava alle labbra qualsiasi recipiente dove si vedesse luccicare e fluttuare un liquido, e se la interrompevano gemeva: brucio, brucio. Qualunque cosa avesse proprietà liquide non si salvava. Nel suo abito lungo di tela ruvida, con la testa buttata all'indietro, vagava per Bleekenwarf alla ricerca di qualcosa da bere: non risparmiava nemmeno il bidone dell'acqua piovana. Questa sete smisurata e cieca le segnò rapidamente il volto: il suo bel viso magro con la corona di capelli grigi mi pareva avvampare e gonfiarsi.
Fu chiamato il dottor Gripp, e il medico si portò a Bleekenwarf la malconcia borsa di pelle con le chiusure antiquate. Inizialmente parlò da solo con Ditte, poi alle visite fu presente anche il pittore. Jutta e io ce ne andavamo a Glùserup, attraverso i prati intrisi d'acqua, a prendere in farmacia le gocce e le pillole che il medico aveva ordinato. Ma le nuove medicine non facevano che aumentare la sua sete: dopo aver preso le gocce, diceva tenendo gli occhi chiusi: Ancora, e non appena aveva deglutito le pastiglie, versava nello stesso bicchiere l'acqua della brocca e la beveva tutta d'un fiato. Il pittore non parlava molto. Per lo più la lasciava bere e la guardava con aria impassibile; tuttavia, le sue pupille parevano diventate più piccole, tonde e nitide. Rimaneva sempre vicino a Ditte e se doveva assentarsi lanciava a Teo Busbeck un cenno perché badasse a sua moglie. Jobst non poteva suonare il vecchio grammofono che si era riparato da solo, e a Jutta, che era un poco più piena - ma sempre d'inverno ingrassava leggermente — fu proibito di provare nuovi passi di danza vicino alla camera della malata.
Come venni a sapere, il dottor Gripp era preoccupato soprattutto perché quella inaudita sete non cessava mai, nemmeno la notte. Quando la brocca del lavabo era vuota, Ditte si alzava dal letto e barcollando raggiungeva la cucina o la dispensa per cercare qualcosa da bere. Le fecero delle iniezioni, ma anche la nuova terapia aumentò la sete. Quando la febbre salì, il dottor Gripp le prescrisse riposo assoluto. La malata restava tutto il giorno a letto, appoggiata ai cuscini, ma era completamente priva di tranquillità: disperatamente appoggiata ai cuscini, gli occhi grigi volti alla porta, dava l'impressione di ascoltare qualcosa che non accadesse nella stanza, ma lontano, in un passato molto remoto o nel futuro.
Quando veniva qualcuno a trovarla, a tenerle la mano sottile, a sorriderle, io avevo la sensazione di sentire uno sgocciolio, più leggero della pioggia e più soffice della neve: pareva che la luce frusciasse entrando dalla finestra.
Teo Busbeck: aveva scelto a sua dimora stabile il capezzale della malata. Vestito con cura, sedeva in atteggiamento devoto, sprimacciava i cuscini quando era necessario, andava a prendere dell'acqua fresca quando era necessario, e se la malata chiedeva qualcosa con voce fievole, sembrava essere l'unico a comprendere le sue parole appena mormorate: neanche il pittore la capiva con la rapidità di Teo Busbeck. A guardarlo bene, Busbeck dava una sensazione di lontananza, di indifferenza, ma con ogni probabilità si imponeva quella maschera per poter essere più attento a cogliere il minimo gesto o desiderio di Ditte. Una volta vidi il pittore posargli una mano sulla spalla, battergli cautamente la mano sulla spalla, non per esprimergli riconoscenza ma piuttosto per consolarlo: mi pareva infatti che Busbeck ne avesse più bisogno del pittore stesso.
Una sera il dottor Gripp, che nella sua leggendaria magnanimità aveva finora offerto anche a Ditte la possibilità di scegliere tra più malattie, senza titubanza diagnosticò una polmonite. Naturalmente non voleva escludere che nello stesso tempo Ditte soffrisse di un'altra malattia, ma era pronto a garantire che in quel corpo scarnito infuriava la polmonite. Era persino in grado di spiegare come Ditte si fosse presa quel nuovo malanno: Di notte, disse, se l'era tirato addosso la notte camminando a piedi nudi sul pavimento di pietra mentre andava in cerca di qualcosa da bere. Curò la malata come se fosse affetta da polmonite, e quindi le proibì di alzarsi. Ditte non contravvenne mai al divieto se non una volta: scese dal letto e andò a prendere in un cassettone la camicia mortuaria che si era cucita lei stessa, la cintura ricamata e il semplice bracciale d'argento che il pittore le aveva fatto con le sue mani per il fidanzamento; mise queste cose in ordine e ben visibili su uno sgabello e volle sempre averle accanto. Non lo so con certezza, ma ritengo sia vero quello che raccontano: una notte il pittore entrò nella stanza della malata, osservò a lungo la moglie, scomparve per qualche istante e tornò di lì a poco con i suoi strumenti da lavoro: il blocco degli schizzi e un carboncino. Risponde certamente a verità la notizia secondo la quale quell'inverno ritrasse Ditte due volte, non posso invece dire con sicurezza se abbia lavorato al suo capezzale oppure nello studio, a memoria. In ogni caso i due ritratti sono stati più tardi inclusi nel volume / due, dedicato a Teo Busbeck. Ditte è ritratta a letto, rigida e grave, il volto per metà oscurato dall'ombra, la bocca aperta per una domanda, quasi stesse chiedendo da bere - il suo pensiero fìsso, il suo desiderio costante. Sotto le coltri il corpo piatto pare privo di contorni, delimitato appena dalle braccia immobili.
