E mi era presa voglia di uscire. Finito di mangiare, mi ero affacciata un momento alla finestra. Un refolo fresco di fine inverno mi aveva mosso una ciocca di capelli e scombinato l’ordine naturale degli eventi. Qualunque altra sera avrei richiuso la finestra, mi sarei messa in pigiama, avrei acceso la tivù e l’avrei guardata mezza stesa di fianco sul divano, fino a quando gli occhi non si fossero appesantiti. Non quella sera, però. Quella sera, insieme al refolo, parevo aver respirato una nuvola di brillantini, che adesso mi sfrigolavano dentro come bolle in una coppa di champagne.
Camminai per più di un’ora, lungo i corsi illuminati e per i vicoli del centro e attraverso il parco. Mi accorsi di tenere lo sguardo rivolto in alto, e mi sorprese. Non ero intenta a seguire una precisa linea del marciapiede, saltare gli interstizi delle pietre, occupare la mente con qualunque attività capace di distrarmi dal mondo circostante. Osservavo invece i tetti dei palazzi, i cornicioni, e improvvisamente non sembravano avvilupparmi, sembravano marciapiedi pure loro, ma al contrario, con in mezzo l’asfalto del cielo.
C’erano un sacco di persone, in giro, e non mi parvero una minaccia. Erano, anzi, tutti allegri e mi venne una gran voglia di affiancarmi a qualche gruppo e sentire cosa avevano da dirsi e fare la loro conoscenza. Sfilando accanto alle colonne, dovetti sforzarmi per non sedere vicino a un cerchio di ragazzi che non riuscivano a smettere di ridere. Pensai semplicemente di fermarmi lì accanto e sentire cosa dicevano e mettermi a ridere anche io. Senz’altro qualcuno mi avrebbe guardato perplesso, ma gli avrei detto che erano molto buffi e ci saremmo presentati e avremmo fatto conoscenza. Sembravano tutti pieni di amici. Vederli così, a gruppi, a ridere e chiacchierare, era come guardarli da molto lontano.
Forse è per questo che mi incuriosì, perché era solo. Aveva i gomiti appoggiati al bordo del ponte e guardava l’acqua scorrere. Appoggiai anche io le braccia sulla pietra. Di tanto in tanto, nell’acqua limpida, un pesce faticava controcorrente. Mi voltai e lo osservai per qualche istante. Aveva la linea del mento e del naso molto regolari, e una bella camicia azzurra. Teneva le dita delle mani incrociate. Mi avvicinai di mezzo passo domandandomi se non fosse una mossa troppo audace e mi issai sui gomiti staccando i piedi da terra, per vedere meglio sotto il ponte.
«Va molto forte» dissi dopo aver rimesso con un balzello i piedi a terra.
Lui mi fissò. Aveva gli occhi molto scuri.
«L’acqua. Pensavo che andasse più piano.»
Lui si sporse leggermente oltre il bordo, accennò un sorriso e annuì. Pensai di avvicinarmi di un altro mezzo passo e presentarmi. Lui mi strinse la mano senza dire niente. Dissi che era un uomo di poche parole e lui abbozzò una risata e annuì di nuovo e io dissi che era una cosa che mi piaceva e che ormai si parlava troppo e non si sapeva più stare zitti. Gli raccontai del perché ero uscita e di come quella sera sembrassero tutti allegri e pieni di amici. Gli domandai se lui di amici ne aveva tanti e dondolò la testa. Era alto, e sembrava molto in forma. Gli domandai se aveva voglia di bere qualcosa. Alzò le spalle sorridendo e ci avviammo giù verso l’Osteria. Decisi di prendere un cocktail alla frutta, e lui fece lo stesso. Gli parlai di quanto poco amassi il freddo e di quanto fossi felice di quel primo accenno di fine inverno. Anche di quando, da piccola, mi portavano a sciare e di quanto odiassi le calzamaglie e i piumini e gli scarponi e tutti quegli strati che mi impedivano di muovermi come volevo. Gli domandai se sciava. Mi fece segno di no, mentre con le labbra afferrava la cima della cannuccia e tirava su un sorso dal grosso bicchiere rossastro. Gli parlai di quanto amassi la frutta e del garbo che avevo nel fare le macedonie e di quell’estate in cui ero stata a cogliere mele in Canada. Lui sembrava molto interessato a ciò che dicevo e quando avevamo finito i drink e dopo esserci divertiti a succhiare tutti gli ultimi resti di frutta dal fondo del bicchiere, gli dissi che abitavo lì vicino e gli domandai se aveva voglia di salire da me.
