«Mah.»
Sollevò il piattino di carta dalla superficie di vetro del banco e si voltò verso i tavoli.
Il ragazzo che era con lui, sulla trentina, con un paio di occhiali dalla spessa montatura nera, posò la borsa accanto a uno degli alti banchi di formica e scivolò a sedere.
«Non sarai mica uno di quei pacchi radical-chic che sostengono che meno buona è, meglio è» disse. Doveva avere la stessa età dell’amico, ma sembrava più giovane. I capelli biondi erano leggermente sgarrupati e una camicia azzurra gli colava fuori dai pantaloni. Si fermò mentre era già mezzo a sedere e ridiscese. «Ma da che parte ci si siede su questo coso?»
L’altro guardò in basso. La seduta dello sgabello era una semplice striscia quadrata di compensato chiaro, concava al centro e piegata in basso su due lati. Aveva lasciato i lati ricurvi sui fianchi, sfruttando la zona concava.
«Boh, io mi sono messo così.»
Il biondo ruotò la seduta avanti e indietro, poi la mise nella posizione dell’amico e ci scivolò anche lui sopra. Una volta sistemato si osservò i fianchi e scodinzolò un momento, come per capire se fosse comodo o meno.
«Boh» disse rialzando lo sguardo. «Comunque ci sarai tu radical-chic.»
«Lo sai che ho ragione» ribatté l’amico affondando la forchetta nella sua pizza. «Sarebbe come dire che la pommarola viene meglio con dei pomodori scadenti.»
«È diverso.»
«E in che modo?»
«La pommarola è pomodoro.»
«Sei ingenuo.»
Il biondo prese un morso dalla sua fetta e alzò un sopracciglio.
«Parti dell’assunto clamorosamente sbagliato che la pizza è una combinazione semplice ma delicata. Mi viene da dire che ti sfugge completamente la sua essenza fondamentale, che è proprio il contrario» disse l’amico mentre sollevava ciò che restava del suo trancio.
«E sarebbe?»
«La sua straordinaria versatilità.»
«Come?»
L’amico ingoiò il boccone.
«Ver-sa-ti-li-tà. Non è una combinazione semplice ma delicata, è una combinazione semplice e resistentissima.»
«Mah.»
«Ma come mah!? Lo stai dimostrando in questo momento.»
Il biondo guardò l’altro con aria interrogativa e si prese un sorso di coca dal bicchiere. La lontana voce femminile di un megafono annunciò un volo e invitò i passeggeri a procedere verso l’imbarco.
«Era il nostro?» domandò il biondo.
L’altro scosse la testa.
«Noi tra quanto ci imbarchiamo?»
L’amico allungò il braccio sinistro e guardò l’orologio.
«Mezz’oretta.»
Il biondo staccò un altro pezzo di pizza e se lo cacciò in bocca.
«Insomma?» biascicò.
«Insomma, il semplice fatto che tu mi parli gustandoti quella fetta di pizza dimostra la sua versatilità e resistenza.»
«Ora, gustando...»
«Vabbè, diciamo apprezzando... ti piace o no?»
«Ora, piacere...»
«Diosanto. La mangi volentieri o no?»
«Avevo molta fame.»
«Dimmi una cosa che detesti.»
«Le alici.»
«Le alici?»
«Eh.»
«Ma come fai a detestare le alici?»
«Che ne so, non mi piacciono e basta.»
«Vabbè, lo troveresti buono un piatto di alici se avessi fame?»
«Boh, dipende dalla fame.»
«Una fame come quella che avevi ora.»
«No, direi di no.»
«Vedi?»
«Vedi che?»
«Hai già risposto.»
Il biondo guardò l’amico con aria annoiata.
«Ma risposto a che?»
«Se stavi o meno mangiando volentieri questo pezzo di pizza.»
«E quindi?»
«Quindi è la dimostrazione che il grande mistero della pizza non risiede nell’ideale della ricetta perfetta su cui tutti dibattono, ma nel fatto che chiunque l’abbia inventata ha trovato una combinazione di ingredienti talmente potente da poterla miscelare in quasi ogni combinazione e cavarne sempre qualcosa di gustoso. La pizza è un’equazione stabile.»