Ditte morì da sola. Avendo diagnosticato una polmonite, il dottor Gripp era anche in grado di redigere il certificato di morte. Fuori nevicava, ma la neve si scioglieva subito. L'agonia deve essere stata breve, in ogni caso silenziosa: Teo Busbeck, seduto sulla sedia vicino al capezzale, non si accorse di nulla. Lavarono la moglie del pittore, le misero la camicia mortuaria e la cintura ricamata e le allacciarono il braccialetto. Poi cominciarono a venire i primi visitatori. Tutti quelli che vennero dovettero rassegnarsi: non era possibile rimanere soli con la morta; in fondo alla stanza, sotto uno specchio velato, sedeva il pittore, mentre Busbeck conservava la seggiola accanto alla testata del letto.
Entrarono e mostrarono ciò di cui erano capaci. Hilde Isenbuttel entrò con le sue soprascarpe di gomma ormai permeabili, si slacciò il fazzoletto bagnato, si soffiò il naso, emise un grido - certamente involontario - e subito si precipitò verso la porta: aveva concluso la sua visita. Il vecchio Holmsen di Holmsenwarf recitò sulla soglia una rapida preghiera, non a mani giunte ma rigirandosi tra le mani il cappello bagnato che teneva per la tesa all'altezza del petto. Lo fece roteare più volte in senso orario e terminata l'orazione si avvicinò alla morta, le prese una mano, la sollevò, la riappoggiò con cautela e scosse la testa raggiungendo il pittore. Si scambiarono un'occhiata ma non una stretta di mano. Il maestro Plònnies invece si diresse subito dal pittore e gli strinse la mano. Poi descrisse un arco ben calcolato, bisogna riconoscerlo, e con un perfetto senso dello spazio arrivò ai piedi del letto: lì quell'uomo, che in guerra era rimasto due volte sotto le macerie e aveva quindi conosciuto la morte da vicino, si voltò verso Ditte e si inchinò rapidamente con il busto rigido. L'uccellatore Kohlschmidt si limitò a metter dentro la testa: fece un segno di saluto all'indirizzo del pittore, gettò un'occhiata alla morta e di buon grado lasciò la precedenza alla signora Holmsen di Holmsenwarf. La signora Holmsen si buttò in ginocchio prima di essere arrivata al letto - evidentemente aveva sbagliato i calcoli - e in ginocchio percorse l'ultimo tratto; quindi afferrò il braccio della morta e si abbandonò a uno spontaneo convulso che durò finché le piacque. In ogni caso i suoi lamenti erano convincenti, non c'era niente da eccepire ai suoi acuti singhiozzi. Allontanandosi, scosse il capo come suo marito. Il capitano Andersen - lo aveva portato in carrozza il sovrintendente alla diga Bultjohann - lo si udì quand'era ancora fuori in cortile: bestemmiava perché Ditte aveva scelto un tempo così miserabile per morire: Non poteva aspettare la primavera, quella cara ragazza? Poiché data l'età era meglio che non cadesse, e se fosse caduto non si sarebbe rialzato senza l'aiuto di altri, Bultjohann lo sorresse fin dentro la casa. Il sovrintendente tentò invano di inserire in un clima funebre il vecchio fotogenico con la barba argentea e i capelli simili a seta. Andersen alla sua età non aveva nessuna voglia di dolersi per la morte di altri: sbavando, avanzando come un pupazzo, lasciando piccole pozze sul pavimento, entrò nella stanza perfettamente silenziosa, cercò di vedere con i suoi occhi stanchi di vecchio e chiese: Ma dov'è quella cara ragazza? Finalmente scoprì la morta e a fatica si accostò al letto. Tentò una carezza sulle guance, ma con un gesto molto approssimativo. Borbottò: Non potevi aspettare la primavera? e al pittore che qualcuno gli aveva fatto notare: E tu, ragazzo, non prendertela troppo.
A questo punto vorrei ricordare anche mio nonno Per Arne Schessel, il contadino e cultore di storia regionale. Con fare circospetto introdusse la sua faccia asciutta e imbronciata, che pareva infilata su un palo, si arrestò al centro della stanza, alzò la testa e chiuse gli occhi. Mimò commozione e alla bell'e meglio improvvisò una sorta di reticente dolore congiungendo lentamente le mani all'altezza del sesso; adottò poi un'espressione tetra che gli riuscì perfettamente, con il solo aiuto degli angoli della bocca. Prima di andarsene allargò le braccia per esprimere, con la consueta esagerazione, la sua personale impotenza, quindi le lasciò ricadere rumorosamente. E Gudrun Schessel? E la guardia della stazione di polizia di Rugbiill? Solo su quelli di Rugbiill non c'è niente da dire perché a Bleekenwarf non si fecero vedere.
In un primo momento si erano decisi per il sì, poi avevano rinunciato. A Okko Brodersen avevano promesso una visita di condoglianze, ma mentre stavano per mettersi in strada erano arrivati dei conoscenti da Husum. Ne avevano quindi discusso abbondantemente durante la colazione del mattino, ma quando si stava finalmente per partire tutti insieme, mio padre ci aveva lanciato un cenno perché aspettassimo. Si informarono di quello che avrebbero pensato i vicini vedendoli arrivare e benché i vicini, come fu loro confermato, non avrebbero pensato niente, la visita di condoglianze a Bleekenwarf, meditata, valutata e più volte decisa, non ebbe mai luogo. Non videro il volto di Ditte morta, quel volto che si era parzialmente sgonfiato e che, libero finalmente da quella sete funesta, aveva forse perso la sua gravità e si era atteggiato a un leggero sorriso. E chi sa se loro - no, devo dire, chi sa se noi tutti di Rugbiill - chi sa se saremmo mai andati al funerale senza Per Arne Schessel che se li era lavorati per benino quella sera durante un'interminabile cena a casa nostra. Mio nonno, ovviamente, aveva predisposto la sua visita di condoglianze a Bleekenwarf in modo da passare a casa nostra per guadagnarsi, o diciamo pure per scroccare, una cena.
