Paura
Da una parte il ginnasio Theodor Storm di Gluserup era una scuola il cui nome incuteva rispetto, dall'altra per raggiungere la scuola avevo il triplo di strada da fare. Da una parte non dovevo più sfuggire ai vari Jobst e Heini Bunje, dall'altra gli interminabili compiti mi mandavano alla malora interi pomeriggi. Da una parte gli insegnanti non potevano più batterci, dall'altra rimpiangevo il maestro Plònnies anche se distribuiva con tanta generosità i suoi cosiddetti sganassoni che facevano così male. Da una parte davo ragione a mia madre che non la smetteva di sentenziare: sapere è potere, la scuola superiore garantisce il "balzo nella vita"; dall'altra mi domandavo per quali ragioni dovessi studiare i vocaboli greci se non avevo la minima intenzione di andare in Grecia. Da una parte capivo che non potevano ammettere tutti alla scuola superiore, dall'altra non riuscivo a comprendere perché mio padre si premurasse tanto di raccontare a chiunque che frequentavo il ginnasio.
Il fatto che i miei rapporti con il ginnasio Storm fossero dunque ambigui e tali rimanessero per tutto il tempo, non servì a gran che: mi costrinsero ad accettare la borsa di studio, mi regalarono una cartella nuova, mi procurarono una bicicletta di seconda mano ma in ottimo stato, cercarono di risvegliare in me tutto lo zelo possibile, anche quello rimasto eventualmente nascosto; ogni mattina poi mi davano due fette di pane in più, prima che uscissi di casa si interessavano alla mia camicia, alle calze, alle unghie e quando, chino sul manubrio, mi mettevo in movimento, tutti, persino mia madre, uscivano a salutarmi e mi seguivano per un lungo tratto agitando le mani. Su per la diga: a sinistra il Mare del Nord, a destra la pianura; giù dalla diga: il Mare del Nord a destra, la pianura a sinistra; poi la solita rotta che la guardia della stazione di polizia di Rugbiill aveva tante volte battuto e che adesso percorrevamo talvolta insieme: Vieni, ti tiro io, seguimi. Dicevo sì e amen a tutto ciò che inventavano per me e mi facevo pagare con: dolciumi, panini imbottiti, una mancia più cospicua e - cosa alla quale tenevo moltissimo - ore di pace in camera mia. Non è da escludere che mio padre mi sovvenzionasse all'improvviso con tanta generosità perché aveva letto nel suo manuale di polizia che chi possiede una cultura scolastica superiore può anche fare una stupenda carriera nei ruoli di pubblica sicurezza. E affinché io mi preparassi a diventare capo della polizia, o almeno vicecapo, a Hilke fu proibito di cantare e di sentire la radio durante il pomeriggio. Hilke se l'ebbe a male. Si sa come vanno queste cose.
Benché il percorso fosse sempre identico e io trovassi strade e deviazioni a occhi chiusi, l'andata e il ritorno da Gluserup non mi annoiavano mai, nemmeno quando pedalare con il vento contrario era davvero una pena e una gran fatica. Ogni cosa al proprio posto e tuttavia ogni giorno nuova, sotto una luce diversa, sotto un cielo diverso. Solo il Mare del Nord può riservare tante sorprese: alla mattina ancora ampio, quasi addormentato, lambiva la spiaggia, al ritorno scaraventava contro il frangiflutti le onde vertiginose che parevano d'inchiostro verde blu. Oppure le fattorie: ora umili, come abbandonate dietro lunghe strisce di pioggia, perdute sotto il grigio; poi, quando il bianco lattiginoso le investiva o i prati tutt'intorno cominciavano a luccicare, maestose e presuntuose con il fumo meridiano dei loro comignoli. O il vento: prima fischiava tra i granai, si divertiva, moriva dal ridere se qualcuno slittava, e subito dopo ti buttava in faccia con rabbia la mantella impermeabile, te la faceva svolazzare e sbattere oppure cercava di spingerti giù dalla diga. Come tutto qui cambia rapidamente, di giorno in giorno, di ora in ora. E per quanto muti con la stessa velocità anche il nostro punto di vista su quelle differenze, pure sono proprio queste a poter essere eccitanti.
Adesso mi ritrovo nuovamente per strada. Sto tornando a casa. Autunno. Pomeriggio, quasi le due: uccelli marini, la spiaggia deserta.
Il vento soffiava da nord–ovest, investiva di dietro e di fianco, gonfiava il mio cappotto che sbatteva come una vela bagnata. Una fila di orme attraversava la spiaggia: chi era passato? Il vento era umido. Sale. Iodio. La mia cartella, costretta nel portapacchi, era cosparsa di spruzzi e luccicava. All'orizzonte un pennacchio di fumo, ma nessuna nave. I gambecchi e le loro strida: Witt–Witt. Le mucche coperte con la tela incatramata contro il freddo della notte e la pioggia gelida. Un uomo lavorava al drenaggio. Davanti, la sagoma del Wattblick dove l'intonaco si scrostava dai muri. Hinnerk Timmsen - elettrizzato dalle prospettive di un nuovo mestiere: commercio all'ingrosso di combustibili, mestiere che aveva scelto per aver letto che gli inverni sarebbero diventati sempre più freddi - aveva infatti venduto la locanda al governo, che con una spesa modesta l'aveva trasformata in una casa per bambini subnormali. L'asta della bandiera si era piegata e nessuno aveva provveduto a sostituirla. Dov'era finita la bandierina con le chiavi incrociate? Quattro, no cinque suore erano ferme sulla terrazza ventosa e parlavano, cercavano di convincere mio padre. Mio padre se ne stava in mezzo a loro con il viso chino e a modo suo prendeva nota di non so che cosa. L'uccellatore Kohlschmidt. Il sovrintendente alla diga Bultjohann: adesso sul bavero del cappotto e sulla giacca portava una piccola miniatura in bronzo del distintivo dello sport tedesco. Mi sollevai sulla sella, pedalai con più vigore ma non arrivai in tempo: prima che raggiungessi la terrazza le suore e gli uomini erano scesi sulla riva dalla scala stretta, si erano distanziati formando una catena, e ora avanzavano verso la penisola e si scambiavano gesti d'intesa. Una rete a maglie grosse: la catena avanzava obliquamente verso la penisola, un'ala disegnò una curva e formò la retroguardia; a regolare distanza l'uno dall'altro gli anelli ondeggiarono tra le buche, oltre le collinette, sulla spiaggia e oltre le dune, verso la punta della penisola dove le due correnti opposte si mescolavano e l'acqua pareva ballasse insieme agli oggetti leggeri che galleggiavano in superficie.