«Resta il fatto che la mozzarella di bufala non ci va.»
«Ma come!»
«È così e basta.»
«Forse non capisci: ho appena dimostrato che gli ingredienti fondamentali della pizza possono essere mescolati in ogni maniera e il risultato è quasi sempre gradevole.»
«Vabbè. E quindi?»
«E quindi la mozzarella di bufala sulla pizza puoi più che legittimamente affermare che non piace a te, ma non hai basi per sostenere che in assoluto è un ingrediente sbagliato e che chiunque affermi il contrario è in errore.»
Il biondo si prese un istante, masticò un altro boccone di pizza e buttò giù un sorso dal suo bicchiere.
«L’acqua» disse infine.
«Come?»
«L’acqua. La mozzarella di bufala fa acqua.»
«E allora?»
«La pizza non deve essere bagnata» disse il biondo, guardando da una parte e allentando il tono di voce, come sovrappensiero. Restò imbambolato e aggrottò la fronte. «Scusa un momento. Lo vedi quello sgabello laggiù?»
L’amico si voltò indietro. In fondo, nell’angolo più esterno della zona ristorante, c’era uno sgabello come quelli su cui stavano loro, la cui seduta girava piuttosto rapidamente.
«Eh.»
«Ma quanto gira?»
L’amico lo osservò qualche secondo, poi alzò le spalle, si voltò di nuovo verso il suo piatto, raccolse il poco che rimaneva del trancio di pizza e ci affondò i denti.
«Quindi?» biascicò.
Il biondo gli diede un’occhiata e lentamente, continuando a gettare sguardi verso lo sgabello, tagliò via uno degli ultimi pezzi della sua fetta.
«Quindi che?»
«Questa storia dell’acqua.»
«Non c’è nessuna storia. L’acqua nella pizza non ci deve essere. Fine della storia. La mozzarella di bufala fa acqua.»
«E se a qualcuno l’acqua piacesse?»
«C’è anche a chi piace Gigi D’Alessio.»
«Ma cosa c’entra Gigi D’Alessio con la mozzarella di bufala? Tiri sempre fuori dei paragoni inutili.»
Il biondo piegò la testa da una parte e continuò a fissare lo sgabello.
«Non si ferma» sussurrò tra sé e sé.
L’altro si pulì lentamente la bocca e si voltò anche lui. In un primo momento volse solo la testa, quasi con stizza, innervosito dal fatto che quello stupido sgabello continuasse a interrompere la loro conversazione, poi si girò del tutto e prese a fissare con più attenzione. Doveva fare a occhio e croce sui tre o quattro giri al secondo, e in effetti, osservandolo meglio e più a lungo, non sembrava accennare alcun rallentamento.
I due restarono così, fermi, nell’attesa che lo sgabello rallentasse o si fermasse e potessero tornare ai loro discorsi e alla loro vita, ma non accadde. Dopo un paio di minuti, come riprendendosi da una brevissima ipnosi, allontanarono lo sguardo dallo sgabello e si gettarono un’occhiata. Abbassarono appena i lati della bocca senza dirsi nulla, poi il ragazzo con gli occhiali si alzò in piedi, afferrò un angolo della sua seduta in legno e gli diede un forte colpo. Il biondo appoggiò gli avambracci sul piano del banco e si sporse in avanti per vedere meglio. La seduta girava in effetti con grande facilità e per un attimo, proprio mentre prendeva più o meno la velocità dell’altro, sembrò assestarsi e potersi non fermare più.
Eppure fu solo una breve impressione, e i due amici furono subito consapevoli che la seduta si sarebbe fermata. Attesero comunque fino a quando non fu completamente immobile, quindi si gettarono un’altra occhiata e tornarono a guardare lo sgabello nell’angolo. Era sempre lì che girava, apparentemente alla stessa velocità.