Quella sera c'erano crauti e testina di maiale affumicata oltre a due terrine di patate; ma il cultore di storia regionale pretese per sé anche del lardo fuso da versare sui crauti. Mentre lo guardavamo deglutire, biascicare e spalare, lui ci dimostrò per quale ragione non avremmo potuto mancare alle esequie: Davanti alla bara ogni cosa finisce… Davanti alla morte dobbiamo… Chi lascia il mondo non può perche… Nessuno oltre la tomba… Una riconciliazione vale sempre la pena… Disse anche: Ho imparato… L'ultimo saluto non può… Il dovere dei vivi è di… Chi si sottrae a quest'ultimo dovere non potrà certamente… Nemmeno un poliziotto, eccetera eccetera.
Mangiò con appetito, parlò molto e anche in quell'occasione gli riusci una frase memorabile: Non sempre la stirpe è responsabile per il singolo. Quando se ne andò era ormai chiaro che anche noi saremmo intervenuti al funerale di Ditte.
Il funerale ebbe luogo un sabato; era fissato per le 12. Si trattava del primo funerale al quale potevo intervenire, ed ero cosi eccitato che la notte precedente sognai di Ditte. Insieme, sopportando gioiosamente la fatica, costruivamo una collina, una ripida montagna di torte, trasportavamo sacchi di zucchero in polvere che svuotavamo su una delle pendici, poi trascinavamo fin sulla cima una slitta. Scendevamo a pazza velocità e mentre ci abbandonavamo alla discesa io riuscii ad assaggiare il terreno: era dolce. Ditte mi teneva stretto e pilotava sapientemente la slitta in mezzo agli ontani dai tronchi rivestiti di un lucido strato di ghiaccio. Il vento misurava la lunghezza delle nostre sciarpe.
La mattina del funerale fui il primo a essere pronto e aspettai con impazienza mio padre che pareva non riuscisse a decidersi sull'abito: prima indossò la divisa di tutti i giorni, poi di malumore si infilò nell'abito nero passato di moda, quello che già il giorno del suo matrimonio gli tirava sotto le ascelle e che adesso gli era diventato ancora più stretto, quindi scaraventò con sollievo l'abito borghese sul letto e ricorse all'uniforme di gala. Come aveva detto Klaas, con quella divisa somigliava a un babbuino che la domenica ottiene il permesso di indossare l'uniforme del guardiano. Non dava l'impressione di essere vestito, ma travestito: sembrava rimediato, fabbricato artificialmente, e se di regola si poteva affermare che il fondo dei suoi pantaloni era quanto meno cascante è impossibile farsi un'idea di com'era con la tenuta di gala: bisogna proprio averlo visto. La giacca invece gli andava abbastanza bene, perché nel taglio erano state previste eventuali variazioni di peso e di circonferenza.
Mio padre scrollò energicamente le braccia verso il basso e chiese il parere di mia madre: Va bene, Gudrun? Dimmi se vado bene. Posso andare in giro vestito in questo modo? Gudrun Jepsen lo squadrò con indifferenza e bevve la sua polverina calmante sciolta in acqua, esprimendo il proprio parere favorevole soltanto con il silenzio; poi si avvicinò allo specchio nell'anta interna dell'armadio e si sistemò per l'ennesima volta l'abito di seta nera che non si adattava né alla sottogonna di lana né all'enorme maglia pure di spessa lana. Avrebbero potuto passare l'intera giornata a vestirsi per il funerale, ma per buona fortuna il loro sguardo incontrò qualcosa che li distrasse dalle preoccupazioni vestimentarie: scoprirono me. Perché il ragazzo non ha le calze nere? Ed è senza berretto? E non possiamo portarlo in giro in stivali di gomma anche se la neve è diventata fanghiglia. E se ci vuole una sciarpa, che sia almeno quella trapuntata. E le mutande? Ma quali mutande si è messo? Mostra un po' le unghie! Dal parrucchiere. Dal parrucchiere avresti dovuto mandarlo. Mi si avventarono addosso, mi lisciarono e modificarono, mi aggiustarono secondo i loro piani e verso le undici giunsero alla conclusione che avrebbero dovuto incominciare prima a occuparsi di me.
Ma lascia stare il ragazzo, Gudrun, se no non ce la facciamo, disse mio padre contrariato. E allora si infilarono nei loro cappotti, si avvolsero nelle loro mantelle impermeabili e finalmente scendemmo da basso dove ci aspettava Hilke: piuttosto agitata, è bene dirlo fin da ora. La sua agitazione non si adattava alle calze nere, alle soprascarpe nere e al cappotto di panno nero. Sventagliava i guanti di pelle che le avevano regalato a Natale, se li batteva sul polso e cacciava immaginarie mosche vicino all'attaccapanni. Che è successo? chiesi. E lei, come tutta risposta, mi batté i guanti sul collo e mi spinse fuori davanti a sé nella neve, nella pioggia. Nel cielo sopra il Mare del Nord si stava avvicinando altra neve, altra pioggia, si annunciava con un violento brontolio: un banco di nubi scure dal quale calavano cortine biancastre. Il vento mise subito alla prova la nostra resistenza, ci aggredì di fianco, entrò dentro i nostri cappotti, ma trovandoli ben abbottonati si diede da fare con le mantelle impermeabili. Non era facile tenere la rotta con quel vento, su quel terreno scivoloso, come non era facile stare fermi ad aspettare mio padre, che naturalmente aveva dimenticato qualcosa: non lo si potrebbe definire un intervallo di tutto riposo.
Finalmente ripartimmo, Hilke e io davanti, i coniugi Jepsen a braccetto, muti, a una distanza di forse cinque metri: una colonna familiare in marcia che, al termine della strada di mattoni, scese su un sentiero fangoso e inondato dall'acqua, attraversò un ponte di legno e poi prese la via dei campi in direzione di Riepen. Riepen non è il cimitero di un villaggio omonimo - non esiste un paese con questo nome — è il camposanto di Gliiserup.
