L'interruzione

Il passo di Joswig, le visioni che il suo passo evoca quando esce dalla spoglia guardiola della portineria: una scala di ferro a volute, le chiavi che ciondolano dal mazzo, le piastrelle striate e la rete sistematica dei corridoi tetri, delle giornate che paiono fette di mela infilate a seccare su una corda, il silenzio improvviso, il suo occhio che scruta dietro lo spioncino, poi di nuovo il passo fiacco, strascicato, che si avvicina da una lontananza disillusa, il corridoio principale con la tavola nera, il silenzio e la lettura fatta stando in piedi, l'angolo che noi abbiamo annerito a furia di sfregarvi le schiene e i fianchi, l'intervallo per la colazione del mattino, la finestra che non viene mai aperta, il fischietto appeso al cordoncino, il passo strascicato all'altezza del bugigattolo delle scope e di lì pare che gli occorra una mezza giornata o quasi per giungere sfinito alle docce dopo soste sempre più frequenti, quindi lo sforzo finale, piccoli passi disperati, un braccio proteso, l'eccitata irrequietezza delle chiavi, qualcosa che cade, no, nessun tonfo, solo il rumore della chiave che prima con precauzione poi con violenza convince la serratura: spesso è accaduto così.

Benché non abbia mai cronometrato il tempo esatto che Joswig impiega per venire dalla sua guardiola alla mia cella, credo tuttavia che sia lo stesso tempo che io impiego per lavare alla bell'e meglio un paio di calze, per arrotolare una ventina di sigarette, per consumare in pace la colazione del mattino senza che il campanello per l'adunata mi strilli dietro la nuca. Con la stimolante lentezza con cui una nave si solleva e avanza sull'orizzonte, lui lasciava la sua disadorna guardiola abbellita solo da un calendario, e si avvicinava ammazzando il tempo sulle piastrelle. In ogni caso, mentre saliva da me risvegliando immagini e avvenimenti, non ho dubitato delle parole del piccolo Kurt Nickel che sosteneva di essere riuscito a ricucire a dovere le strisce ricavate tagliando il lenzuolo nel tempo in cui Karl Joswig era arrivato ciabattando dalla portineria alla sua cella.

Stava venendo. Mi sono pettinato guardandomi nello specchietto tascabile. Ho seguito un cargo che arrancava attraverso i perfetti quadrati tracciati sul fiume dall'inferriata della mia finestra. Ho osservato i gabbiani che discendevano l'Elba come recandosi a un convegno. L'urlo della sirena chiedeva aiuto per una nave che doveva essere rimorchiata. Joswig non rinunciava ancora. Mi avrebbe portato i quaderni nuovi? Il direttore Himpel mi aveva concesso l'inchiostro e la stilografica per continuare a scrivere? Mi sono rinfrescato i polsi sotto il forte getto d'acqua del rubinetto del lavandino. Ho sbriciolato alcuni mozziconi di sigaretta e ho fatto scorrere l'acqua. Per non mettere alla prova la sua bontà, intendo dire per amore di Joswig, ho spianato le coperte del mio pancaccio. Con sorpresa ho scoperto sull'Elba due sportivi che vogavano ostinatamente contro corrente. L'Elba era libera dai ghiacci. Ardeva sempre la fiaccola della raffineria di petrolio? Sì, ardeva. Era sempre presente Amburgo con i suoi colori abituali, il bianco grigio e il rosso mattone? Joswig si avvicinava, inarrestabile. Che esito aveva avuto l'esame del mio lavoro? Giustificava agli occhi di Himpel la richiesta di altra carta? Con una rapida decisione ho indossato la giacca pulita, quella delle adunate, ho cambiato le scarpe da ginnastica con gli stivali, ho preso dall'armadio di metallo un fazzoletto nuovo. Il giudizio dello specchio grande sulla mia faccia non era sfavorevole: domati i capelli biondo cenere con la scriminatura ben tracciata, gli occhi chiari, profondi come quelli di mio fratello Klaas, il naso insignificante appena appena all'insù, la bocca spigolosa, diciamo pure a schiaccianoci - Pelle Kastner aveva visto bene - il mento robusto, i denti guasti, come rosicchiati, sicura eredità degli Schessel, il collo un po' troppo lungo ma non sottile, guance soddisfacenti: io. Il lavoro assegnatomi per castigo, continuato sia di giorno sia di notte, non aveva lasciato tracce visibili. Veramente il mio specchietto tascabile non era dello stesso parere: a differenza dello specchio grande, mi concentrava ombre pesanti sotto gli occhi e complessivamente mutava l'immagine riflettendo un volto sciupato, affaticato, teso. A quale dei due specchi avrebbe dato ragione Joswig? Vieni, Joswig, forza, contribuisci anche tu, evita di dare un'occhiata alle docce dove troveresti soltanto rubinetti sgocciolanti, impegnati per lo sforzo finale, apri in modo che io abbia finalmente la certezza, o quella che noi chiamavamo certezza.

Anche quella volta, per quanto mi era possibile, gli sono andato incontro. Mi sono addossato alla porta, ho osservato il chiavistello e la toppa dove il tozzo cannello della chiave si infilava, o meglio urgeva incagliandosi e seguiva il movimento della sbarra rotante: chiusura primitiva. Ma la mia raccolta di chiavi, la mia raccolta di serrature: serratura bastarda, serratura di sicurezza, a sdrucciolo, con segreto, chiave gotica, chiave francese, serratura barocca, le ritroverò mai? Per farla breve, la porta si spalancò.

Karl Joswig, il nostro amato sorvegliante, non entrò, non si fece vedere. Udii solo la sua voce: Vieni, Siggi, esci. E io seguii il suo ordine e mi sorpresi di sentirgli chiudere a chiave la cella vuota. Lo faceva per l'abitudine di trentacinque anni di servizio? O, semplicemente, voleva evitare che in mia assenza qualcuno entrasse nel luogo della mia fatica?

Il direttore ti sta aspettando, disse, e mi pregò di precederlo: una misura precauzionale che aveva adottato solo nelle prime settimane della mia reclusione. Lo guardai se non proprio umiliato, certamente confuso, scrutai il suo volto e credetti di scoprirvi una sfiducia nascosta, una dolorosa ansietà. Non ebbi tempo di chiedergli le cause della sua freddezza: con il pollice scuro, appiattito, descrisse un semicerchio e indicò irremovibile il corridoio. Non mi restava altro da fare che precederlo.

