Non era per niente convinta di aver fatto l’acquisto giusto. Già prima di aver finito, le pareva che quel tono di colore le ingrossasse le mani. Soffiò qualche istante sulle quattro dita già colorate della mano sinistra, le guardò un altro paio di secondi muovendo la testa da una parte all’altra, sbuffò e avvicinò il pennellino all’unghia del pollice. Ci passò sopra con grande cautela, dispiaciuta di non aver trovato il tempo di prendere uno dei suoi bastoncini di bosso e spingere in alto le cuticole. Midnight blue. Ma cosa le era venuto in mente? Cos’era quell’improvviso spirito rivoluzionario che l’aveva allontanata dai suoi beneamati colori caldi? Erano forse le prime avvisaglie dell’apparentemente lontana crisi di mezz’età e del panico da nubilato? Avvitò il pennellino alla boccetta e, appoggiati i gomiti sulla scrivania, stese le braccia davanti a sé aprendo bene le dita. Sì, le ingrossava decisamente le mani. Doveva assolutamente correre nella prima profumeria che trovava e comprare dell’acetone e togliersi quel ridicolo colore dalle unghie. Entro pranzo doveva però anche finire il pezzo sul tassista rapinato. Se si sbrigava ce la poteva fare: mezz’ora per uscire e comprare l’acetone e un’ora per il pezzo. Non sarebbe mai riuscita a comprare l’acetone e togliersi lo smalto in mezz’ora, doveva essere onesta. Tre quarti d’ora. In tre quarti d’ora era senz’altro possibile. E se ordinava un panino senza uscire avrebbe potuto far trovare il pezzo sul tavolo del direttore quando tornava dal pranzo. Stava già raccogliendo chiavi e sciarpa quando squillò il telefono. Si domandò per un attimo se fosse il caso di rispondere.

«Sì?»

«Devi andare all’aeroporto.»

«Quando?»

«Adesso.»

«Ma devo finire il pezzo sul tassista e...»

«Lascia perdere il tassista. È arrivata un’agenzia, sta succedendo qualcosa all’aeroporto. Devi andarci subito, abbiamo un aggancio con il tipo delle comunicazioni ma dice che dobbiamo correre perché ha pochissimo tempo e potrebbero decidere di chiudere tutto. Segnati questo numero.»

«Ma...»

«Nessun ma, segnati questo numero.»

Lei si lasciò ricadere sulla sedia mollando chiavi e sciarpa sulla scrivania, prese uno dei suoi post-it viola e una penna e trascrisse lentamente e malvolentieri il numero, senza riuscire a staccare gli occhi dall’orrendo colore delle sue unghie.

«Chiamalo quando sei alle partenze del terminal 1. Prendi un taxi che fai prima. E vieni subito a riferirmi appena torni: voglio il pezzo per le sette.»

E attaccò. Restò qualche istante con il palmo sulla cornetta, stese le dita, si osservò di nuovo la mano e imprecò.

A giudicare dalla grande sala d’ingresso del terminal, sembrava tutto normale. Sui monitor, a parte un paio di consueti ritardi, non c’era traccia di particolari anomalie. I check-in sembravano funzionare come sempre e in qua e in là vagavano le solite persone che si incontrano in qualunque aeroporto: le loro valigie a traino e le loro sacche e i loro carrelli e i loro sguardi persi alla ricerca della giusta direzione. Stava quasi per domandare a una delle ragazze del banco informazioni se aveva notizia di qualcosa, quando sentì fare il suo nome. In piedi alla sua destra, con un leggero sorriso a filo delle labbra, stava un uomo a occhio e croce della sua stessa età, scuro di capelli, olivastro di pelle e – non che ci volesse molto – appena più basso di lei. Si strinsero la mano e si presentarono, quindi lui la invitò a seguirlo e si diressero verso il controllo sicurezza.

«Ha fatto presto» le disse anticipandola di appena mezzo passo ed evitando con un colpo d’anca la grande valigia di una famiglia di tedeschi.

«Sì, sono corsa subito.»

«Ha fatto bene. Ero contento di darvi la precedenza, ma qui tra poco non lo so cosa succederà, potrebbe diventare un gran casino.»

Girarono intorno al serpentone della fila e andarono direttamente ai controlli.

«Siamo insieme» disse il ragazzo facendo passare anche lei.