Quel sabato, a un pilota che sorvolasse in aereo la nostra zona si sarebbe offerta questa scena: verso un piccolo spiazzo diviso in due sezioni quadrate da un sentiero ghiaioso e cintato da una rada siepe convergeva parecchia gente, singole persone o gruppi, ma tutti indistintamente alle prese con il vento: chi se ne lasciava portare, chi lo affrontava di fianco, chi veleggiava col vento in poppa, chi gli opponeva resistenza, col busto chino in avanti. Avanzavano da tutte le direzioni su un tappeto di neve sporca, già annerita, si incontravano sui sentieri e sui ponti di legno che scavalcavano i fossati, là si ammassavano, si salutavano con cenni rapidi; quindi, in una formazione nuova; più numerosa, si riversavano contro la collina regolare, artificiale senza alcun dubbio, dove sorgeva un unico edificio, alto e allungato, di mattoni rossi. Il pilota sarebbe stato sicuramente colpito dalla regolarità dei movimenti di quelle persone: camminavano in fretta ma non correvano, con stupefacente disciplina avanzavano verso un portone aperto davanti al quale erano ferme due automobili; una terza stava arrivando in quel momento. Di fronte al portone un nuovo affollamento, questa volta ancora maggiore: qui si salutavano con più calma, deponevano addirittura ciò che tenevano in mano molti avevano qualcosa in mano - intrecciavano discorsi e si trascinavano sotto i reciproci ombrelli. Dall'alto si sarebbero potute vedere molte cose, e tuttavia non abbastanza.
Quando incontrammo gli Holmsen, Hinnerk-Timmsen, Hilde Isenbùttel e Okko Brodersen — in divisa di portalettere - mio padre ci mormorò: Tenetevi insieme e guai a voi se dovessi avere delle noie. Si lasciò requisire dal locandiere del Wattblick, che gli parlò in modo insistente e lusinghiero, probabilmente per offrirgli di cooperare nella sua prossima impresa commerciale. Dopo la guerra, Jens, disse, intendo alla fine della guerra. Hilke si era messa i guanti ma non aveva infilato le dita fino in fondo. Mi aggrappai a quelle dita fredde e vuote e le rimasi accanto. Anche se non me lo avessero ordinato, sarei rimasto in ogni caso vicino a mia sorella che mai mi era parsa bella come quel giorno. Il nero le donava. Come ci avvicinavamo al cimitero la sua agitazione aumentava: si guardava intorno, voleva scorgere qualcuno o esserne vista, ogni tanto finiva in una pozzanghera e si schizzava le gambe; le sue gambe erano coperte di schizzi di fango fino agli incavi delle ginocchia, piuttosto grassocci. Ma non solo le gambe di Hilke, quasi tutte le calze e quasi tutti i pantaloni che vidi erano disseminati di chiazze di fango; Okko Brodersen ne aveva persino sui fianchi. Mio padre era quello che se l'era cavata meglio, forse per il suo modo di camminare.
Avanzavano verso di noi, sempre più numerosi, quelli che volevano essere salutati: Karl Wilhelm Buhning e Jens Lampe, Hedwig Struwe, che tutti chiamavano semplicemente mamma Struwe, Anker Bulk e Detlev Hegewisch, le due sorelle Gierling che parevano cresciute troppo in fretta, il sovrintendente alla diga Bultjohann con il maestro Plònnies, la signora Sòllring della proprietà Sòllring sul suo cavallo castrato sempre irascibile, Jap Leuchsenborn e Paul Flehinghus, i due amici pittori di Gliiserup - loro specialità: partenze e drammatiche scene marine — la giovane insegnante di scuola media Booysien e il falegname Heck deformato dall'artrite; era lui che aveva fatto la cassa di Ditte. Nessuno avrebbe mai pensato che nella nostra zona vivessero tali e tante persone: si muovevano, incalzavano alla volta del camposanto stabilendo un netto contrasto con la solitudine del luogo. Ma se almeno fossero entrati! Invece si fermarono sul viale principale formando gruppi neri contro i tumuli in rovina. Sostarono davanti e dietro alla triste cappella, sotto gli ontani stillanti di pioggia e accanto alla siepe scompigliata dal vento. Non si vedeva né si sentiva il capitano Andersen. C'era invece Jutta, pallida e attenta, e vicino a lei il pingue mostro infilato in un vestito di maglia nera che speravo gli irritasse la pelle. Noi avevamo trovato un buon posto davanti alla cappella, ma a poco a poco fummo ributtati sul viale laterale contro alcune tombe, tombe spoglie: nel terreno fangoso erano semplicemente infisse delle croci di legno stinto e sulle croci si leggevano nomi stranieri. Poche cornacchie volavano verso il camposanto ma svoltavano subito, appena in tempo. Erano gli unici esemplari di uccelli che si facessero vedere. Non c'erano né pettirossi né gazze, né fringuelli e neppure una cinciallegra. Hilke mi trascinò lungo una fila di tombe fino a una giovane siepe di tuia. Passammo attraverso la siepe e ci trovammo di nuovo, per quanto stretti da ogni lato, sul fronte della cappella. Sul tetto c'era un galletto di lamiera che il vento aveva costretto in posizione orizzontale; ed era proprio questa insolita posizione a conferirgli un'espressione tesa, attenta: sembrava cercasse di scorgere qualcosa, dei vermi o giù di lì.
E il pittore? Non lo si vedeva. Anche il dottor Busbeck pareva scomparso. Probabilmente erano già entrati nella cappella, che era però sempre chiusa. Non so perché non la aprissero. In ogni caso una donna davanti a noi, che da dietro assomigliava a una fetta quadrata di pane abbrustolito, disse a un magro gigante con le gambe storte: Se stiamo qui ancora, sarò la prima a finire là dentro. Chiunque l'avesse sentita si sarebbe detto, più o meno, d'accordo con lei. Solo il gigante con le gambe arcuate, che riusciva a dominare tutto e tutti e che lassù evidentemente si trovava bene, sembrò non cogliere quella protesta. Si chiamava Fedder Magnussen e, se non sbaglio, a Glùserup era proprietario di un cantiere navale.