Lo precedetti fino alla tavola nera nel corridoio principale. Il rumore dei suoi passi pareva un'eco alterata dei miei, il suo ansimare di vecchio, l'amplificazione del mio respiro. Là, davanti alla tavola nera, girando appena la testa sulla spalla domandai: Tutto concesso? E Joswig seccato: Aspetta, o non sei capace di aspettare? Continuai a camminare davanti a lui. Avvertivo il suo sguardo sulla nuca, sentivo il mio passo farsi sempre più rigido; percepii un dolore lancinante nella spina dorsale. Che cosa dovevo, che cosa potevo fare? Qui tutti noi sappiamo che è possibile conquistarsi la simpatia di Joswig solo spontaneamente, solo se si capisce come ci si deve autoaccusare. Quanto più ti discrediti ai suoi occhi, tanto più lui è pronto a prenderti sotto la sua protezione o, addirittura, a serrarti nel suo cuore. Ma per riuscire a parlare con lui, che cosa potevo rimproverarmi in quel momento? Che cosa potevo inventare? Continuai a stargli davanti e cercai di spiegarmi la ragione per cui era venuto senza quaderni, senza inchiostro e senza una briciola di tabacco, portandomi, invece della sua solita comprensione, l'ordine brusco di presentarmi al direttore. La mia faccenda si metteva male? Si erano seccati per quello che avevo scritto finora? Pensavano di farmi interrompere la lezione di tedesco alla quale mi avevano d'altronde condannato?

Nella sua disadorna guardiola squillò il telefono. Non affrettai il passo. Il telefono non smise di suonare: sei, otto, dieci trilli. Non accelerai, soltanto con la coda dell'occhio guardai a destra, supponendo che Joswig in quel momento mi avrebbe sorpassato, mi avrebbe doppiato per andare a rispondere. Ma non vidi spuntare al mio fianco il suo rigido berretto con la visiera né il mazzo di chiavi che ciondolava tintinnando: Karl Joswig rimase dietro di me, imperturbabile. Solo quando ci accostammo alla guardiola, pronunciò il comando: alt, fermarsi. Come desiderava, mi fermai. Guardai davanti a me e dedicai tutto il mio interesse all'ottavo gradino della scala di ferro. Quando disse: Aspetta, feci di sì con la testa e quando disse: Vengo subito, annuii una seconda volta. Allora, con la coda dell'occhio, seguii i suoi movimenti: staccò il ricevitore, si spinse il berretto sulla nuca e mentre ascoltava contò le chiavi del mazzo, le esaminò, o liberò quelle che si erano incastrate. La conversazione non lo mutò. Come mio padre, al telefono si limitava a risposte brevi e a brevi domande indispensabili. Non diede l'impressione né di essere rasserenato né seccato. Dopo aver riappeso, mi fece cenno di entrare nella guardiola. Fui costretto a trattenere il respiro: l'aria era soffocante, viziata, e vi ristagnava un puzzo come di aringhe affumicate in putrefazione. Stanno arrivando due nuovi, disse Karl Joswig. Hanno bisogno di me. Spero che troverai da solo l'edifìcio della direzione. Assentii ma non mi mossi, anche se mi aveva già spedito via con un gesto della mano che dimostrava come ormai gli dessi fastidio. Hai dimenticato la strada? domandò. Non mi mossi. Lo fissai con uno sguardo insistente, e alla fine, tenendo gli occhi bassi, chiesi quale mancanza avessi commesso per meritarmi tanta durezza. Tenendomi aperta la porta, rispose: Tu e i tuoi amici, voi tutti: si è qui per voi, vi si ama, ci si sacrifica per voi! E voi, voi che fate? Su, vattene! Il direttore ti aspetta. Quindi mi spinse fuori dalla guardiola e chiuse la porta.

Quell'allusione pareva bastargli: sembrava non ritenere importante spiegarmi il suo cambiamento di umore nei miei confronti. Senza la sua scorta, mi avviai verso l'edifìcio della direzione, e mentre scendevo la scala di ferro mi sentivo le articolazioni irrigidite. Nell'atrio esposto alle correnti d'aria tastai la marmorea calvizie del senatore H.W.J. W.L. Riebensahm che, pur non avendo propriamente inventato la nostra isola, aveva tuttavia avuto il merito di consacrarla alla sua attuale funzione. Rapidamente gli solleticai anche il mento gelido. Da quanto non lo salutavo più? Dal giorno in cui avevo visto la sua vedova, ormai prossima ai cent'anni, accarezzare il suo busto marmoreo, non potevo passare di lì senza vezzeggiarlo doverosamente. Non incontrai nessuno. Aprii il portone e uscii all'aperto: era la prima volta dall'inizio del mio lavoro.

Mi chiamò la sirena di un vaporetto? Chiamò me, proprio me? In ogni caso mi voltai spaventato e guardai il pontone d'attracco. In quell'esatto momento ormeggiava il vaporetto con gli ottoni sfavillanti, il vaporetto di Amburgo carico all'inverosimile di impazienti psicologi tutti indistintamente rivestiti di uno spolverino marrone o beige. Sul pontone c'era il dottor Alfred Thiede, il sostituto di Himpel: con un ampio gesto che pareva abbracciare il mondo intero, chiaramente imparato alla scuola di Himpel, salutò gli psicologi in arrivo. Istintivamente cercai una via di scampo e lanciai un'occhiata al nostro orto. Ma fuggire non era necessario perché il dottor Thiede stava ora raccogliendo gli psicologi intorno a sé sul pontone e teneva uno dei suoi irriducibili discorsetti. Dalla spiaggia, dove i cartelli segnaletici scalzati e inclinati dai ghiacci erano stati già raddrizzati, spirava un vento fresco che scuoteva i vinchi. Sull'Elba non c'era nebbia. Nell'aria secca e limpida le rive lontane parevano ravvicinate, e l'acqua del fiume, sempre incredibilmente torbida, lasciava intuire attraverso il verde bottiglia e il blu scuro in superficie le secche e i fondali più bassi. Dal porto stava uscendo una nave pavesata, probabilmente per un collaudo nel bacino di carenaggio. I miei amici spingevano fuori dalle officine le carrette piene di telai di finestre. C'era anche Eddi Sillus.

Non volevo incontrare nessuno: desideravo solo conoscere al più presto come si era messa la mia faccenda. Raggiunsi di corsa il retro delle officine, avanzai al riparo dagli sguardi e dal vento e presi il viottolo sinuoso che porta all'edificio azzurro della direzione. Con due balzi superai la scala di pietra. Aprii la lucida porta di legno di quercia. Respirai profondamente. Salii infine nell'ufficio del direttore. Mi ero preparato una serie di possibili risposte e sapevo come ribattere a eventuali domande tranello. Non intendevo accettare passivamente un'interruzione della lezione di tedesco volevo essere coerente. Diciamolo pure, ero pronto a lottare per la possibilità di condurre a termine il mio lavoro Mi avvicinai all'uscio: alzai la mano per bussare e tesi l'orecchio. Ma prima che il mio dito potesse toccare il legno, nella stanza scoppiò una bufera musicale: con un tocco che pareva il feroce verbo del demiurgo, con un truculento fortissimo, Himpel dava la sensazione di spaccare blocchi di ghiaccio e difendere i ghiacciai; con spietati accordi liberava i ruscelli montani dalla coltre gelata, impetuosamente tendeva insidie all'inverno e lo esiliava, eccetera eccetera. Voleva con questo preparare il fruscio, il volo, addirittura il sussurro della primavera. Poi delineò musicalmente - impossibile non accorgersene - un cielo tempestoso dove si scontrarono alcune forze della natura. Questo non facilitò affatto il cammino della primavera, che doveva lottare per affermarsi in quello sconvolgimento, in quella confusione, per innalzare il suo vessillo azzurro, sempre che la frase voglia dire qualcosa. Ma alla fine Himpel concesse alla primavera un indisturbato trionfo, con grida di gabbiani e sirene di navi, leggeri movimenti ondosi, lieti gorgoglìi di uccelli e una sorta di ossessivo mormorio. E da prevedere che fra non molto il nostro coro si esibirà in questo nuovo canto; forse, poiché l'invito è già giunto, proprio nel concerto della Norddeutscher Rundfunk (una delle stazioni radiofoniche del nord della Germania) che si terrà al porto.