Cercavano qualcosa. Stavano per catturare qualcosa, e chi non si sarebbe unito a loro? Dunque, dietro! Spinsi la bicicletta sulla terrazza e li rincorsi. Prima inseguii la catena oscillante poi solo le orme dell'uccellatore Kohlschmidt che raggiunsi sulle dune, dove il vento scarmigliava le nuove avene marine. Gli sorrisi per salutarlo e cercai di tenergli dietro. Non volevo domandare che cosa stessero cercando e del resto non ne ebbi bisogno perché dopo qualche istante non si trattenne più e diede sfogo ai suoi timori.
Due bambini erano scomparsi, probabilmente all'alba, prima della colazione: un bambino e una bambina. Le suore li avevano cercati solo dentro la casa, per troppo tempo a giudizio di Kohlschmidt. Quando erano scomparsi c'era ancora bassa marea: occorreva cercare anche sul litorale dal quale il mare si era ritirato. Temeva che fossero corsi tra le dune e lui, l'uccellatore, prevedeva il peggio. Si fermava di continuo e dall'alto delle collinette di sabbia guardava la spiaggia, guardava la battigia e il mare e pareva immaginarli là più che sulla penisola. Ci si parò dinanzi un magro cespuglio di giunchi; rovistammo tra i rami: nemmeno una traccia, nemmeno un segno. Una delle suore, una donna alta, ossuta, in cappotto di loden, chiamò mio padre e gli mostrò qualcosa nella sabbia; mio padre scavò con il piede: non potevano dunque essere orme. Si separarono nuovamente e proseguirono. Salimmo sulle dune e anche qui non trovammo alcuna traccia. Niente neppure vicino al capanno del pittore che aggirammo senza entrarvi; io raccolsi un pezzo di carta bruciacchiato: sporgeva ancora dalla sabbia. La nostra catena semovente: solo all'inizio tutti gli anelli potevano vedersi tra loro; poi, man mano che cercavamo e ci addentravamo tra le dune riemergendo dagli avvallamenti, vedersi era sempre più improbabile: ora mancava l'ala sinistra, ora la destra, ora gli elementi al centro della catena si erano inabissati, ora mancavano addirittura alcuni anelli; spesso mi capitava di vedere solo i due battistrada, il sovrintendente alla diga Bultjohann e la superiora.
Perché a un certo momento la guardia della stazione di polizia di Rugbùll uscì dalla fila? Perché si lasciò distanziare? Kohlschmidt seguì la scena e mi spedì a colmare la breccia. Cercai le orme di mio padre, le seguii e richiusi la catena semovente, ma non per molto. All'improvviso la superiora si fermò, segni, grida, altri segni; gesticolava a tutti e tutti si spostarono di novanta gradi e si diressero verso di lei. Con il braccio allungato in avanti la suora indicava la doppia fila di orme che uscivano dal Mare del Nord e proseguivano verso l'estremità della penisola. Ci ammassammo intorno alla donna e tutti finimmo per convincerci che le impronte sulla sabbia erano orme di piedi infantili, impronte leggere, vicine: forse si erano tenuti per mano mentre avevano attraversato le dune e percorso l'ultimo tratto.
Sono loro, decise la superiora, e senza alcun indugio si mise a rincorrere le orme. Noi la seguimmo. Attorno a un piccolo relitto semiaffondato il Mare del Nord sollevava sventagliate d'acqua, così forti e alte che ciascuno di noi ebbe la sua dose di spruzzi. Sulla sabbia erano disegnati nitidi profili di onde che parevano continuare il moto ondoso del mare; correvano obliquamente sull'estremo lembo della penisola e proseguivano fino al capanno dell'uccellatore, fino alle gretole e alle reti. Più alla svelta. Tutti affrettarono il passo. Nessuna traccia nel capanno, niente sotto la panca e il tavolo, niente sulla spiaggia benché le impronte passassero di lì. Allora tra le reti.
Nel lungo tramaglio che finiva in una nassa - la nassa non era molto tesa e le corde erano fissate a cavicchi - accoccolati a terra tra il cinguettio degli uccelli, catturati dall'esatto disegno della rete: lì trovammo i due bambini. Vedendoci, non ci guardarono né intimoriti né allegri ma ci lanciarono solo una breve occhiata indifferente. Erano accovacciati nella nassa, schiena contro schiena. Sulla sabbia. La piccola strozzava una sudicia bambola di pezza mentre il piccolo alitava su un uccellino morto. La bambina aveva una faccia vecchia, ottusa, e delle treccine in fuori che sembravano due code di topo. Indossava un abitino a quadretti. Il piccino era scalzo e aveva la testa pesante che pareva sbilanciarlo, il collo curvo. Alitava sull'uccellino e premeva le grosse labbra sulla bestiola, dondolando la testa. Emetteva dei grugniti, suoni forse di impazienza o di contentezza. La piccola schiacciava sulla sabbia la faccia della bambola di pezza e pareva volesse soffocarla tra le gambe scure, divaricate.