Poiché non desidero che la donna dal corpo quadrato né l'intero gruppo delle persone intervenute si prendano la polmonite, faccio aprire la porta rosso ruggine della cappella al guardiano del cimitero Fenne, un uomo dall'alito impossibile che si sentiva anche a distanza. Gli faccio inoltre fissare la porta con un chiavistello di ferro e abbassare la testa in modo che tutti si sentano invitati a entrare. Ci accalcammo dunque verso l'entrata e ci infilammo nei banchi troppo stretti e alti.
Fu in quel momento che scorsi il pittore e il dottor Busbeck. Sedevano nella prima fila di banchi vicino al corridoio centrale. Fissavano la montagna di fiori tra i quali brillavano piccole porzioni di legno marrone lucidissimo. Le candele ardevano tormentate dalla corrente d'aria. Il pastore Bandix era in piedi davanti all'altare e probabilmente si stava guardando le unghie. Nella cappella c'era odore di funghi, gallinacci e porcini. Hilke si era sfilata i guanti di pelle ma continuava a tirarli e arrotolarli: evidentemente aveva rinunciato a sollevare gli occhi, prima così intraprendenti. A me si intorpidirono le gambe come sui sedili della casa di mio nonno a Kùlkenwarf. Ma perché non chiudevano la porta?
Molti si girarono e anch'io mi girai verso la porta. Il guardiano, credo, l'avrebbe chiusa volentieri: se non la chiuse fu perché quelli che non avevano trovato posto nella cappella non volevano restare fuori; e lo facevano capire con voce abbastanza risentita. La porta rimase aperta. Penne lanciò al pastore Bandix un segnale e questi alzò il viso con gli spessi occhiali, esaminò il soffitto e allargò le braccia. Noi ci alzammo per la preghiera, ci sedemmo e subito ci rialzammo per il canto Quando dovrò morire. Hilke cantava con impegno, cantava in tono alto senza guardare mai il testo. Anche il pittore cantava, come del resto mio padre seduto tre file dietro di lui; solo mia madre non si univa al coro.
In tutte le mie azioni, disse il pastore Bandix, chiedo il consiglio dell'Altissimo, e quando ci sedemmo dimostrò per quale ragione lo facesse.
Ci tracciò il profilo di un condottiero potente, si capisce, astuto, si capisce, insomma di un uomo che vince le guerre e che quindi è anche ricco. E già padrone di mezzo mondo, per così dire - il pastore Bandix disse: di metà del globo terrestre. Mondo o globo terrestre: il condottiero, la cui identità non ci fu rivelata, a ogni vittoria, a ogni conquista intristisce, suscita addirittura l'impressione di sprofondare in un'immensa malinconia ogni volta che al suo cospetto si presenta un messaggero per recargli la notizia di un nuovo trionfo dei suoi eserciti, e questo perché, come avrete già capito, a ogni vittoria diminuiscono le possibilità di pianificare nuove conquiste.
Come ciascuno di voi capirà, questo condottiero, lentamente ma irrimediabilmente, sottomette gli ultimi paesi che gli restano da conquistare. Ma benché le ultime vittorie vengano astutamente procrastinate, non può impedirsi di diventare il padrone del mondo intero - il pastore Bandix disse: dell'intero globo terrestre. Mondo o globo terrestre: il condottiero in un momento di grandissima tristezza si consulta con i suoi astronomi e costoro fanno balenare al loro malinconico signore la prospettiva di un futuro gioioso: gli propongono di conquistare, tanto per distrarsi, gli spazi celesti. Il condottiero si rianima. Affascinato dal progetto e sicuro della vittoria, fa presente all'Altissimo che presto gli contesterà il dominio sugli spazi celesti. Le cose vanno però diversamente perché l'Altissimo, da parte sua, è del parere che il condottiero abbia già conquistato a sufficienza e che debba piuttosto prepararsi a morire. Ma il condottiero non può accettare quest'annuncio: ha diversi motivi per opporsi - il pastore Bandix disse: si ribella accecato dalla collera - e fa sapere all'Altissimo che lui, cioè le sue numerosissime guardie del corpo, in qualunque momento impediranno alla morte di avvicinarsi. Il condottiero, quindi, si stupisce molto quando la sera seguente vede la morte entrare nella sua tenda senza udire alcuno strepito. Si intrattiene con la morte e le chiede una nuova e ultima occasione di salvarsi; la morte gliela concede. Fa sellare il più veloce cavallo del globo terrestre e parte alla volta del Libano dove ha i suoi più lontani possedimenti con giardini sul mare. Ma chi lo aspetta nei giardini? La morte, naturalmente, che si scusa di essere arrivata in anticipo e prega il condottiero di precederla. Costui ubbidisce e mentre percorre uno degli ultimi corridoi viene afferrato da una serenità imperiosa, comunque superiore - il pastore Bandix disse: una muta serenità percorse il suo animo - comprende insomma al momento giusto il valore relativo delle sue conquiste e si sottomette alla volontà dell'Altissimo.