Poiché i miei battiti non riuscivano a superare il fragore dei ghiacciai che si fendevano, attesi il trionfo definitivo della primavera prima di bussare nuovamente. Questa volta venni udito: potevo entrare. Il dottor Himpel, in giacca a vento e pantaloni alla zuava, si alzò da una poltroncina girevole davanti al pianoforte, si chinò sulla sudicia carta da musica, gridò vum–da-da, annuì soddisfatto e mi venne incontro tendendo la mano, una mano calda e umidiccia. Devo ancora limare, disse, indicando dietro di sé. Una rapida occhiata alla sua scrivania mi diede la certezza che avesse letto le fitte pagine dei miei quaderni ma, benché questi fossero accatastati sul suo tavolo, mi resi conto che in quel momento aveva dimenticato il mio caso e non aveva nessuna voglia di parlarne: tutto preso dalle sue incompiute bufere primaverili. Solo quando si curvò sul calendario degli appuntamenti, scopri che ero io quello della casella rossa, quello al quale aveva attribuito una certa importanza: e mi salutò una seconda volta dalla scrivania sollevando le mani e muovendole all'altezza degli occhi. Mi invitò a prendere posto, ma senza sedersi a sua volta, e in una posizione innaturale si mise a sfogliare i miei quaderni leggiucchiando qua e là. Il suo sorriso mi dimostrò che la realtà gli stava riaffiorando alla memoria. Incredulo, scosse la testa, assentì col capo come se fosse d'accordo, poi manifestò gravi preoccupazioni emettendo molteplici ts, ts e si batté persino sulla gamba, ma colpì soltanto l'abbondante rigonfiamento dei calzoni alla zuava. Dopo essersi rimpossessato, sfogliando e leggendo alcuni brani, dei ricordi necessari, si precipitò verso la porta della segreteria, la spalancò e gridò: Informate la stanza quattordici. Richiuse l'uscio ed evitò deliberatamente di guardarmi mentre tornava al tavolo: sapevo ormai di non poter contare su un colloquio a quattr'occhi.

Nel dipinto appeso sopra la scrivania la faccia smunta del senatore Riebensahm guardava ignara da un'accademica semioscurità e pareva molto più interessata alle navi del Camerun in viaggio lungo l'Elba che non a quanto succedeva nell'ufficio del direttore Himpel. Era impensabile potergli chiedere aiuto. Rimasi in ascolto. Udii i passi della segretaria: sui tacchi alti cerchiati d'alluminio uscì dal suo ufficio e attraversò il corridoio martellando il pavimento, in tono sommesso trasmise alla stanza quattordici la formula magica, e subito dopo ritornò in segreteria, ma non più sola: trainava molti passi. Aprì infatti la porta ad alcuni psicologi. Come constatai con sollievo, erano solo cinque… e dovevano evidentemente partecipare a un congresso internazionale ad Amburgo poiché, puntato sul bavero della giacca, avevano tutti un cartellino con il rispettivo nome.

Solo uno non l'aveva. Uno che mi salutò con una cameratesca strizzatina d'occhio: Wolfgang Mackenroth. E io, benché la sua presenza non mettesse certamente in fuga tutte le mie apprensioni, mi rallegrai, per inspiegabili motivi, di vedere anche lui, e risposi al suo saluto senza nascondere i miei sentimenti. Il direttore, intanto, dava la mano agli psicologi e accettava, sorridendo beato, i saluti che gli portavano da Zurigo, da Cleveland (Ohio), e da Stoccolma; quindi, con una voce un po' troppo forte e animata, presentò a sua volta i saluti che gli erano stati commissionati e riuscì a dislocare i suoi visitatori in semicerchio. Che intenzioni aveva? Che cosa lasciava trapelare il suo sguardo? Quale numero intendeva sfoderare quel cavallerizzo della pedagogia? Dressage? Equilibrismo? Volteggio psicologico? Voleva forse farmi salire sul trapezio della sua ambizione, farmi compiere un triplo salto mortale che dovevo mancare di poco affinché lui potesse dar prova della sua presa infallibile?

Ma il direttore Himpel non fece niente di quanto immaginavo. Con un piglio cameratesco mi mise una mano sulla spalla e mi chiese il permesso di esporre succintamente il mio caso ai suoi ospiti. Dando per scontato il mio consenso, diede quindi inizio all'esposizione. Il tutto era incominciato, disse, durante una lezione di tedesco. Il tema del componimento era: "Le gioie del dovere". Alla fine dell'ora il signor Jepsen aveva consegnato il quaderno pulito, e non già perché avesse troppo poco da dire ma perché - come lui stesso ha dichiarato - aveva troppe cose da raccontare. Blocco iniziale. Fobia di Korsakoff. Si decise per una punizione: il signor Jepsen avrebbe dovuto riscrivere il componimento in un secondo tempo, lavorando in un ambiente appartato. Poi Himpel ricordò le condizioni convenute: divieto di ricevere visite, esenzione dal lavoro, eccetera. Quindi descrisse ai visitatori, che non lo ascoltavano affatto con il fiato sospeso ma lo seguivano con indolenza, il modo in cui mi ero messo a lavorare: docilità tardiva; euforia. Gli psicologi tesero tuttavia l'orecchio quando il direttore Himpel comunicò che stavo scrivendo il componimento da ben centocinque giorni. Da tre mesi e mezzo il signor Jepsen, che vedete davanti a voi, è impegnato a scrivere il suo tema. La costanza non gli manca. Ecco, disse sollevando i miei quaderni, ecco la prova schiacciante. Vedete, spiegò, il componimento sta assumendo proporzioni minacciose. Condizionamento del nome. Condizionamento del luogo. Mnemonismo psicopatico. Alla fine Himpel mi pregò di correggere il suo resoconto, se avessi avuto la sensazione che qualcosa era stato alterato. Scrollai le spalle.