Gli uccelli frullavano, le sfrecciavano sopra la testa, ma la piccina non se ne curava, non cercava di acchiapparli. Il piccolo si infilò l'uccellino morto nello scollo della blusa di tela. Rise, fece oscillare il busto; la saliva gli sgocciolava dalle labbra. Poi conficcò le dita nella rete, fece per alzarsi ma non riuscì. La bambina si mise a cantare con una voce dura, acuta, e girò la faccia verso di noi. La superiora aveva trovato l'imboccatura della rete orientata verso il mare. Seguì tastando le diverse sezioni, si infilò nella nassa, agguantò la piccina e la tirò fuori. E quella donna ossuta con gli occhi scostanti si prese in braccio la piccola, la strinse a sé, ma la bambina si mise a picchiarle sulla testa la bambola di pezza fino a farle cadere la cuffia bianca inamidata, fino a sfilarle le mollette dai capelli. Continuò a picchiare anche quando la suora la baciò: senza mutare espressione continuò a colpirla con la sua bambola.
E il bambino? Lo tirarono fuori dalla nassa due suore aiutate da Kohlschmidt. Il piccino non difese il suo posto ma non capì nemmeno che cosa si aspettassero da lui: la testa china che pareva pronta per sferrare una cornata, indolente, abulico, imperturbabile nella sua ottusità, si lasciò rimorchiare fuori dalla nassa e respirando affannosamente si trovò in mezzo a noi. È tutto a posto, Jochen, disse una delle suore. Adesso si va a casa, e se mi dai l'uccellino potrai bere la tua cioccolata calda. Il piccolo si pulì le mani sui calzoni con un gesto meccanico. Dammi l'uccellino, disse la suora con dolcezza, infilando la mano nello scollo della blusa e pescando in profondità. Il bambino grugnì, e la mano della suora si mosse sulla pancia del piccolo, si fermò ed estrasse l'uccellino morto per le penne della coda. Il piccolo fece per riprendersi la bestiola ma il suo movimento fu troppo impreciso e mancò la presa. Adesso ce ne andiamo tutti a casa, prima beviamo qualcosa di caldo e poi andiamo a dormire. Il bambino chiuse leggermente la mano e se la portò a mo' di conchiglia contro l'orecchio: udiva quello che solo lui poteva udire. Non oppose resistenza e si incamminò buono buono. Ma di tanto in tanto si doveva fermare per concentrarsi nell'ascolto.
Dunque al Wattblick. Suore, bambini, l'economa e persino le due cuoche erano sulla terrazza ad aspettarci: grida, abbracci, rapide carezze di sollievo. Eccovi qui. Eccoli. Guardai attraverso la porta aperta. Di mio padre nessuna traccia. Inaspettatamente notai la ragazzina che ogni mattina, quando passavo, mi salutava in modo goffo e che talvolta di pomeriggio sedeva sul davanzale col suo grembiule azzurro e mi salutava. Avevo pensato di darle un nome: la chiamavo Nina. Uscì dalla porta aperta e venne sulla terrazza con movimenti incerti.
Le feci cenno, ma lei non capì. La salutai, notò il mio saluto, ma non rispose. Senza darlo a vedere per quanto mi era possibile, cercai di avvicinarmi, le sorrisi, annuii, mi feci riconoscere imitando il suo saluto goffo, ma lei non se ne accorse o, se mi notò, non ricordava. Quando riuscii ad andarle ancor più vicino tanto che avrei potuto toccarla, lanciò un grido di spavento, abbracciò una suora come se cercasse protezione. Allora non potei far altro che eclissarmi. Mi aprii un varco in mezzo al movimentato grappolo di bambini e adulti e me ne andai seguito dagli sguardi della suora, che con una faccia meravigliata accarezzava distrattamente la ragazzina e a suo modo la consolava. Li c'era la mia bicicletta. La spinsi sulla diga, presi la rincorsa come mio padre prendeva la rincorsa, montai in sella e pedalando energicamente partii in direzione di Rugbiill. Allora, arrivi o no? gridò Hilke dall'alto della scala. Non posso tenerti caldo il riso per altro tempo. Dunque, riso con zucchero e cannella e, forse, con prugne cotte. Dissi: Non agitarti per niente, e lei, abbassando la voce, in tono conciliante: L'ho già scaldato due volte, Siggi. Dove ti eri ficcato? L'ordine di trattarmi, se non con rispetto, almeno con riguardo, la indusse a togliermi di mano la cartella, a strizzarmi l'occhio e a passarmi una mano sulla nuca con un gesto sfuggente. Stava per prendermi per mano ma io considerai la cosa inopportuna e la seguii in cucina.
Il papà c'è? No, non è ancora tornato. E stato chiamato al Wattblick. E successo di nuovo qualcosa: due devono essere scappati e forse annegati. Dammi qualcosa da mangiare. Non parlare di cose che non sai. C'era veramente riso con prugne cotte. Il piatto mi arrivò davanti, appoggiato sul tavolo con un movimento sgarbato: era offesa. Quei due si erano semplicemente persi. Sono stato là e ho aiutato a cercarli. Immaginati: si erano nascosti nella rete dell'uccellatore. E per questo allora, e noi pensavamo già che ti fosse successo qualcosa! Com'è andata a scuola oggi? Ah, così così. Non era stata Hilke a chiedermelo. L'ultima domanda giungeva da mia madre che era entrata senza che ce ne accorgessimo. Aveva i capelli sciolti e un asciugamano appoggiato sulle spalle: era pronta per farsi uno shampoo. Non ebbi bisogno di voltarmi per sapere che aspetto avesse e che cosa facesse. Sapevo che indossava la gonna verde chiaro e che ai piedi aveva le pantofole sfondate cosparse di schizzi di schiuma ormai secchi. Adesso prendeva lo shampoo nell'armadio, puliva la vaschetta e si abbassava le sottili spalline della sottoveste sulle braccia grosse, coperte di efelidi e voglie. Acqua calda nel catino.