A questo punto il pastore Bandix fece una pausa. Lanciò un'occhiata sicura e coraggiosa al suo pubblico girando lo sguardo da sinistra a destra, in avanti e indietro, e quando il suo braccio scattò in alto e il suo dito indice mirò a un immaginario bersaglio al di sopra della mia testa, io mi girai istintivamente e dietro di me riconobbi i due cappotti di pelle. Mandavano riflessi modesti. Erano armoniosamente seduti l'uno vicino all'altro, con le maniche piegate allo stesso punto e nello stesso modo, tanto che si poteva immaginare l'intervento di un vetrinista. Ma l'amore, gridò il pastore Bandix, l'amore non finisce mai. Allora abbassò il dito sulla montagna di fiori che copriva Ditte e attese un istante. Poiché non successe nulla, ritirò l'indice, fece un cenno col capo all'indirizzo del pittore e si rivolse direttamente a Ditte. Iniziò il sermone con queste parole: Il tuo viaggio è dunque finito. Fece un'altra pausa. Si udirono singhiozzi e lamenti e anche un sordo ululato che mi ricordò una sirena nella nebbia - con tutta probabilità lo emise mamma Struwe. Con una dolcezza che non usava mai nell'ora di religione, forse perché non ne vedeva il motivo, il pastore ripercorse allora le tappe della vita di Ditte.
La fece ritornare fanciulla: abito bianco, scarpe bianche con la fibbia, la grande, silenziosa casa di Flensburg, non rimanere troppo a lungo in giardino, non andare sulla spiaggia perché devi badare alla tua voce, bambina mia, gridavano la mamma e la nonna, tra poco viene il professor Ziegel, il maestro di canto, sempre sorridente e tuttavia grave nella sua marsina, il maestro deve essere soddisfatto di te accompagnandoti al pianoforte accordato su toni troppo alti, il maestro alla fine della lezione riceve un cospicuo onorario, anche lui suscita la commozione della buona società provinciale per la quale è un grande avvenimento quando la fanciullina si esibisce nelle sere d'inverno, dopo pranzo, con brevi lieder. Ma perché, mi domandai, la delicata stanca fanciulla non poteva rimanere per sempre bambina? Perché il pastore Bandix a tutti i costi doveva farla crescere, mandarla al conservatorio e farle recitare il ruolo principale nella Sposa venduta?. Ma il pastore Bandix era ormai lanciato nel risalire le tappe di quella vita. Ricordò piccoli teatri, l'amicizia con il compositore Friedrich Drews, che scrisse per Ditte notturni e arie, alluse alle continue ansie per il fratello paralitico. Finalmente entrò in scena Max Ludwig Nansen. Il pastore ricordò il primo incontro nell'ufficio postale davanti allo sportello dei pagamenti dove tutti e due qualunque cosa avessero aspettato - ricevettero come risposta un secco no. Per un caffè c'era comunque tempo, e già la settimana dopo venivano spediti i biglietti, firmati di loro pugno, con l'annuncio del fidanzamento. Ricordò il matrimonio alla presenza delle famiglie, la rinuncia di Ditte alla carriera e il lungo periodo della miseria e dell'oscurità sopportate con fierezza. E come naturale conseguenza di quel periodo la malattia: la giovane donna indossa abiti grigi e invecchia precocemente; di certo la notte hanno tossito insieme - benché di questo non si sia detto nulla. In ogni caso Ditte sopporta i continui cambiamenti di residenza e gli alloggi di fortuna, sopporta tutto con la stessa calma con cui più tardi sopporterà i giorni degli onori. Sorte alterna che il pastore Bandix definì gli "alti e bassi di una realizzata vita di artista". Per lui, disse rivolto a Ditte, tu sei stata la donna di cui tutti hanno bisogno ma che solo pochi trovano: la compagna in un tempo di incertezze, la consolatrice in un tempo di accecamento, la sorella negli anni della solitudine.
I gemiti aumentarono. Una lamentosa sirena antinebbia rispose dall'esterno a mamma Struwe mentre il pastore Bandix arrancava ormai verso l'epilogo della sua rievocazione. Parlò della felicità, della "felicità dell'essere uniti" che non può non lasciare tracce in questo mondo benché oscuri spiriti — disse veramente: oscuri spiriti - si sforzino di cancellare queste orme. Terminò il suo resoconto con un: Anche tu non hai vissuto invano, e propose di pregare e di cantare nuovamente.
Quando finimmo di pregare e cantare, il guardiano Fenne guidò all'interno della cappella i sei necrofori, tutti, senza eccezione, vecchi con le mani screpolate e rughe nere sul collo, che noi osservammo mentre toglievano le corone di fiori. Il pittore e Teo Busbeck seguirono il feretro per primi. Poi venivano Jutta e Jobst con il pastore Bandix, quindi alcune donne di Flensburg che non conoscevo. Gli altri si inserivano nel corteo quando vi scoprivano uno spazio vuoto e quando riuscivano, come Hilde Isenbiittel e la signora Holmsen, a compiere la necessaria rotazione per uscire dal banco. Mio padre si tenne deliberatamente indietro. Si mescolò solo all'ultimo terzo del corteo e come se non bastasse chinò il viso per non farsi vedere o per lo meno per non venir notato subito; in modo ancora più scoperto di lui cercarono di passare inosservati i due in cappotto di pelle: chiudevano il corteo con aria moscia. La faccia del pittore quando ci passò davanti: mal rasata, pallida, attenta, irruvidita dal freddo.
Mi staccai da Hilke e sorpassai il corteo tenendomi all'esterno, sulla sinistra. Quasi contemporaneamente ai becchini raggiunsi la fossa aperta: i bordi erano protetti da assi, ma non era profonda come immaginavo; sul fondo fangoso si notava dell'acqua, non acqua di infiltrazione, ma neve sciolta; dai fianchi sporgevano sottili radici biancastre che la vanga aveva mozzato. Tutto il cimitero di Riepen era stato costruito con terra di riporto e lo si capiva perché lo strato superiore di sabbia e fango raggiungeva solo il mezzo metro; più in basso la terra era nera, friabile, simile a un banco di torba. Il pittore mi guardò e io lo salutai. Lui non rispose al mio saluto. Sorreggeva il dottor Busbeck che pareva schiacciato sotto il peso del suo cappotto umido e che non riusciva a reggersi in equilibrio sul terreno fangoso a causa delle soprascarpe troppo grandi. A un segno di Fenne i portatori deposero la bara e vi fecero passare sotto delle corde di cui tennero in mano l'estremità, pronti, se così posso esprimermi, per il varo. Ma prima che gli uomini calassero la bara nella fossa, il pastore Bandix sollevò una mano e la fece oscillare quasi fosse stata una foglia: benedisse il feretro, e la sua mano rimase, rimase a lungo sospesa nell'aria inquieta. La abbassò solo per pregare. Alla fine della preghiera i becchini puntarono i piedi sul bordo fangoso, alzarono la bara e lentamente la fecero scendere nella fossa. Allora il pittore cinse con un braccio le spalle di Teo Busbeck e lo trasse a sé: i loro corpi formavano un triangolo.