Lo psicologo di Cleveland (Ohio), Mr Boris Zwettkoff, si fece dare da Himpel i quaderni, fece scorrere contro il pollice le pagine ronzanti come una schiera di insetti, e si considerò così perfettamente al corrente. Lo stesso accadde per l'esponente di Zurigo, certo Cari Fouchard jr., e per quello di Stoccolma, certo Lars Peter Larsen: entrambi rivelarono sconosciute capacità di penetrazione e di assimilazione di una materia a loro ignota aprendo qua e là i quaderni ma soprattutto soppesandoli: in questo modo si formarono un'opinione a loro giudizio sufficiente. Solo Wolfgang Mackenroth non compì nessuno dei due movimenti. Fu l'ultimo a prendere in mano con circospezione i quaderni: li lisciò accuratamente e li rimise sul tavolo. Io trassi un respiro di sollievo; credendo di avere ormai superato la fase della presentazione mi appoggiai sull'altra gamba, quando Himpel mosse verso di me dal fondo della stanza. Dopo un'occhiata agli psicologi per invitarli a prestare particolare attenzione, mi fece osservare che il mio lavoro non solo era sufficiente ma aveva di gran lunga superato le sue aspettative. Mi offrì quindi di porre termine al recupero della lezione di tedesco. Avevo convinto sia lui sia il dottor Korbjuhn: potevo tornare in seno alla comunità dell'isola e riprendere il mio posto in biblioteca. Hai ora compreso, disse letteralmente, che è necessario scrivere i componimenti di tedesco, e questo era quanto contava, non la punizione. Quasi mi volesse fare un regalo a titolo personale, aggiunse: Sta arrivando la primavera.

Poteva benissimo risparmiarsi l'ultima osservazione: doveva sapere come noi tutti sull'isola veniamo regolarmente derubati della primavera. In ogni caso lo fissai con aria stupita: non avevo previsto una proposta di quel tenore. Così? domandò, e così? Non è una bella prospettiva quella di finire domani? Rivedere gli amici, festeggiare il ritorno? E allora? Ma io, dissi, non ho ancora terminato il mio lavoro. Non importa, disse lui, quel che hai fatto ci soddisfa pienamente. Del resto possiamo fare a meno. Senza il resto, obiettai, il mio lavoro non ha valore, ed ero convinto di quel che dicevo. La mia risposta sbalordì Himpel. Mi pregò di spiegare a lui e ai visitatori per quale motivo mi premesse tanto portare a termine il componimento che mi era stato assegnato per punizione, rinunciando persino alla comunità dell'isola, al sole primaverile, alla biblioteca. Attraverso la larga finestra d'angolo guardai l'Elba e al primo momento non trovai niente su cui posare lo sguardo. Allora perlustrai la spiaggia e in un kayak grigio argento, che in quel momento sbucava da un cespuglio di vinchi, vidi due sportivi. L'imbarcazione pareva abbandonata a se stessa, non avanzava per l'impulso impresso dalle pagaie ma si lasciava portare dalla corrente: il passeggero seduto sul secondo seggiolino teneva avvinghiato l'altro, lo costringeva a rovesciarsi all'indietro e nonostante la difficoltà della posizione gli succhiava il viso, eccetera eccetera; le pagaie rotolavano su se stesse, cadevano in acqua ma non fuggivano via.

Perché? chiese il direttore Himpel, perché? Allora dissi: Le gioie del dovere, vorrei capirle senza operare il minimo taglio, nel loro effettivo svolgimento. E se non smettessero mai, chiese Himpel assicurandosi dell'attenzione degli psicologi, e se le gioie non finissero mai? Tanto peggio, dissi, tanto peggio.

Ebbi la sensazione che quelli perseguissero scopi ben precisi e volessero a tutti i costi chiarirsi qualcosa. Non sapevo però che cosa. I due del kayak ridiscendevano il fiume sempre nella stessa posizione innaturale, alternativamente protesi all'indietro e in avanti, con le bocche incollate come se succhiassero. Purtroppo non si intravedeva nessuna prua di nave che potesse tagliare l'imbarcazione a mezzo; non andò neppure perduta una pagaia.

Inatteso, Cari Fouchard jr. chiese: A chi racconti le cose che scrivi? A me stesso, dissi, e quello ribatté: Ti tranquillizza questo fatto? Sì, risposi, mi tranquillizza. Lo svedese non aprì bocca e di tanto in tanto mi fissava con uno sguardo ostile quasi volesse annientarmi. Boris Zwettkoff, l'americano, sembrò invece molto soddisfatto quando risposi con un secco no alla domanda se, lavorando, provassi la sensazione di trovarmi in acqua, di guadare o di nuotare in un'acqua limpida. Uno scienziato pachidermico - non sono riuscito a decifrarne il nome perché si era puntato il cartellino alla rovescia, ma dall'accento doveva essere olandese - mi sorprese con la sua richiesta. Desiderò conoscere la mia età e il mio numero di scarpe; quando glieli dissi, mi chiese se, scrivendo, avessi fenomeni di traspirazione improvvisa e stati di angoscia. Non volendo mandarlo via completamente a mani vuote, ammisi di provare stati di angoscia. Il fatto che Mackenroth non mi ponesse domande e di tanto in tanto mi incoraggiasse con un sorrìso, me lo rese ancor più simpatico. Quei signori, suppongo, avevano ormai finito di radiografarmi e dovevano essere giunti alla conclusione che con il mio caso non avrei certo fatto nascere una discussione accademica, poiché la commissione internazionale mi lasciò in pace e rinunciò a ulteriori investigazioni.

Evidentemente il direttore Himpel non si attendeva che il consulto prendesse quella piega. Si era aspettato un interrogatorio più lungo, un'indagine più approfondita, un dibattito animato, anche se non focoso. Le sue aspettative non si erano realizzate: toccava dunque nuovamente a lui occuparsi di me. Gettai una rapida occhiata fuori per ritrovare i due rematori: si erano rovesciati, erano affogati, e l'Elba scorreva libera e innocente. Ebbene, Siggi, disse Himpel, dobbiamo cercare insieme una soluzione. Così non può continuare. Un compito dato per castigo, spiegò, non è niente di eccezionale, è una cosa che si verifica dappertutto e qui sull'isola ha dato ottimi risultati come momento pedagogico; ma anche una punizione deve mantenersi entro limiti precisi: centocinque giorni… bastano. Con oggi il castigo termina. Mi offrì la sua mano tanto esperta nel salutare: voleva suggellare lì, sui due piedi, la fine della lezione di tedesco. Ma io rifiutai di inserire la mia mano nella sua. Protestai. Chiesi una proroga. Promisi di non dare più fastidio se solo mi avesse lasciato tornare al mio lavoro. Credo di essermi appellato anche alla sua generosità. Ma tutte le mie proteste, suppliche e promesse parevano senza effetto. Come sono riuscito a spuntarla? Gli ho semplicemente ricordato i nostri patti e gli ho citato la sua promessa: aveva assicurato che sarei stato io a decidere quando il componimento dovesse finire. Non è stato lei a dire che potevo avere tutto il tempo necessario? Con questa citazione non gli feci cambiare completamente parere, tuttavia riuscii a guadagnarmi il suo temporaneo consenso. Bene, bene, disse con tenue rassegnazione, bene, bene: puoi andare avanti.

Si accostò al tavolo e mi restituì i quaderni. Con un'occhiata indagatrice osservò le facce degli psicologi, non notando in loro la minima preoccupazione, mi licenziò con queste parole: La strada la trovi da solo. Ti viene concesso un altro quaderno e dell'inchiostro.