Non mi piace, Siggi, che tu vada in quel Wattblick, mi hai capito? Ma non ci son> nemmeno entrato. L'acqua sembrava troppo calda e mia madre la raffreddò immergendo le mani e producendo delle onde. È già abbastanza che abbiano mandato qui quei bambini. Almeno tu non andarci. Due si erano smarriti, dissi, e io ho solo aiutato a cercarli. Divaricò le gambe, piegò la schiena, rovesciò i capelli in avanti sulla vaschetta e con voce soffocata disse: Adesso ne capiteranno sempre delle nuove, nessuno potrà starsene in pace. Quegli esseri spregevoli: ansie, solo ansie ci daranno. Fossero almeno rimasti dov'erano. Ma dove dovevano andare? Nessuna risposta. Fece scorrere l'acqua, inumidì i capelli, e poi li immerse completamente nella bacinella gemendo per lo sforzo. Se fossero malati, niente da dire. Ma sono soltanto dei miserabili, un tormento per tutti. Non gli si può in ogni caso dir nulla, perché sono insensibili. Mi capisci, Siggi? Non mi piace che tu vada là, che li guardi e che magari giochi con loro.
L'acqua scorreva e sgocciolava dai suoi capelli. Si schizzò sulla nuca dello shampoo vischioso, color miele, e cominciò a sfregare e a massaggiare. All'inizio lavorò una schiuma ancora fluida, che progressivamente si induriva: tremolando le scendeva sul collo, le scivolava in grossi fiocchi di neve sulle orecchie, sulla faccia, negli occhi, come annunciò con un sibilo; a quel punto doveva intervenire Hilke. Può bastare vederli, Siggi, e poi ne porti le conseguenze. Non ci se ne accorge e di colpo la cosa è fatta. Le impressioni, sai, possono fissarsi e offuscarti per sempre la vista.
Ero seduto, mangiavo il mio riso e ascoltavo. Rimasi seduto in silenzio ancora per un po' mentre Hilke sciacquava i capelli biondo rossi di mia madre, li strizzava e li asciugava sommariamente con l'asciugamano. Chiesi se potevo salire a fare i compiti. Potevo. Ma pensa a quello che ti ho detto Siggi. Sì. E che cosa avete da fare oggi? Oggi? Matematica, storia, un componimento. Come si intitola? "Il mio modello". Ah, non è molto difficile. No. Sono curiosa di leggerlo. La gonna verde? chiaro costringeva il suo largo sedere. La pelle sul collo le si era arrossata. Respirava a fatica nell'asciugamano. Nella vaschetta tremolava una brodaglia scura sulla quale galleggiavano lingue di schiuma, ma la schiuma si appiattiva progressivamente, si sgonfiava, si scioglieva. Ero felice di andarmene dalla cucina, di raggiungere la mia camera, i miei compiti.
Poiché la storia mi lasciava indifferente, cominciai dal componimento e mi accadde anche quel giorno quel che mi accadeva sempre. Al primo momento il tema mi sembrò ragionevole, ricco e addirittura fatto su misura per me. Non mi sentivo affatto costretto quando ci facevano scrivere su argomenti come "La più bella esperienza delle vacanze", "Una visita al museo" o "Il mio modello". Affrontavo ogni argomento con la stessa fiducia. Ma questi temi, all'apparenza ricchi, si rivelavano immancabilmente una pretesa esagerata nell'attimo stesso in cui cominciavo a delinearne lo schema, il che era assolutamente obbligatorio. Tutti i componimenti dovevano avere uno schema. Introduzione, premessa, parte centrale, conclusione: il componimento doveva salire lungo questa scala mobile e chi non si atteneva strettamente allo schema andava fuori tema. Benché riuscissi a familiarizzare con quasi tutti gli argomenti, andavo regolarmente fuori tema perché non riuscivo a decidermi. Non riuscivo a stabilire quale fosse il problema principale e quale quello secondario, non avevo il coraggio di considerare alcune persone personaggi principali e altre personaggi secondari. Me lo impedivano la buona educazione, la compassione o la rabbia. Ma il peggio era che non riuscivo a trarre una conclusione, e proprio su questo si fissava il professor Treplin, il nostro insegnante di tedesco di Gliiserup. Voleva che ogni cosa avesse la sua conclusione: le astuzie di Ulisse, il carattere di Wallenstein, i sogni del buono a nulla e il comportamento dei cittadini durante l'incendio della città di Magdeburgo. Se mancava la conclusione il lavoro non valeva niente. Concludere! Ancora oggi se ci penso avverto la stessa oppressione, la stessa stretta alla gola.
Quella volta il tema si intitolava: "Il mio modello". Chi poteva servirmi? Mio padre, guardia della stazione di polizia di Rugbiill? Il pittore Max Ludwig Nansen? O il dottor Busbeck, il simbolo della pazienza? O mio fratello Klaas, il cui nome in casa nostra non si poteva né pensare né pronunciare? A chi volevo somigliare, chi volevo uguagliare, di chi volevo essere all'altezza? Non volevo somigliare a mio padre: ma perché? Allora al pittore: ma perché proprio a lui? Presentivo già che quel tema mi avrebbe costretto a concludere, mi avrebbe imposto una conclusione, e poiché non sono mai riuscito, né allora né adesso, a trarre conclusioni, nel senso voluto da Treplin, nei confronti delle persone che conoscevo, sentii di dover cercare il mio modello in un altro luogo, in un altro tempo. La cosa migliore, pensai, sarebbe stata ricorrere a un modello inventato, a un modello costruito, imbastito sul momento, in ogni caso mai esistito. Ma come doveva essere il mio personaggio perché desiderassi somigliargli? Ricordo esattamente: scelsi innanzi tutto un cognome, precisamente Martens, poi un nome, Heinz, decisi che questo Heinz Martens aveva un braccio solo, gli regalai una lunghissima sciarpa, un paio di stivaloni di gomma e lo trasferii sul desolato isolotto di Kaage, che non solo per motivi inspiegabili era il luogo in cui si riproducevano i germani reali ma che dalla fine della guerra era rimasto un bersaglio prediletto dai piloti meno esperti della Royal Air Force.