Una volta dall’altra parte, imboccarono subito verso sinistra. Lui camminava sicuro e spedito e lei non poté fare a meno di trovare affascinante che quel suo coetaneo si muovesse con tanta confidenza in un luogo così vasto e complesso. Anche misterioso, a pensarci bene. Gli aeroporti erano luoghi dove non riusciva mai ad abbandonarla la sensazione di ammirarne e viverne solo la crosta più superficiale e meno interessante. Oltre agli aeroporti, solo la nave da crociera – dove era stata costretta da una sua amica ad andare due anni prima – le aveva dato quella stessa frustrante sensazione di marginalità e quella incontenibile vertigine di curiosità per cosa si nascondesse dietro le quinte. Sulla nave la curiosità l’aveva spinta fino a intrufolarsi due o tre volte nella zona equipaggio. Ogni volta, nell’istante stesso in cui una porta con su scritto “vietato l’ingresso ai non addetti” si chiudeva alle sue spalle, le fragranze e i luccichii e le musichette scomparivano e, per quanto si trovasse affacciata su una qualunque rampa di scale, appariva la vera essenza della nave: vibrazioni, spesse mani di vernice bianca isolante, tubi a vista, lontani rimbombi di motori e sistemi di ventilazione. Qualcuno, presto o tardi, la rimandava sempre nella zona passeggeri. Qualche ora dopo la quarta volta, fu convocata in un piccolo ufficio sul ponte 8. Un tarchiato giovinastro dall’aria viscida e i denti troppo bianchi si era presentato come il responsabile hotel, quindi anche dei passeggeri. Le aveva domandato come stesse procedendo la sua vacanza e se il servizio fosse di suo gradimento.

«Sì, direi di sì, grazie.»

«Mi fa molto piacere. E le attività la divertono?»

«Non che ne faccia molte, ma mi sembrano carine, sì.»

«Molto bene. Mi vorrebbe dunque spiegare la ragione per cui continua a intrufolarsi nelle zone vietate ai passeggeri, signorina?»

«Mi spiace, sono molto distratta.»

«Signorina, la prego di non credermi troppo ingenuo. So chi è e che lavoro fa. Non so che articolo è venuta a scrivere o cosa stia cercando, ma so che non è un articolo autorizzato dalla compagnia e che per questo lei deve attenersi alle regole della nave come ogni altro passeggero. So con assoluta certezza che è già scesa almeno tre volte nella zona equipaggio. Devo solo avvertirla che troviamo la sua presenza a bordo piuttosto scomoda e che a qualunque altra violazione del regolamento saremo molto felici di sbarcarla. Devo anche aggiungere con tutta onestà che non sono luoghi ideali questi dove viaggiare da soli, soprattutto se di sesso femminile. Le auguro dunque il miglior soggiorno possibile sulla nostra nave e confido sinceramente che ci rivedremo il giorno del rientro, per salutarci.»

Sì, anche negli aeroporti provava quella stessa vertigine e quello stesso bruciante desiderio di varcare soglie interdette, e il fatto che quel ragazzo che continuava a precederla di mezzo passo avesse appena superato con un semplice gesto la sicurezza scambiando battute con l’addetto le aveva provocato una leggera ma innegabile scossa erotica.

«La direzione della Società aeroporti sta ancora decidendo il da farsi. È una situazione molto delicata. In un primo momento la direzione ha semplicemente mandato due addetti a rimuovere l’oggetto, ma pare che la gente non li facesse nemmeno avvicinare e si stesse arrivando alle mani. Conosco bene la direttrice, è una persona molto spiccia. È andata lì con altri due addetti alla sicurezza, pronta a mettere le persone al proprio posto e pensarci lei stessa, ma quando è arrivata pare che non ci sia riuscita. Le ho chiesto perché, lei non ha saputo rispondere. “Devi andare a vedere con i tuoi occhi, non te lo posso spiegare” mi ha semplicemente detto.»

Il ragazzo girò intorno a una fila di divani e le gettò una veloce occhiata densa di sottintesi. Lei non aveva la più pallida idea di cosa lui stesse parlando, né tantomeno di cosa potessero significare i sottintesi. Si limitò ad abbozzare un sorriso.

«Capisco» disse.

«In effetti è un evento piuttosto straordinario, vedrà. All’inizio tutti lo trovano ridicolo. Ieri sera sono rimasto fermo almeno una mezz’ora a osservare le reazioni delle persone. Pian piano vengono come rapiti, e restano imbambolati a guardare. Ha qualcosa di ipnotico. Ma non solo. Ha anche qualcosa di... non so come dire... di rassicurante. Quando sei lì ti senti più al sicuro» disse il ragazzo girandosi di nuovo leggermente e facendo un piccolo salto da una parte per evitare un’anziana signora che procedeva nella loro stessa direzione, spingendo lentamente un carrellino. D’un tratto lei non poté fare a meno di notare che tutti stavano camminando nella loro stessa direzione, e che alcuni non avevano alcuna borsa e non sembravano affatto in viaggio.

«Ecco, ci siamo» sentì dire al ragazzo mentre si era distratta a osservare un’intera famiglia che camminava tenendosi per mano.

Quando tornò con lo sguardo in avanti stavano piegando a sinistra, verso gli ultimi imbarchi del terminal. Una moltitudine di persone era ammassata intorno all’angolo dell’area ristorante. Qualcuno muoveva la testa per vedere meglio, qualcuno alzava un bambino per fargli superare con lo sguardo il muro di corpi, nelle primissime file sembravano esserci anche persone in ginocchio. Nessuno però produceva il minimo rumore e regnava in tutta la sala un surreale silenzio.