Più sollevato anche se non perfettamente tranquillo, mi aprii un varco nel semicerchio dei visitatori e procurai di passare vicino a Mackenroth. Mi strizzò l'occhio. Il suo sguardo esprimeva approvazione, direi. Ma mentre in alto mi strizzava l'occhio innocentemente, in basso, all'altezza della tasca della mia giacca, armeggiava meno innocentemente: sottili, svelte, e indubbiamente esperte, le sue dita magre aprirono la mia tasca, le affidarono qualcosa, nello spazio di un secondo spinsero, pigiarono dentro qualcosa, poi alla bell'e meglio appiattirono la tasca dall'esterno e si ritirarono. Non me ne accorsi quasi, ma le cose devono essere andate senz'altro così. E non esagero se dico che Ole Plòtz, lo specialista in borsette, sarebbe l'unico qui da noi in grado di rifare quel movimento con altrettanta rapidità.

Sulla porta mi girai un'altra volta, mandai un breve cenno di saluto alla commissione e mi concessi il tempo per esaminare il viso di Mackenroth: non confessava niente di ciò che era accaduto, si era già messo la maschera dell'indifferenza. Seduto così, avrebbe confutato ogni sospetto senza dover dire una sola parola.

Una volta fuori, nel corridoio, infilai la mano in tasca e venni infine a conoscenza di quello che il giovane psicologo mi aveva dato di nascosto. Non era gran che: al tatto riconobbi alcuni fogli di carta piegati, trattenuti da una graffetta, e un pacchetto da dodici di sigarette. Raggiunsi subito i gabinetti. Ficcai il pacchetto dentro la calza, ripiegai i fogli in maniera che formassero una sorta di salvastinco e li avvolsi intorno alla gamba sinistra nella zona del polpaccio. Quindi risollevai la calza e lasciai che l'elastico si restringesse; infine tirai accuratamente i pantaloni. Mi lavai le mani, bevvi dell'acqua e mi inumidii la fronte. Tutte le finestre erano aperte, e l'aria primaverile - lasciata entrare presumibilmente da Himpel - toglieva al puzzo di ammoniaca quella sua acre violenza. Di sotto qualcuno fischiettava Rock around the clock a un ritmo strascicato; per non dover sentire quella storpiatura feci funzionare contemporaneamente i rumorosi sciacquoni dei tre gabinetti, e il violento scroscio dell'acqua attutì il rock. Allora uscii sul corridoio e per qualche istante rimasi in ascolto dietro alla porta di Himpel. Udii soltanto un suono simile a un gemito di soddisfazione, come se qualcuno stesse subendo un massaggio. Allora raggiunsi le scale e scesi di sotto nel magazzino.

Il magazzino, dove si può prelevare il materiale di cancelleria, si trova al pianterreno dell'edifìcio della direzione, vicino alla biblioteca. I due locali comunicano e le due mansioni, distribuzione dei libri e consegna degli oggetti di cancelleria, vengono svolte dallo stesso ragazzo. Sapevo chi mi avrebbe aperto, chi mi avrebbe salutato con un sorriso infido e avrebbe chiesto, masticando imperterrito: Tutto bene, no? E il più anziano di noi, e tutti siamo costretti non solo ad accattivarci la sua amicizia ma a conservarcela tributandogli regolari attenzioni. E sull'isola da cinque anni e mezzo e si arroga speciali diritti; nessuno rifiuta di passargli immediatamente il dessert appena sente la sua richiesta formulata press'a poco in questo tono: Il tuo budino spetta a me; Siggi, aiutalo a farmelo avere. Quando ti viene incontro con i capelli insulsi e le labbra carnose o quando nell'ora di tedesco lo vedi che si sta preparando alle convulsioni e poi si contorce e si lascia cadere a terra, penseresti tutto di lui ma non questo: che la sola vista di una borsetta al braccio di una donna possa subito ispirarlo violentemente, risvegliare in lui doti insospettabili, quali ad esempio la capacità di determinarne il contenuto solo dalla forma esteriore. Penso sia un'esagerazione credere che riesca ad aprire qualsiasi modello con un semplice sfregamento o massaggio della mano, ma da noi ce ne sono due che glielo hanno visto fare.

In ogni caso Ole Plòtz era il mio successore in biblioteca, e come me aveva anche il compito di distribuire il materiale di cancelleria. I miei colpi sul vetro lo richiamarono. Aprì la parte superiore della porta, sorrise con quel suo sorriso che pareva un ghigno, ribaltò un'asse e trasformò la metà inferiore dell'anta in una specie di banco da ceramista. Poi si stravaccò sul legno appoggiandosi ai gomiti, mi guardò e chiese: Tutto bene, no? Glielo confermai. Infilai una mano sotto un calzone e sempre con le orecchie tese estrassi il pacchetto di sigarette. Ne tolsi tre e le misi nella mano eternamente aperta di Ole. Volevo far scomparire subito il pacchetto ma non avevo fatto i conti con il suo delicatissimo senso di giustizia: con eleganza si prese il pacchetto, contò rapido, decise che tre sigarette erano poche, si servì in silenzio e mi restituì il resto. Per riconoscenza si portò un dito alla tempia in atto di saluto. In che cosa posso servirti? chiese, e mi lasciò intravedere che stava masticando un bottone, un bel bottone di corno, probabilmente di un cappotto invernale. Gli chiesi un quaderno non rigato e una boccetta d'inchiostro, ma mi corressi subito e chiesi due quaderni. Al che Ole disse: Pensa bene a quello di cui hai bisogno. Oggi siamo magnanimi. Per me puoi prenderti anche cinque quaderni, per me puoi portartela via tutta, questa merda. Di te oggi non si meraviglia più nessuno.

Mi hanno dato un castigo, risposi a mia giustificazione, e voi lo sapete benissimo.

Sì, disse, ma qui non abbiamo mai avuto uno che si divertisse tanto a scrivere un penso. Non per questo vi ho rovinati, replicai io, e lui: Ma non ti sei certo reso popolare fra queste mura. Oggi però te la perdoniamo. Oggi siamo pronti a perdonare chiunque.

C'è in aria qualcosa? domandai.

Niente di particolare, disse sogghignando. Ci saranno solo alcuni traslochi. Cambiamenti di residenza. Cambiamenti d'aria. L'uomo è un essere responsabile, ho letto in un libro. E se un uomo responsabile lascia volontariamente un luogo, il suo è un gesto di critica, eccetera eccetera. Volete svignarvela? domandai. Speriamo che anche tu venga con noi, disse abbassando la voce. Tese l'orecchio in direzione del corridoio, mi afferrò per il bavero e mi trasse a sé. Questa sera alle undici, sussurrò. Tutto è già stato combinato, siamo in sei. Mi informai dove si fossero procurati la barca, e con aria sprezzante Ole dichiarò che solo chi non sa nuotare è costretto a dipendere da una barca. Gli domandai anche se conoscesse le correnti dell'Elba, e per tutta risposta lui mi ricordò i vantaggi dell'alta marea. Non volle vedere in Karl Joswig un ostacolo o non gliene parve il caso dato che Eddi Sillus si era assunto l'incombenza di vedersela da solo con il nostro amato sorvegliante: Eddi, quello che prima di entrare qui era cintura nera di judo della Germania nord–occidentale.