A Heinz Martens diedi una vanga con il manico corto per scavarsi un rifugio, lo rifornii di cibo e di un cambio di camicie, lo dotai di tabacco da masticare e di una pistola lanciarazzi per avvertire sia le anitre, sia i piloti. Sopportò tutto solo i primi bombardamenti, poi qualcuno raccontò che sull'isola di Kaage viveva un tale che se ne stava là per salvaguardare i germani reali. La notizia si sparse, la storia si diffuse ad Amburgo e a Londra soprattutto tra i membri delle associazioni per la protezione degli animali, meno tra i piloti della RAF. E pensare che proprio per loro Heinz Martens continuava a lanciare razzi luminosi rossi senza poter tuttavia impedire che alla fine di ogni attacco si ammassassero arrosti di anitra più o meno utilizzabili.
Non appena si cominciava a sentire il monotono ronzio dei motori, Martens si precipitava fuori dal suo rifugio e lanciava alcuni razzi nella boscaglia sollevando nugoli di anitre; sulle prime i germani reali erano colti dal panico, ma presto ritrovavano il naturale ordine di volo. Allora sparava in aria in direzione degli aerei che scendevano in picchiata sull'isola. E non smetteva se non quando sentiva le detonazioni delle prime bombe. Il battito, il fruscio delle ali. Il monotono rimbombo dei motori degli aerei che volavano ad alta quota. La luce tremolante dei razzi in caduta.
La luce rossastra si rifletté nei vetri della finestra, si posò sulle mie mani, sul quaderno, si diffuse guizzando sulla parete della camera. All'improvviso si sentirono grida, passi; anche in casa nostra, di sotto, si udirono rumori di passi e di porte che venivano spalancate. Era Hilke a gridare: Il fuoco, Siggi, svelto, il fuoco. Dove? Là! Vieni giù.
Il mio nascondiglio bruciava! Bruciava il mio pagliericcio. La mia mostra, la mia raccolta di chiavi e serrature bruciavano. Bruciavano le riproduzioni dei cavalieri e l'Uomo dal mantello rosso. Appoggiato sul suo zoccolo di terra, sopra lo stagno, bruciava il vecchio mulino privo di pale, il mio caro mulino. Si sentiva la sirena dei pompieri? Sentii il suono ma non li vidi, non erano nemmeno per strada. Bruciava la cupola. Le fiamme uscivano dalle aperture superiori e dalle finestre sventrate, si levavano ritte, guizzando. E sotto, nell'acqua dello stagno, l'incendio si ripeteva una seconda volta, con minor veemenza. Sopra e sotto saliva una pioggia di scintille, un fascio di razzi gialli e rossi, e l'alito stesso del fuoco li sospingeva sulla pianura verso Holmsenwarf. Bruciavano il principe Jusupov, la regina Isabella di Borbone e l'imperatore Carlo V che attraversava a cavallo il campo di battaglia di Muhlberg. Bruciavano due dei quadri invisibili e i Raccoglitori di mele di proprietà di Klaas. Le fiamme si ricongiungevano al di sopra della cupola e venivano spazzate via orizzontalmente. Un turbinio scoppiettante. Una vorticosa pioggia di ceneri contro il cielo bianco grigio. La cupola non precipitava e non crollava.
Mi misi a correre e vidi altri che correvano: venivano dalle fattorie, attraversavano i campi, passavano sotto la diga e correvano in direzione del fuoco. Volevano arrivare in tempo. E quanta pena si davano! E con che furia si infilavano tra i fili dei reticolati, saltavano i fossati, si superavano a vicenda solo per potersi assicurare un buon posto!
Scesi a salti le scale. Hilke mi richiamò. Mia madre mi richiamò. Attraversai di corsa il cortile, corsi sulla strada ammattonata, raggiunsi la chiusa. Nel fosso, che costeggiai correndo a perdifiato, si vedeva il riflesso del fuoco. Presi la scorciatoia, perforai la cintura di canne intorno allo stagno. Quando imboccai il sentiero la cupola crollò. Avvolta dalle fiamme si afflosciò all'interno della torre, si infranse sulla macina e sollevò un turbine di scintille; da quel momento il fuoco pareva uscire liberamente da un rozzo camino, alimentato dalla corrente d'aria. Mi fermai a osservare il fuoco che lavorava, le fiamme che saggiavano, si dividevano, saettavano in alto: un rumore secco di cose svolazzanti, diciamo pure di un telo steso nel vento. Un tizzone schizzò fuori dalla porta aperta e atterrò fischiando ai miei piedi nell'erba umida. Non lo calpestai. Ero investito dalla vorticosa pioggia di cenere. Guardavo il fuoco. Due uomini tentarono di sfondare la porta con una trave ma non riuscirono: sotto i colpi la porta si sollevò sui cardini e rimase incastrata di traverso. Benché non mancassero le sollecitazioni, nessuno pensò a spegnere l'incendio. E ora le fiamme uscivano dalle finestre inferiori e lambivano il muro esterno della torre.
Quando avevo visto l'ultimo incendio? Doveva essere stato all'inizio della guerra, quando presero fuoco le stalle degli Holmsen: nel cortile gli uomini si accontentavano di trattenere le vacche, che avevano appena tratte in salvo, affinché non si ributtassero nelle fiamme. Non mi resi conto che l'anello dei curiosi indietreggiava per il calore.
All'improvviso ero solo. Chiusi gli occhi e non avvertii altre sensazioni se non un dolore che pulsava a un ritmo sempre più veloce, una specie di stimolo e una sorta di battito seguito da fìtte, da vampe di calore e da brividi di freddo. La mia volontà resisteva. Mi opposi a quell'irresistibile istinto che diventava sempre più nitido. Ma poi, di colpo, tutto vacillò: il mulino in fiamme e le ombre degli spettatori. Vidi il mio nascondiglio roteare, girare su se stesso coinvolgendo il giaciglio, le cassette con le serrature, le pareti con i quadri; girò sempre più vorticosamente, e i quadri si fusero in un blocco unico, si trasformarono in un nastro. Protesi le mani e corsi fino all'ingresso, contro la parete di fiamme, contro la cortina mobile. Passai sotto la porta scardinata, salii gli enormi gradini di legno consunti dall'uso: i cassoni della farina bruciavano, bruciavano le scale a pioli e le travi squadrate con l'accetta.