«Venga» le bisbigliò il responsabile delle comunicazioni direttamente all’orecchio, stringendole appena il gomito. «Mi segua.»

Il ragazzo le lasciò il gomito e le strinse appena l’avambraccio, tirandosela dietro mentre, mostrando il tesserino dell’aeroporto, chiedeva silenziosamente permesso e si incuneava nella folla. Si infilò tra i tavoli e gli alti banchi della zona ristorante, dove c’era meno gente, fino ad arrivare più o meno in mezzo alla sala.

«Ecco» disse puntando il mento nella direzione in cui tutti guardavano e non riuscendo a trattenere un sorriso.

Lei superò la grossa testa ricciuta di un signore con la figlia in braccio e si accostò al ragazzo. Là, in mezzo a quel fitto nido di sguardi rapiti e silenziosi, c’era uno sgabello. Era in tutto e per tutto uguale agli altri sgabelli accostati agli alti banchi della zona ristorante, la stessa base in acciaio e la seduta in compensato ondulato. Questa seduta, però, girava vorticosamente, e non pareva avere alcuna intenzione di fermarsi.

«È da ieri che va avanti» disse ancora il ragazzo senza smettere di osservare lo sgabello e sorridere.

Lei pensò che aveva uno sguardo ebete e sentì molto la mancanza di quell’uomo tutto d’un pezzo che appena poco prima aveva superato con tanta familiarità il controllo sicurezza. Davvero il giornale l’aveva mandata fin lì, spezzandole la giornata, solo per vedere un maledetto sgabello? Davvero questo tipo che le stava accanto e tutte le persone lì intorno stavano osservando in religioso silenzio un ridicolo, brutto, pidocchioso sgabello la cui unica attrattiva era una seduta che girava? Ma che c’era di strano? L’uomo era andato sulla luna, aveva scoperto lo spazio-tempo e le sue curvature: che c’era di tanto incredibile in uno sgabello che girava? Era, peraltro, senza dubbio lo scherzo di qualcuno, come la vernice rossa che qualche anno prima era stata versata nella fontana di Trevi. C’era senz’altro un meccanismo, là nello sgabello, e chissà che le persone che avevano impedito di portarlo via non fossero parte dello scherzo. Come se le avesse letto nel pensiero, il responsabile delle comunicazioni le avvicinò leggermente la testa.

«È venuto anche uno degli ingegneri dell’aeroporto con due operai e altri due addetti alla sicurezza. A rischio di far partire una mezza rivolta, hanno preso lo sgabello, lo hanno girato e rigirato, hanno separato i due pezzi del piedistallo e ci hanno guardato bene dentro. Non c’è alcun meccanismo in grado di farlo girare. Ci ho preso un caffè, con l’ingegnere, un paio di ore fa. Gli ho domandato se non fosse il caso di guardare meglio, magari di smontarlo. Mi ha detto che è inutile, che faremmo un casino per niente: ha guardato e tastato bene fin sotto la seduta ed è impossibile non aver visto o sentito un qualunque meccanismo in grado di far roteare la seduta per così tanto tempo con quella costanza.»

Lei guardò per un altro istante il ragazzo e quella sua testa leggermente inclinata per parlarle più da vicino e dare meno fastidio possibile. Improvvisamente le parve meno ridicolo, e quel suo sguardo rapito forse era solo una sfumatura tenera del suo carattere. Tornò a osservare lo sgabello. Era innegabile che girasse con una certa eleganza, e che fosse in qualche modo ipnotico. Era vero: aveva qualcosa di rassicurante. Là fuori c’era il mondo, con tutti i suoi cunicoli e i suoi trabocchetti: ma lui semplicemente girava, indifferente a tutto. E se fosse stato proprio così? Se davvero si trovavano di fronte a un evento senza precedenti? D’altronde, non era nella muffa che l’uomo aveva trovato la penicillina, o in una mela qualunque la formula della gravità? Sì: più osservava quello sgabello e più le pareva che formasse intorno a sé come una bolla protettiva. E più – contro ogni sua previsione – si sentiva vicina alle persone che le stavano attorno.

«Quelli là davanti sono stati i primi a vederlo» le spiegò il responsabile delle comunicazioni.

La giornalista avvicinò la testa a quella di lui e cercò di seguire la linea del suo indice. Poco lontano dallo sgabello, seduti in terra, c’erano un ragazzo biondo con indosso una camicia azzurra e una ragazza mulatta.

«Si sono conosciuti qui e non se ne sono più andati.»

Lei continuò a fissarli. Sembravano molto tranquilli. Avrebbe voluto parlare con loro e sapere cosa li tenesse lì e cosa provavano e come mai non se ne andassero.

«Comunque mi piace molto» bisbigliò il responsabile delle comunicazioni.

«Che cosa?» bisbigliò anche lei.

«Il colore del suo smalto.»