Gli chiesi che cosa avevano deciso di fare se la corrente favorevole ci avesse davvero portato sull'altra sponda, a Blankenese. Alla mia domanda mi lasciò, mi fissò con uno sguardo malvagio, mi chiamò rammollito, o fallito, e si accese con calma una sigaretta di cui fumò poche boccate. Raggiunse quindi gli scaffali, prese tre quaderni dalla pila e me li schiaffò davanti. Poi frugò in una scatola, ne trasse una boccetta di inchiostro e me la schiaffò sulla tavola. Anche il blocco delle ricevute me lo porse nello stesso modo sgarbato e tamburellò con il dito sul punto dove dovevo firmare: mi fu chiaro che Ole Plòtz con me aveva chiuso.

Non potevo tuttavia permettermi di andarmene senza dire una parola, in piena ostilità; meglio cedere. Non si è mai sicuri: chi parte può sempre tornare. Così dissi: Avete già un piano per quando sarete di là? Si inumidì le labbra carnose, ribaltò nuovamente il piano di legno e aprì la parte inferiore della porta. Mia sorella, disse, ci eclisseremo tutti in casa di mia sorella. Suo marito è in mare. Potreste aspettare le prime tempeste, dissi, e lui, attento: Allora verrai anche tu? Non si piantano in asso gli amici. Spiò in direzione del corridoio. Alle undici? chiese. Non hai nemmeno da aprire la porta: veniamo a prenderti noi.

Chi sa che impressione devo avergli fatto, lì in piedi, nella mia tormentosa indecisione! Una parte di me voleva andar via, un'altra doveva restare, ero impegnato a rimanere, e tuttavia obbligato a fuggire. Immaginai la nostra evasione: Joswig immobilizzato, la corsa giù per i corridoi, l'ansia all'ombra delle officine, i salti brevi fino ai vinchi della spiaggia, forse lo stesso latrato di cane che Philipp Neff aveva udito e soffocato in una strozza mortale, i movimenti circospetti, faticosi, infine l'arrivo al canale di scolo, la silenziosa immersione, la luce lunare che splende sui sei volti, sei volti contro l'argento liquefatto, sei piccoli galleggianti tondi, insoliti, che nuotano nell'Elba e si oppongono alla corrente, sfruttano abilmente la corrente lasciandosi portare in direzione di Blankenese, le punture del freddo, un grido e due braccia protese in alto, no, nessun grido, ma le luci, le luci di Blankenese vicine, benvenute, sospirate, la spiaggia fosforescente che Philipp Neff aveva visto davanti a sé ma non aveva potuto toccare, poi sei figure in fila indiana che raggiungono la riva guadando il basso fondale, sei figure che lentamente crescono in altezza, quasi avessero attraversato l'Elba camminando sul fondo.

Da un lato immaginai questa scena e intuii le allettanti prospettive che mi si offrivano. Dall'altro osservai i miei quaderni con le pagine fitte fìtte, li soppesai come li avevano soppesati gli psicologi. Sotto gli sguardi infidi di Ole pensai al tema che Korbjuhn mi aveva assegnato o meglio accollato. Mi vennero in mente le gioie che cominciavano a prendere corpo, il dovere, le notizie, le ammissioni che cominciavano a prendere forma: dovevo abbandonare tutto prima di arrivare alla fine? La guardia della stazione di polizia di Rugbùll, la stazione più a nord della Germania, il pittore, mio fratello Klaas, Asmus Asmussen, Jutta: potevo negare loro l'occasione di parlare e di difendersi? Dovevo calare il sipario e far scendere sulla mia pianura un'oscurità arbitraria? Fermarmi all'antefatto? Avevo il diritto di tirarmi indietro a mio piacere da una storia che non era affatto piacevole? Dopo aver lanciato appelli alla memoria serrandola da tanti lati, non dovevo forse attenderne gli echi? No, Ole, dissi, impossibile. No. Mi dispiace, ma non è possibile: non posso svignarmela insieme a voi. Non posso interrompere il mio lavoro così, sui due piedi.

Richiuse la parte inferiore della porta. Disse: Ti hanno proprio fregato le gioie del dovere. Per me puoi anche creparci dentro.

Devi capire, dissi. Prendi i tuoi quaderni e fila, disse. Devi capire, Ole, dissi, e lui sogghignando con aria schifata: Capire? Ma che c'è da capire quando uno, di propria spontanea volontà, affonda nella merda? Prendi i tuoi quaderni, piccolo, e fila. Se aspettate, dissi, dopo, più tardi mi piacerebbe venire con voi. E stato deciso per questa sera, disse Ole. Per me è troppo presto, dissi, e aggiunsi: State attenti a Joswig, ha fiutato qualcosa, m'è parso sospettoso. A questo ci pensiamo noi, disse, e con un'occhiata mi ordinò di tirarmi indietro per permettergli di chiudere anche la metà superiore della porta. Cambiando tono, per distrarlo, mi informai della biblioteca, ma Ole Plòtz ormai non mi ascoltava più. Chiuse la porta dall'interno, e io rivolsi le i mie ultime parole alla targa e alla scritta: distribuzione del materiale. La lotta era finita: chi aveva vinto? Buona fortuna, dissi alla targa, buona fortuna per questa sera. Tornai indietro. Dovevo tornare indietro, con i quaderni sotto il braccio e la boccetta d'inchiostro tutta impolverata ma colma, che mi garantiva la continuazione del lavoro. Nessuno sarebbe riuscito a convincermi a rinunciare. Niente, nemmeno l'invito a partecipare a un tentativo di fuga, poteva staccarmi dal lavoro. Dovevo semplicemente tornare nella mia cella. Con una spallata aprii la porta e uscii nel violento tripudio della primavera che il direttore Himpel evocava nel suo ufficio: pareva che, sospinti da forti venti, gli uccelli migratori, storni, rondini e cicogne - poche, le cicogne tornassero, liberi di svolazzare, di sbattere forsennatamente le ali nell'edifìcio della direzione. Mentre insensibilmente, inarrestabilmente, la versione himpeliana della primavera scivolava nei ritmi di un canto assai noto da noi.

Fuori, nell'aria limpida, sullo spiazzo sabbioso debolmente riscaldato dal sole, si sentiva la primavera amburghese. Tra poco, si sarebbero dovuti annaffiare i cavoli. Sui vinchi tormentati senza tregua dalla corrente non si era appollaiato nemmeno uno storno. Il cielo si velava di un azzurro acquoso. La lattuga e l'indivia promettevano bene. Alcuni psicologi sciamavano sull'isola e si erano sbottonati gli spolverini. Nelle officine con le finestre aperte, e nelle ortaglie, i miei compagni venivano costretti a scoprire i vantaggi del lavoro; non lontani, in piedi, i nostri sorveglianti fumavano, esausti per tanto guardare il lavoro altrui.