Troppa luce, semplicemente troppa luce perché potessi distinguere qualcosa: fui costretto a coprirmi il viso con il braccio. Non riuscivo a respirare. Stavo pensando alla carrucola quando mi afferrarono e mi trascinarono giù dalla scala, all'aperto: due uomini, non so chi fossero. Non mi servì a nulla divincolarmi, torcermi, lasciarmi cadere: quelli non allentarono la stretta. Uno disse: Stai attento, se no ti si lancia dentro un'altra volta. Rinforzarono la morsa tanto che dovetti lasciarmi trascinare sulle punte dei piedi, con la bocca spalancata. Attraverso l'anello dei curiosi, che si aprì di malavoglia, mi trascinarono sul viottolo fino allo stagno. Lì mi lasciarono. Mi afflosciai sul terreno e a un loro ordine mi rinfrescai la faccia, il collo e le braccia con l'acqua dello stagno.
Quando alzai la faccia quelli si misero a ridere e uno disse: E bruciacchiato bene, il piccolo. Poi si voltarono e guardarono il fuoco.
Anch'io mi misi a osservare il fuoco, o meglio la sua immagine che si sfaceva nell'acqua, ma non per molto poiché qualche minuto dopo arrivarono i pompieri di Gliiserup. Quando srotolarono il tubo di gomma e trascinarono la pompa fino allo stagno, mi alzai e me ne andai senza mai voltarmi. Consegnai loro il mulino e il fuoco che il tramonto teneva lontano dalla pianura. Mentre mi allontanavo, mentre costeggiavo il fossato, attraversavo i pascoli e passavo davanti alle vacche immobili, mi resi conto che quel dolore non cessava: mi risaliva la spina dorsale, mi si conficcava nelle tempie, mi assaliva con sensazioni ora di caldo ora di freddo. A un tratto mi fermai. Era la voce di mio padre. Dunque si era presentato. Lanciò un ordine, nient'altro. I pali dei recinti, le bestie, io stesso: ogni cosa aveva la sua ombra, proiettava un'ombra guizzante. Camminavo in direzione di Bleekenwarf, con naturalezza, come se fossi atteso. Il vento aumentò. Un grido che veniva dal luogo dell'incendio. Doveva essere successo qualcosa, ma non mi voltai. Sopra di me, piatta, tenuta bassa dal vento, si muoveva una colonna di fumo che si allungava fino a impigliarsi nelle siepi di Bleekenwarf. Dovevano aver cominciato a spegnere. Il terreno si sollevò leggermente: era il ponticello di legno.
Mi fermai, ma il pittore mi aveva già riconosciuto da un pezzo. Era fermo all'estremità del ponte, la pipa spenta gli pendeva di traverso sul mento, le mani erano affondate nelle tasche del cappotto che gli sbatteva leggermente contro le gambe. Lo si sarebbe potuto prendere per una parte della siepe. Vieni pure, disse, vieni, e io lo raggiunsi. Mi posò una mano sulla spalla e insieme guardammo il mulino avvolto dalle fiamme. La torre stava oscillando? Pensai al grande amico del mulino, al vecchio con il dito marrone e rosso fuoco che si staccava dal fondo del quadro con la sua mole gigantesca: non era in un tramonto simile che il vegliardo tentava di mettere in moto il mulino avviando le pale con uno schiocco delle dita? Una parte della torre si disintegrò, cadde e cadendo fece esplodere una pioggia luminosa. A che era servita la sua gentilezza, l'umile fiducia? Stai calmo, Witt–Witt, disse il pittore. O stai male? Non mi vuoi raccontare niente? Stai calmo, ragazzo. Il pittore riusciva a rimanere immobile osservando l'incendio del mulino privo di pale: eppure anche a lui non era indifferente. Rimaneva fermo sul ponticello di legno. Forse era andato vicino all'incendio ma poi era tornato sul ponte: non lo so con certezza, ma posso immaginarlo.
Sopra le nostre teste passava la striscia di fumo, come la scia caliginosa lasciata da un battello ansante. Con le palpebre socchiuse, gli occhi fissi sulle travi, il pittore non distoglieva lo sguardo dal mulino. Tutta la torre del mulino crollò, si staccò a metà altezza, si ribaltò finendo sul viottolo e disintegrandosi al suolo; sprizzò proiettili che rotolavano su se stessi e masse infuocate che saltellavano per un largo raggio. Incandescenti pezzi di legno rotolavano giù per il pendio, alcuni finivano nello stagno e qui si spegnevano sfrigolando, altri, scontrandosi, sprigionavano una pioggia di scintille. La colonna di fumo mutò colore: si fece sulfurea; mutò anche odore: si fece pungente, soffocante. Il vento ci buttava in faccia quel fumo. Il pittore dopo qualche istante disse: Ora è tutto finito, Witt–Witt, andiamo dentro. E subito mi spinse attraverso la fenditura della siepe, quindi attraverso il giardino, fin nel suo studio.
Accese la luce, si infilò gli occhiali, mi sollevò il viso. Sei stato dentro, nel fuoco? Le sopracciglia, i capelli… è come se fossi stato dentro, se ti fossi bruciacchiato. Hai la febbre? Alzai le spalle, e il pittore sempre chino sul mio viso disse in tono preoccupato: Sdraiati, Siggi, solo per un po', io andrò a prenderti qualcosa da bere, un bicchiere di buon latte non ti può far male. E mi guidò premurosamente a uno dei cinquantacinque giacigli del suo studio che, come avevo sempre creduto, erano riservati al riposo notturno di tutti i personaggi delle sue tele: agli sloveni, agli acrobati, ai gialli profeti, ai contadini con la schiena incurvata dal vento e ai verdi mercanti astuti. Una volta il pittore con aria divertita me lo aveva confermato, che su quei letti dormiva il fosforescente popolo dei suoi quadri; si sorprendeva se qualcuno faceva una faccia incredula, voleva essere creduto.
