Qualche tempo più tardi, tornando dal lavoro, trovai la casa più pulita e ordinata e profumata del solito. Il sole del tardo pomeriggio filtrava attraverso i vetri come in una casa di campagna. C’era qualcosa di insolito, tuttavia. La casa sembrava troppo ordinata. Sembrava vuota. Posai lentamente la borsa su una poltrona e sentii lo stomaco aggrovigliarsi, il cuore prendere a battere all’impazzata. Le immagini nella mia testa continuavano a correre al momento in cui ci eravamo incontrati, sul ponte, e a tutti i momenti passati insieme in quei mesi. Lo sentivo, se n’era andato. Era tornato da dove era venuto, qualunque luogo fosse. Avrebbe reso felice un’altra donna, un’altra vita. Forse era questo che faceva: vagava nel mondo prendendosi cura di donne infelici. Adesso sarei andata di là, avrei aperto l’armadio e l’avrei trovato vuoto. Un paio di camicette appese, come bandiere sbrindellate e flosce dopo una battaglia. Volevo vomitare, avevo freddo. Arrancai fino alla cucina e aprii il frigo e raccolsi la bottiglia dell’acqua e ne buttai giù di fretta qualche sorso. Sentivo un’eruzione di pianto pronta a esplodere, e mentre aprivo gli occhi e mentre mi domandavo dove lasciarla sfogare, notai sul tavolino della cucina uno stretto singolo vaso a stelo con infilata dentro una rosa. Non riuscii più a trattenermi. E mentre piangevo sentivo tremare ogni angolo del mio corpo, i miei muri interni e tutte le mie difese cedere come listelli di cristallo, accartocciarsi e ammucchiarsi gli uni sugli altri suonando come barre di uno xilofono.
Quando mi ripresi, bevvi un altro sorso d’acqua, mi asciugai alla meglio gli occhi, mi avviai verso la stanza da letto e una volta davanti all’armadio, tirato un ultimo sospiro, lo aprii. Niente. Magliette piegate e camicie appese.
Guardai sotto il letto, in tutte le altre ante dell’armadio. Mentre non riuscivo a ingoiare quel fastidioso nodo alla gola, guardai in bagno, dietro la tenda, nell’armadio dei cappotti, nell’armadietto della dispensa. Guardai nello sportello del soppalco e nell’altra stanza, sotto il letto degli ospiti e infine nello sgabuzzino delle scope. Stavo quasi per richiudere, quando udii qualcosa. Lui era lì, nascosto nell’angolo, dietro le scope e gli stracci appesi e con davanti uno scatolone piegato. Cercava di trattenere delle risate senza riuscirci. Urlai e lo tirai fuori e presi a picchiarlo e poi a ridere anche io e avevo voglia di piangere di nuovo ma continuavo a ripetermi di non farlo.
Iniziò così una nuova fase della nostra vita, quella del nascondersi. E del ritrovarsi. Era molto divertente.