Un incidente? Un grido? Un decorativo svenimento sul bordo della fossa aperta? Per quanto scene del genere si adattino al luogo, devo rinunciarvi. Devo anche negarmi il piacere di citare i giuramenti, le grida, le selvagge speranze che sovente si odono davanti a una fossa aperta soprattutto in condizioni di tempo adeguate. Quando la cassa di Ditte scomparve nella buca, il pittore e Teo Busbeck gettarono una manciata di sabbia. Subito si ritrassero per appostarsi all'angolo della siepe: chiunque volesse dare a Ditte l'estremo saluto doveva passare davanti a loro. E molti si chinarono, e con le dita curve - sebbene fosse a disposizione una piccola pala - raccolsero un po' di sabbia e la lasciarono piovere sulla bara: spesso la rena grumosa batteva sul legno con un rumore sordo; poi stringevano la mano al pittore e al dottor Busbeck, dicevano una parola, oppure non aggiungevano niente.
Attesi che arrivasse il turno di Hilke. Mi misi dietro a lei, dopo di lei gettai anch'io due manciate di sabbia su Ditte e sempre dopo di lei diedi la mano ai due uomini. Anche mio padre si era messo in fila e si stava avvicinando alla fossa tra Brodersen e Bultjohann. Gettò una manciata di sabbia e poi - non dimenticherò mai la sua faccia secca sulla quale era comparsa un'espressione di agrodolce neutralità - si avvicinò al pittore. Il pittore lo guardò con la stessa calma attenzione con cui guardava gli altri. Non sembrava dovesse aggiungere niente di particolare, sembrava insomma che non dovesse accadere niente. Il loro incontro pareva ridursi a una rapida stretta di mano; avrebbero pronunciato i loro nomi in tono leggermente interrogativo: Max? Jens?
Ma quando il pittore strinse la mano del poliziotto e la tenne nella sua più a lungo di altre mani, non fu diffìcile capire che alla sua mente stava affiorando un pensiero: era chiaro che sentiva l'urgente bisogno di sfogarsi immediatamente, proprio in quel momento in cui tutti venivano verso di lui per esprimergli le loro condoglianze. Poi vieni di là, Jens? chiese il pittore a bassa voce, e poiché mio padre, che sembrava essersi aspettato esattamente quella domanda, emise un rapidissimo no, ribatté: Ti devo mostrare una cosa, Jens. Per provargli il suo mediocre interesse, mio padre alzò le spalle e disse: Di che si tratta? Degli ultimi ritratti di Ditte, rispose il pittore senza ostilità ma con una espressione carica di ottimistico disprezzo. Se vieni, Jens, te li mostro.
A quelle parole la guardia della stazione di polizia di Rugbiill non giudicò necessario stringere la mano anche a Teo Busbeck. Serrando le labbra, si voltò, e a vigorose falcate raggiunse il viale centrale del cimitero dove mia madre aspettava tutta sola. Con un gesto precipitoso la prese sotto braccio e la spinse in avanti, ma all'improvviso si ricordò di noi: si voltò di scatto e a mia madre, che teneva sempre agganciata al braccio, fece compiere una vorticosa rotazione costringendola addirittura a spiccare due salti. Sì, sì, stavamo arrivando, ci eravamo già incamminati. Io marciavo ubbidiente al fianco di Hilke, aggrappato alle punte vuote dei suoi guanti. Al ritorno i genitori ci precedettero: senza parlare, salutando questo e quello con rapidi, assenti cenni del capo e camminando a un'andatura insostenibile. Proprio con quella andatura la guardia della stazione di polizia di Rugbiill confessava la sua recente rabbia. Non si lasciò coinvolgere in conversazioni né davanti alla cappella né fuori dal cancello del cimitero, e alle parole del capitano Andersen: E già finito tutto? assentì appena con la testa, non si fermò neppure per concedere una parola al vecchio che giungeva in quel momento in carrozza: proprio allora lo stavano liberando da una coperta.
Sempre al trotto prendemmo la via dei campi: superando ponti e ponticelli, guadando le piatte conche allagate e attraversando i recinti. Il vento cambiò direzione un'altra volta e ci investì frontalmente come spesso succede dalle nostre parti. Bleekenwarf si stendeva su uno zoccolo innevato sotto agli ontani spogli. A Bleekenwarf era stato preparato tutto per il caffè e se sui tavoli allungati per l'occasione non si levavano più le gialle torri di torte caserecce fatte da Ditte, c'erano però i pasticcini spolverati di zucchero a velo, le torte di melassa e di crema di nocciola e tante altre: solo a vederli sui tavoli e tavolini, tutti quei dolci davano l'impressione di una grande opulenza. Se ne erano prese cura le donne di Flensburg; avevano pensato anche a noi e alla nostra fame. Ma mio padre, quando arrivammo all'altezza di Bleekenwarf, non lanciò nemmeno un'occhiata da quella parte. Sempre in testa al gruppo, con una spalla piegata in avanti per fronteggiare il vento, come un baleno saettò fino alla chiusa. Lì si voltò e anche noi ci girammo; per un attimo credemmo veramente che avrebbe invertito la marcia e che con una improvvisa decisione ci avrebbe pilotati di nuovo alla volta di Bleekenwarf. In quel momento, dal cimitero si snodava una disordinata processione: coppie, gruppi, figure isolate.