Dunque un letto: sopra, uno stinto telo da tenda, e sotto, della paglia. Mi sedetti e con cura Max Ludwig Nansen mi appoggiò sul letto le gambe, mi coprì e mi fissò fingendo molta severità: Tu adesso te ne stai qui buono anche se non ti va. Intesi? E te ne starai fermo ad aspettare che io torni. Intesi? Non ci metto molto. Ma la luce, la luce rimane accesa? Annuì. Perché tu non scappi, lascerò accesa la luce.
Protetto dalla sua sollecitudine e dalle sue parole, mi sdraiai non appena il pittore ebbe sprimacciato il cuscino. Aveva un'aria grave uscendo, e io rimasi ad ascoltare i suoi passi che si allontanavano titubanti verso la porta. Una pungente folata di vento si infilò nella stanza e scompigliò i fogli ammonticchiati sul tavolo da lavoro: alcuni volarono sul pavimento. Non lo guardai ma ebbi la sensazione che fuori, davanti alla finestra, si fermasse e mi lanciasse un'altra occhiata prima di entrare nella casa di fronte. Dunque.
Devo concentrarmi, devo recuperare quanto accadde dopo, perché è stata la prima volta. Avevo solo intenzione di aspettare, tremavo sotto la coperta. Fino a quel momento riuscii a spiegarmi quasi ogni cosa stabilendo dei confronti. La luce era sufficiente, l'ambiente mi era noto, il tempo che avrei dovuto passare in quella stanza era limitato, per lo meno potevo prevedere quando il pittore sarebbe tornato con il bicchiere di latte. Non avevo l'impressione di trovarmi in visita. Fin lì riesco a spiegarmi tutto: anche oggi riesco a rivedermi sdraiato sul letto, nascosto sotto la coperta marrone che mi arrivava al mento, attorniato da quadri che conoscevo. Il passaggio, devo invece ritrovare il momento del passaggio: o non ci fu?
Forse cominciò così: mi resi conto di essere osservato, e non solo osservato ma riconosciuto. C'erano gli sloveni. Erano seduti a un tavolo rotondo e avevano gli occhi vitrei, soddisfatti per tanta acquavite. I mercanti si interessavano unicamente alla vecchia che passava senza badar loro, mentre i contadini dalle schiene curve erano affaccendati per via dell'imminente temporale. E gli acrobati? I profeti? Costoro proseguivano i loro monologhi.
Devono essere stati i due banchieri con le mani verde e oro e le facce simili a maschere: mi fissavano. Avevano smesso di accordarsi lanciandosi sguardi d'intesa con la coda dell'occhio sull'uomo prostrato, seduto davanti a loro: la sua disperazione non li riguardava più, il suo dolore tornava loro a proposito. Mi pareva che avessero levato lo sguardo; nei loro occhi grigi e freddi era venuta a mancare ogni traccia di superiorità. Non riuscivo a spiegarmelo, non volevo spiegarmelo: il quadro si fondeva, intorno alle tempie provavo un dolore preciso, una morsa, dall'estremo fondo si avvicinava al quadro una sorgente luminosa, oscillante, e i due banchieri davano l'impressione di trattenere il respiro. Strinsi la coperta con tutte e due le mani: perché in quel momento riconobbi una piccola fiamma che si scostava dal fondo e si avvicinava sicura, irrevocabile. Che cosa fu vinto dalla paura? Lo stupore? La debolezza? Il raccapriccio? La paura mi costrinse a restare immobile e a guardare, almeno per qualche istante. Solo questo: che il quadro era là. Che la fiammella era là. E la mia paura. Era tutto o quasi. E non pensai a niente quando infine scostai la coperta e mi alzai: era più forte di me, dovetti staccare il quadro dalla parete, dovetti capovolgerlo e togliere il cartone di supporto per levare dalla cornice i due banchieri. Dove nasconderli? Sotto il cuscino? Nell'armadio?
Sfilai la camicia dai pantaloni, feci aderire il quadro contro il corpo - come avevo fatto quella volta con il Costruttore di nubi — risistemai la camicia e mi sdraiai nuovamente sul pagliericcio. Decisi di non dir niente a nessuno, neppure al pittore. Desideravo solo mettere al sicuro il quadro, portarlo in un luogo che ancora non sapevo, semplicemente portarlo via di là dove correva il rischio di prendere fuoco da un momento all'altro. Com'era fresco contro la mia pelle! Com'era sicuro! Chiusi gli occhi per non dover guardare gli altri dipinti. Dovevo raccontarglielo? Avrebbe creduto alle mie parole? O dovevo fuggire? Non volevo tenere per sempre quel quadro - nemmeno dopo è stata mai mia intenzione appropriarmi dei quadri: li ho tenuti temporaneamente in custodia, li ho messi al sicuro sottraendoli al pericolo. Non potevo, dopo tutto, lasciare andare le cose per il loro verso e consentire che in un attimo di disattenzione prendessero fuoco. Dovevo fare qualcosa. Dovevo ascoltare la voce della mia paura. Il mio unico sbaglio era di capire troppo presto se un quadro era minacciato, di preoccuparmi troppo presto della sua sicurezza.
Non fuggii. Rimasi ad aspettare il ritorno del pittore. Chiuse la porta con una certa fatica. Sedette sul bordo del letto. Su, bevi, e io bevvi e lo fissai sollevando lo sguardo. Era mutato. Aveva fatto altre cose oltre ad andare a prendere il latte? Che faccia, Siggi, disse. Ma qui non devi aver paura. Ti senti la febbre? Riposati e poi ti porto a casa.
Tirò giù dall'alto dell'armadio una bottiglia, con i forti denti giallognoli ne tolse il tappo di sughero, si versò un bicchiere che tracannò immediatamente, se ne versò un altro, si accese la pipa. Guardò fuori dalla finestra: Non si vedono quasi più le fiamme, Witt–Witt, ce l'hanno fatta. Domani mattina ci mancherà il nostro vecchio mulino. Ci sei stato dentro spesso? Ti ho visto uscire tante volte di là. Ma perché poco fa sei scappato?