Non fu una cosa a cui pensai molto. Rientrammo in casa e gettai le chiavi sul tavolino del soggiorno pensando di aprire una bottiglia di vino e quando mi voltai per appendere il cappotto gli sbattei contro. Avevo d’istinto tirato su le mani per ripararmi dal colpo e gli erano atterrate sul torace, il pollice nell’incavo dei pettorali. Pareva il torace tonico di uno sportivo, e ne fui rapita. Forse incuriosita è più corretto: fui rapita dalla curiosità di aprire i bottoni della sua camicia e scoprire cosa nascondevano. Li aprii uno per uno, lentamente, e sfilai infine i lembi della camicia dai pantaloni. Era asciutto, solido, i muscoli che accennavano appena a contrarsi al passaggio dei polpastrelli. Feci scorrere la mano sopra le spalle e le scoprii fino a far cadere camicia e giubbotto sul pavimento. Lo fissai e accennammo entrambi un sorriso. Percorsi con la punta delle dita la linea delle spalle e del collo e del mento, poi riscesi lungo la piega dei pettorali e sugli addominali. Mi voltai, osservai il divano, gli presi la mano e ce lo portai davanti. Finii di spogliarlo: mi accucciai in terra, gli slegai e sfilai scarpe e calzini, sganciai e aprii cintura e pantaloni, li sfilai dal basso una gamba per volta. Infine, lo invitai a sedere sul divano. Mi spogliai dunque anche io, fino a restare completamente nuda. Era questo un imbarazzo che non ero mai riuscita del tutto a superare: trovarmi completamente nuda davanti a un uomo. Eppure adesso mi pareva improvvisamente molto naturale. Posai i ginocchi sul divano e, prima di sedermi su di lui, spinsi in avanti il bacino e lo avvicinai al suo volto. Lui osservò per un attimo, piegando appena la testa da una parte all’altra, poi mi baciò e mi afferrò le natiche. Aveva molta grazia, e una lingua molto morbida. Mi abbassai infine fino a farlo scivolare dentro di me, così, stando sopra, tenendogli i capelli come la criniera di un cavallo. Era la prima volta. Marco voleva sempre farmi stare sotto, possibilmente di spalle, e poi non riusciva a controllarsi e finiva sempre troppo presto.
Quando iniziai a sentire lo scalpitio della volata finale, mi dissi che non volevo finire lì, sul divano, senza sapere poi dove sdraiarmi. Rallentai dunque dolcemente e mi staccai, gli presi nuovamente la mano e lo portai fino in camera, tirai via dal letto un paio di indumenti, sistemai due cuscini contro la spalliera e lo feci distendere e gli salii di nuovo sopra. Per la prima volta, non mi impedii di gridare. Mi lasciai cadere sul suo petto, poi sul materasso. Ci voltammo su un fianco e mi incastrai nel suo corpo.
«Puoi restare, se vuoi» dissi dopo diversi minuti, quando stavo già per addormentarmi. «Là, però.»
Lui alzò la testa dal cuscino e seguì la punta del mio indice. Restò qualche istante a fissare il fondo della stanza, quindi lentamente si alzò e andò verso il grande armadio bianco a muro. Lo indicò con aria interrogativa, io alzai appena la testa e annuii.
«Sì, lì.»
Lui aprì un’anta, guardò un attimo all’interno e ci sparì dentro.