No, non era la primavera di Himpel quella che vedevo sbocciare. Mi lasciò freddo, mentre attraversavo lo spiazzo per tornare nella mia cella, direi quasi indifferente: non mi ispirò il minimo desiderio di fermarmi a osservarla nel suo insistente accanito lavoro. A un tratto mi misi a correre. Corsi con i miei quaderni sotto il braccio e la boccetta d'inchiostro stretta in mano. Naturalmente alcuni sorveglianti mi lanciarono occhiate sospettose, ma non si mossero quando videro che non prendevo la strada della spiaggia e scomparivo invece nel solido edificio dei dormitori. Se mi avessero rincorso si sarebbero pentiti di simili sforzi, dopo aver dovuto prendere atto di questa realtà: un ragazzo con la divisa di un istituto per corrigendi saliva di furia la scala di pietra, si fermava disorientato davanti alla guardiola del portinaio, tendeva l'orecchio all'imboccatura di ogni corridoio, chiamava impaziente, chiamava un sorvegliante che lo rinchiudesse nella sua cella. E poi lo stesso ragazzo - un ragazzo che a tutti i costi avevano deciso di rieducare - entrava nella guardiola disadorna della portineria, cercava con innocenza una chiave e, non trovandola, sedeva sulla sudicia seggiola girevole ad aspettare.

Aspettai Karl Joswig. Passai il tempo a ispezionare la scrivania. Ovviamente trovai solo cinquanta bilioni in vecchio denaro d'inflazione che il nostro amato sorvegliante collezionava come qualsiasi altra moneta fuori corso. Trovai anche un panino al formaggio rattrappito, impietrito in anni di dimenticanza. Per distrarmi studiai l'elenco con i più importanti numeri interni: ala ovest, ala est, Dir. Himpel, stanzino, sala di lettura, allarme. Sarebbe suonata quella notte la campana dell'allarme? Lessi anche: officine I–IV, serra, amministrazione, infermeria e cucina.

Karl Joswig non arrivava. Riappesi l'elenco al suo posto e staccai il calendario: volevo far passare il tempo leggendolo ne le massime. Lo sfogliai dal fondo, partendo dall'autunno e dall'estate per riavvicinarmi a ritroso alla primavera. Ero già abbastanza annoiato, quando notai il primo disegno: un uomo gigantesco affondava nell'acqua fino al malleolo e innaffiava l'isola con il suo coso esageratamente sviluppato. Girai pagina: anche il giorno seguente era destinato a un disegno brutale che offendeva addirittura il senso del bello: da un deretano vigorosamente sporgente uscivano note malaticce, diciamo pure rachitiche, e sotto si leggeva la didascalia scritta in stampatello: Himpel, Concerto speciale numero 1. Esterrefatto passai al giorno successivo, un sabato: ridacchiando beato, un comignolo si inchinava alla porta ricoperta di muschio di un granaio. Continuai a sfogliare, giorno dopo giorno: ogni giorno aveva un suo disegno, ogni giorno aveva ricevuto un amaro incasso, un cattivo saluto. Tutto il mese era così deturpato, imbrattato graficamente, zeppo di oscenità fino a offendere la morale o giù di lì. Il tratto denunciava la mano di Ole Plòtz: non c'era bisogno di sforzarsi per riconoscerlo, e immaginai che avesse desiderato lasciare in ricordo ai sorveglianti quei suoi capolavori. Anche Karl Joswig aveva avuto la sua parte.

Devo ammettere che allibii sfogliando il calendario così imbrattato, sia pure con un certo talento. Assicurandomi che nessuno mi avesse visto, lo riappesi al muro così come era. Ole ce la farà? E gli altri ce la faranno ad avere la meglio sull'Elba? In tutte le storie che ricordo, se le cose cominciano male finiscono male, in tutte.

Karl Joswig non veniva ancora. Tirai fuori le sigarette, ma subito le nascosi perché nella guardiola di vetro non c'era sfiatatoio. Pescai allora nell'altra calza i fogli di Mackenroth, li appiattii con la mano e cercai una comunicazione che mi riguardasse direttamente. Ero curioso di vedere con quale formula mi si rivolgesse: "Pregiatissimo signor Jepsen", "Caro Siggi", oppure, simulando intimità ma non escludendo una certa distanza, "Caro Siggi Jepsen". Nessun messaggio personale. I fogli che mi aveva ficcato in tasca erano semplicemente, come mi aveva promesso, una parte del suo lavoro, un abbozzo, come aveva annotato in margine. Il titolo pareva comunque deciso: Arte e criminalità illustrate dal caso di Siggij., ed era sottolineato. Dovevo leggere? Non dovevo? Avevo la sensazione di essere stato immobilizzato, come un disegno trattato col fissativo. "A. Influenze rilevanti". "I. Il pittore Ludwig Nansen, compendio". Valeva la pena continuare a leggere? Wolfgang Mackenroth aveva scritto: Poiché l'influenza che il pittore Max Ludwig Nansen ha esercitato sul soggetto in esame supera indubbiamente, sia da un punto di vista attivo sia passivo, altri influssi, quali quello dell'ambiente scolastico e familiare, per la comprensione del rapporto ci pare indispensabile fornire innanzi tutto una scheda biografica e artistica del pittore stesso. I dati sono desunti in prevalenza dall'autobiografia L'avidità dell'occhio (Zurigo, 1952) e dal Libro degli amici (Amburgo, 1955), nonché dal volume Il linguaggio del colore di Teo Busbeck (Amburgo, 1951). Anche se in via indiretta i dati qui riportati servono alla comprensione del rapporto, trattato più avanti, tra il soggetto in esame e il pittore.

Alzai la testa e rimasi in ascolto. Lesto mi ficcai in bocca una sigaretta. Avvertii una debole eccitazione, una pressione calda alle tempie; la gamba destra si mise a dondolare. Soggetto in esame: e perché no? Lui era l'onda e io la barca? Ma Il linguaggio del colore è stato pubblicato solo nel 1952: dovrebbe saperlo.

Wolfgang Mackenroth scriveva: Max Ludwig Nansen, figlio di un contadino frisone, nacque a Gliiserup, in quel paesaggio che più tardi ha evocato ed espresso nella sua opera. Fin da scolaro, nella scuola del villaggio, cominciò a disegnare, dipingere e modellare la creta. Compì il tirocinio artigianale in una fabbrica di mobili a Itzehoe specializzandosi nell'incisione su legno; nella stessa località frequentò un corso di disegno in una scuola d'avviamento professionale. Concluso il periodo di apprendistato, lavorò in diverse fabbriche di mobili nella Germania meridionale e occidentale, ma continuò sempre a seguire corsi serali e perfezionò la sua formazione artistica frequentando i musei. Durante solitarie escursioni in montagna disegnava paesaggi o li dipingeva all'acquarello, mentre d'inverno eseguiva studi di nudi e teste. Imperioso e cosciente del proprio valore, sopportò sprezzantemente che i primi suoi quadri venissero rifiutati dai direttori delle gallerie e che un'accademia non accettasse la sua domanda di frequenza a un corso. Secondo la testimonianza di Busbeck, i reiterati rifiuti dei suoi quadri sono stati uno dei motivi che lo hanno indotto a rinunciare al posto di insegnante in una scuola d'arte e mestieri per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Viaggi a Firenze, Vienna, Parigi e Copenaghen si conclusero con un deluso ritorno alla fattoria paterna. Per la sua misantropia e il suo rapporto medianico con la natura si sentiva un isolato "nei gai centri dell'arte". Come confessava, aveva bisogno di legami diretti con la natura, che per lui possedeva un assoluto valore simbolico. Con amarezza, ma con un'incondizionata coscienza delle proprie capacità, sopportò i continui rifiuti delle sue opere, che Busbeck definisce "paesaggi come racconti epici" e che, fin dalle prime prove, rivelano la ricchezza di leggende e fantasie da lui avvertite nella natura. Durante una passeggiata sulle dune del Mare del Nord incontrò la cantante Ditte Gosebruch, che gli sarà compagna fedele per tutta la vita e lo aiuterà a superare gli anni dell'oscurità e dell'indigenza.