Dovevo andare al gabinetto. Mi ero irrigidito sul letto, non osavo muovermi perché avvertivo il peso del quadro. Una nuova angoscia mi paralizzava ogni movimento. Se avesse scoperto la mancanza del quadro, se me lo avesse trovato addosso, che avrebbe fatto? mi chiesi guardando la cornice vuota che avevo riappeso al suo posto. Mi avrebbe proibito per sempre di entrare nel suo studio? E così il tempo della nostra amicizia sarebbe finito, passato? La cornice era storta, l'avevo appesa con troppa fretta, e la ruvida coperta marrone mi avvolgeva, aderiva contro il mio corpo quasi volesse tradirmi. Quel caldo, quelle improvvise ondate calde che mi percorrevano il corpo: semplicemente non riuscivo a respirare con regolarità e inoltre dovevo andare in gabinetto. Due getti, disse dalla finestra, adesso spengono con due getti come se ci fosse ancora qualcosa da salvare, da proteggere. Questa notte pioverà. Possono lasciare il resto alla pioggia: che ne dici? Sì. Si scostò dalla finestra e si avvicinò come sempre a piccoli passi mentre io osservavo la coperta. Ma quale distanza doveva coprire se impiegava tanto tempo. Finalmente mi venne vicino. Appoggiò il bicchiere sul pavimento e sedette sul bordo del letto ansando leggermente. Su, di' quel che sai, pensai tra me e me, o di' quel che hai scoperto.
Estrasse di tasca un enorme fazzoletto impregnato di odore di tabacco e mi asciugò la fronte e le tempie. Calmati, Witt–Witt, disse, un giorno vedrai che quel che abbiamo fatto e raccolto non lo si può eliminare tanto alla svelta dalla faccia della terra. Le nostre impronte resteranno più di quanto noi stessi pensiamo. Nulla va perduto tanto alla svelta. Pensa: del vecchio Frederiksen che ha vissuto in questa casa io so ben poco, eppure ogni sei mesi ha misurato l'altezza di suo figlio sullo stipite della porta e con un coltello ha inciso delle tacche: per quanto poco, qualcosa rimane sempre. Mi batté sulla coscia. Perché una cosa resti, bisogna non vederla più, parecchie cose bisogna perderle per possederle senza provare ansia. Se penso. Possono essere settecento o forse ottocento quadri. Ma continueranno a essere miei anche se non li vedrò mai più. E tu? Sì, lo so, c'era un'infinità di cose. Che vuoi dire? domandai. E il pittore senza prendere la mia domanda in cattiva parte disse: Era un buon nascondiglio, avevi delle buone cose là sopra. Spesso mi sono meravigliato e spesso ne ero così contento che avrei veramente voluto darti qualcosa da aggiungere alla tua collezione. Sei stato su? Lo sapevi? Sì, lo sapevo e sono stato là sopra, e non una volta sola. L'uomo dal mantello rosso. Sì, anche l'uomo dal mantello rosso l'ho rivisto, e tutto il resto. Come hai fatto a scoprirlo? Stai tranquillo e non alzarti. Lo vedi: ti ho lasciato tutto, persino i due quadri invisibili che ti sei fregato, e un giorno o l'altro pensavo di appenderti qualcosa, di nascosto.
E stato lui, dissi, non può essere stato che lui, e continuerà a rifarlo sempre. Non pensa che a questo. Non aspetta altro. Calma, ragazzo, non sai più quel che dici. Lo ha fatto vicino al capannone e poi sulla spiaggia e adesso ricomincia: lo so che trova tutto, niente più è sicuro, non la smetterà mai. Ti troveremo un nuovo nascondiglio. Troverà anche quello, certamente. Allora cercheremo molti nascondigli e li muteremo spesso. Ma ora stai calmo e lascia il mio braccio. Devi far qualcosa, zio Nansen, sei l'unico che possa far qualcosa. In lui qualcosa non funziona oppure non ha capito. Mi viene paura quando lo vedo immobile ad ascoltare se stesso.
Conosco tuo padre da più tempo di te, disse il pittore. Non è stato sicuramente lui ad appiccare il fuoco al mulino, non puoi pensare una cosa simile. Vuoi bere ancora? E io ti dico che dobbiamo nascondere tutto altrimenti lui lo scopre.
Il pittore mi respinse sul pagliericcio e con lo sguardo ammise di sapere più di quanto io supponessi. Nella sua voce non c'era né delusione né dolore e tanto meno ribellione quando disse: Ai banchieri ci baderò io, tirali fuori. Credendo che il quadro fosse sotto il letto, si chinò leggermente. Poi mi guardò con aria preoccupata e disse: Su, da me è al sicuro. Una fiamma, dissi, una fiammella si muoveva verso il quadro. Va bene. Ben visibile, l'ho riconosciuta. Sì, ti credo, ma adesso ridammi il quadro. Afferrandola con le due mani sollevò la coperta, tastò fino a scoprire il quadro contro il mio corpo, sfilò la camicia dai pantaloni. Non voleva che lo aiutassi. Con voce tranquilla mi ordinò: Via le dita, ce la faccio da solo. Né delusione né ira, come ho detto.
I suoi polsi che sporgevano dalle maniche troppo larghe erano sorprendentemente sottili e pallidi quando staccò la cornice dal muro, inserì il quadro senza dire una parola e lo riappese al suo antico posto. Hai fame? No. Allora ti è veramente successo qualcosa, disse con un sorriso. Dopo qualche attimo aggiunse: Devi abituarti a perdere qualche cosa talvolta, Witt–Witt. Forse è meglio così. Non si può sempre stare a guardare quel che si ha. Bisogna sempre cominciare daccapo. Finché è così, possiamo aspettarci qualcosa da noi stessi. Non sono mai stato soddisfatto, Siggi, e ti do un consiglio: cerca di non essere mai soddisfatto se ti è possibile.
Si spaventò. Mi coprì: Dio mio, ma che faccia hai, ragazzo. Vieni, ti porto a casa. Voglio restare qui, dissi. Impossibile. Ma io lo voglio. Puoi restare a mangiare con noi e poi ti porto a casa.