Si era voltato solo per sottrarsi al vento e strofinarsi gli occhi lacrimosi: ripartì subito. Sulla strada ammattonata, quindi a casa. Chiusa la porta, avremmo avuto molte cose da chiederci e da raccontare. Mio padre, tuttavia, sfogò il suo rancore occupandosi della stufa: riattizzò il fuoco, soffiò, aggiunse altro carbone e ci fece capire così di non essere dell'umore migliore per uno scambio di opinioni sugli avvenimenti della giornata. Per l'esattezza: a me diede subito un ordine. Quando Hilke e mia madre se la svignarono, mi spedì di sopra a prendergli la divisa. Mentre la stufa sbuffava riempiendo la casa di fumo, e nubi tremolanti percorrevano la cucina riducendo la visibilità, cominciò a cambiarsi. Che sollievo! Che benessere! Il suo umore mutò progressivamente: a ogni pezzo che toglieva e buttava sulla panca della stufa, sembrava sgelarsi. Si sentiva meglio e quando udì bussare alla porta di cucina non solo gridò: Avanti! ma aggiunse: Se non siete dei ladri!
Ricordo esattamente la scena: era ancora in mutande quando entrò Okko Brodersen. Il portalettere fece un cenno di saluto, si diresse subito al tavolo, estrasse l'orologio e se lo mise davanti facendoci capire che si era fissato un termine - anche se non ne precisò la durata - per la sua permanenza in casa nostra. Si sedette. La manica vuota era infilata nella tasca della giacca. Guardò l'orologio, quindi mio padre e poi nuovamente l'orologio. Doveva aver preso la via dei campi come noi.
Oggi non ci porterai niente, disse mio padre in piedi su un panchetto mentre allargava la cintura dei pantaloni. Oggi no, disse il portalettere, oggi sono venuto a prendere qualcosa. E che cosa? Te! Infilando il calzone destro, mio padre traballò. Poi abbassò i pantaloni, sollevò la gamba sinistra, mirò alla scura apertura, si interruppe, quindi prendendo nuovamente lo slancio infilò con energia e successo il piede nel calzone sinistro, tirò verso l'alto la stoffa arrotolata intorno ai polpacci, su lungo le cosce e contro il deretano: aveva vinto la sua battaglia. A quale indirizzo mi vuoi consegnare? chiese guardando il pavimento. Siamo tutti a Bleekenwarf, disse Brodersen. Sentiremo la tua mancanza. Non mi ha mandato nessuno, sono venuto di mia spontanea volontà. Mi sono detto: mancherà solo Jens. Su, vieni.
Mio padre si sistemò le giarrettiere e fece scattare tendendoli gli elastici che gli trattenevano le maniche della camicia. Meglio uno di meno che uno di troppo, disse. Potete parlarvi, disse Brodersen. Abbiamo già parlato, ribatté mio padre. Ci siamo detti quel che dovevamo dirci. Scese dal panchetto, si avvicinò allo specchio appeso sopra al lavandino e, divaricando le gambe, si annodò la cravatta. Standogli alle spalle Brodersen disse: Di questi tempi, chi sa se sarà sempre così. E poi in un giorno come questo. Dovreste chiedervi che cosa sia in gioco adesso. Le cose cambieranno sicuramente.
Okko, disse mio padre, faccio finta di non avere nemmeno sentito quel che hai detto, e se proprio ci tieni a saperlo, io non mi chiedo che cosa uno ci guadagni facendo il proprio dovere e se ci ricavi qualcosa o meno. Dove andremmo a finire se per ogni cosa ci domandassimo: e dopo che succederà? Il proprio dovere non si può compierlo a seconda dell'umore che hai e di quel che ti suggerisce la prudenza, non so se mi capisci. Si mise la giacca, la abbottonò e si accostò al tavolo dove sedeva Brodersen. Ce ne sono stati diversi che si sono salvati, disse il vecchio portalettere, perché al momento opportuno non hanno fatto il loro dovere. E allora non l'hanno fatto mai, concluse mio padre asciutto.
Okko Brodersen si levò in piedi, rimise l'orologio in tasca e si avviò verso la porta. Sulla soglia si voltò e chiese: Allora niente? Mi accorsi in quel momento che mio padre stava già considerando un'altra possibilità. Tuttavia non rispose e fece ripetere al portalettere la domanda. Anche allora lasciò passare qualche istante prima di rispondere. Rifletté, quindi disse: Aspetta, ci andiamo insieme, e scomparve nel suo ufficio.
Diventi sempre più grande, disse il portalettere quando rimanemmo soli. Io gli risposi press'a poco: E tu sempre più vecchio. A Hilke, che entrò per mettere le patate sul fuoco, disse: Presto ti porterò un'altra bella lettera, se non dall'Olanda, da Brema. A questa offerta Hilke potè rispondere soltanto: Ma io non aspetto lettere. Sono più belle quelle che non si aspettano, disse Brodersen, e si vedeva come quell'idea gli fosse già venuta in mente altre volte.
Quando tornò, mio padre aveva già indosso la mantella impermeabile ancora lucida di pioggia, si era messo il berretto e aveva infilato i calzoni dentro gli alti stivali di gomma. Era pronto e disse: Per me, Okko… Devi uscire ancora? gli gridò Hilke. Vado a Bleekenwarf, disse mio padre, a Bleekenwarf. Faccio solo un salto a Bleekenwarf. Ho messo a bollire le patate, disse mia sorella e quella frase suonò come una minaccia. Devo solo consegnare una cosa, disse il poliziotto, faccio alla svelta. E se la mamma mi chiede? Dille che sono andato a Bleekenwarf a consegnare il provvedimento. Sarò di ritorno per cena.