La coppia si stabilì per brevi periodi a Dresda, Berlino e Colonia; l'estrema miseria, risultato della sua coerenza e intransigenza artistica, costrinse Max Ludwig Nansen a ritornare frequentemente a Gliiserup.

Nel 1914, furono pubblicate sulla rivista Wir alcune riproduzioni delle sue xilografìe: composizioni bizzarre e motivi leggendari desunti dalla cultura della sua regione, all'estremo nord della Germania. La serie Il mio mare fu esposta alla galleria Busbeck. Allo scoppio della guerra Nansen si iscrisse nelle liste dei volontari e quando gli fu trasmessa la notizia che lo esentava dal servizio militare per motivi di salute, ne riportò una delusione così profonda, da non uscire più per un anno dal suo studio nella fattoria paterna. In questo periodo lavorò al ciclo Tommaso l'incredulo visita Husum.

Dopo la sua prima mostra collettiva a Hannover, Ludwig von der Goltz scrisse un articolo sulle incisioni di Nansen e qualche tempo dopo pubblicò un volume con le sue litografie a colori, dal titolo Incontro con la risacca. Berlino continuò a rifiutare i suoi quadri. Un gruppo di pittori jenensi, chiamato Morgen, invitò Nansen a entrare nel sodalizio. Lui dapprima accettò l'offerta, ma in seguito ritirò la propria adesione, dopo aver saputo durante un breve soggiorno a Jena che il presidente della confraternita era un accanito pacifista e seguace degli impressionisti francesi. I Raccolti nel nord furono esposti a Monaco durante la stagione invernale, mentre la serie Autunno nella maremma nordica fu accettata a Karlsruhe. Max Ludwig Nansen trascorse diverse estati da solo sulle isolette dello Schleswig-Holstein e di questi periodi data una serie di acquarelli ispirata al mondo fiabesco dei fantasmi, agli oscuri geni della natura e alle sue potenze fantastiche. Con la moglie aderì a un movimento nazionalista, ma ne uscì per protesta avendo saputo che il gruppo dirigente del movimento intratteneva rapporti omosessuali. Durante un'esposizione nel padiglione delle arti figurative di Basilea Nansen fece a pezzi il suo quadro intitolato Barconi di torba, senza riuscire a spiegare il motivo del gesto. Nel 1928 gli venne riconosciuta la laurea honoris causa dell'università di Gottinga e lo stesso anno il Museum of Modem Art di New York acquistò la tela Ribellione dei girasoli.

A Berlino Max Ludwig Nansen diventò popolarissimo — il suo nome era sulla bocca di tutti - quando apparvero sui giornali diversi annunci in cui ricercava un giovane ladro che, sorpreso in flagrante, gli aveva sferrato una coltellata nel polmone: voleva rivederlo e adottarlo. Dopo l'acquisto di Bleekenwarf i coniugi Nansen si allontanarono solo raramente dalla loro dimora di campagna, e Nansen - secondo von der Goltz - si trasformò in un nemico delle città nelle quali vedeva un cumulo "di gialla corruzione e di sterile intellettualismo". A Bleekenwarf compose il ciclo Racconti di un vecchio mulino sulla costa. Benché il commerciante di quadri Malthesius gli abbia fatto allora l'offerta più seducente che avesse mai ricevuto, Nansen non stipulò l'accordo: come Malthesius lo aveva fatto aspettare inutilmente per quattro ore quando era ancora un giovane artista sconosciuto, lo fece a sua volta attendere quattro ore senza dargli una risposta. All'inizio salutò con favore i fatti del 1933, ma l'anno seguente, quando fu chiamato a dirigere l'accademia di stato, rifiutò l'incarico con un telegramma divenuto proverbiale negli ambienti artistici. (Grato per augusta nomina stop Soffro allergia colori stop Bruno riconosciuto causa determinante stop Con rammarico devotamente Nansen pittore.) Qualche tempo dopo venne espulso dall'accademia prussiana delle belle arti e dalla camera nazionale delle arti grafiche. In seguito al sequestro di oltre ottocento suoi quadri acquistati in precedenza da musei tedeschi, Max Ludwig Nansen uscì dal partito nazionalsocialista nel quale era entrato solo due anni dopo Adolf Hitler. Con Teo Busbeck pubblicò il saggio Colore e opposizione (Zurigo, 1938). Convocato d'ufficio a Berlino, si rifiutò di raggiungere la capitale adducendo come motivo l'essere impegnato a ridipingere parte dei quadri sequestrati. La guardia della stazione di polizia di Rugbùll ricevette l'ordine di registrare tutti gli stranieri che gli facessero visita a Bleekenwarf. Secondo il giudizio di von der Goltz, negli ultimi mesi prima della guerra hanno visto la luce alcuni quadri nei quali "il pittore dimostra lapidariamente come la grande arte sia una vendetta contro il mondo perché costringe all'immortalità ciò che le pare spregevole".

Ero arrivato a questo punto del compendio di Wolfgang Mackenroth - e non avevo grosse obiezioni, voglio sottolinearlo sia pure frettolosamente - quando mi sono accorto di uno sguardo che mi colpiva o meglio mi trafiggeva, uno sguardo proveniente dal corridoio. Non ho alzato subito la testa: prima ho ripiegato i fogli di Mackenroth e li ho infilati in un quaderno; quindi ne ho preso un altro e l'ho aperto a caso fìngendo di continuare a leggere. Allora soltanto ho sollevato il capo e ho visto Joswig. Gli ho sorriso. Ma lui non entrava. Con le spalle curve e le braccia ciondolanti, pareva un triste scimpanzè in divisa che esprime le sue lagnanze con lo sguardo e l'atteggiamento del capo. Ho raccolto i miei quaderni, l'ho raggiunto nel corridoio e prima che lui parlasse, ho detto: Concesso! Mi hanno dato ragione: posso continuare il mio lavoro! Purtroppo non ho potuto rinchiudermi da solo nella cella.

Iscariota, disse piano, piccolo Iscariota. Gli ho presentato i quaderni nuovi e l'inchiostro, e ho aggiunto: Le prossime settimane sono assicurate. Joswig tacque fissandomi. A un tratto additò i miei calzoni e ordinò: Le sigarette… dammele. E dopo averle prese: Avanti! Nessuno ti disturberà più.