Dall’altra parte, oltre il viavai di persone, su uno dei divanetti che davano le spalle agli imbarchi, era seduta una giovane ragazza mulatta, con indosso un maglione colorato e scarpe da montagna ai piedi. Aveva le cuffie negli orecchi e le braccia allargate sullo schienale del divanetto. Le cadde per caso l’occhio su due uomini in fondo alla zona ristorante, rapiti da un punto lontano verso di lei. Seguì il loro sguardo, e mentre le passava negli orecchi il riff di una canzone che aveva sempre amato molto e le veniva da tamburellare con le dita sullo schienale del divanetto, prese anche lei a fissare sovrappensiero quel punto poco distante. Dopo appena un minuto o giù di lì, all’improvviso una sinapsi ricollegò la vista al cervello e fu d’un tratto consapevole di cosa stesse osservando: la seduta in movimento di uno sgabello. Si limitò a considerare che era un movimento molto fluido, né troppo veloce né troppo lento, e che pareva sospinto da una forza sconosciuta. Se qualcuno le avesse domandato cos’era che guardava, avrebbe risposto esattamente questo: la seduta di uno sgabello che girava. Ma era come un’immagine ritagliata dal mondo circostante e completamente libera da tutti i suoi consueti riferimenti. Improvvisamente invece quei riferimenti riapparvero: riapparvero le persone, gli altoparlanti, i tavolini e i banconi e le vetrine del bar e della pizzeria, i divanetti e la gente in attesa o di fretta con le borse appese alle spalle e la consapevolezza – oltre che di trovarsi nel terminal di un aeroporto internazionale – che ciò che stava osservando rompeva ogni regola fisica di cui fosse a conoscenza.
La ragazza sentì il cuore accelerare e le venne istintivo di levare le braccia dallo schienale del divanetto, tirarsi in avanti e appoggiare i gomiti sulle ginocchia. Dopo qualche istante tolse le cuffie dagli orecchi, mentre una parte nascosta di lei sentiva il sottile ma innegabile desiderio di togliersi anche tutto il resto – abiti, bracciali, fermagli – fino a restare completamente nuda. Le stava venendo il forte dubbio che fosse solo lei a vedere quello sgabello che girava, che fosse un cortocircuito del suo cervello e che stesse infine impazzendo. Lo sapeva che prima o poi quella manciata di acidi che si era presa da giovane sarebbero tornati a bussare alla sua porta. Si guardò intorno e le cascò ancora l’occhio sui due uomini al bancone in fondo all’area ristorante, entrambi in piedi e anche loro con lo sguardo fisso sullo sgabello. Fu una vista molto rassicurante: la presenza di quei due uomini, i quali – ricordò – le avevano indirizzato lo sguardo verso lo sgabello e si erano quindi resi conto della straordinaria anomalia prima di lei, la confortava immensamente e, calmandosi, si domandò d’un tratto se non si trovasse di fronte a un evento davvero eccezionale.
Proprio in quel momento, a pochi passi da lei, un signore giapponese e sua moglie si fermarono in mezzo al passaggio tra i divanetti e la zona ristorante e presero anche loro a fissare la seduta che girava. La signora portava al collo un grande e variopinto foulard e teneva il marito a braccetto. Si portarono a una manciata di passi dallo sgabello e dopo averlo osservato per qualche secondo esclamarono qualcosa nella loro lingua e si guardarono sorridendo. La ragazza mulatta non poté fare a meno di notare che quando i loro occhi si erano di nuovo posati sulla seduta erano stati come attratti da un magnete. Anche lei, ogni volta che staccava lo sguardo dallo sgabello, doveva fare un piccolo sforzo, come se la vista volesse restarvi appiccicata. Il signore giapponese diede un’occhiata alla ragazza, sorrise e alzò le spalle, poi lasciò il braccio della moglie e si avvicinò allo sgabello. Guardò la seduta girevole per qualche secondo, provò ad avvicinarci una mano, fino a toccare uno degli angoli che giravano: la sua mano fu colpita e sbattuta via e il signore giapponese la ritirò di scatto, massaggiandola. Gli scappò da ridere e, giratosi verso la moglie, disse ancora qualcosa nella sua lingua. Si piegò dunque in avanti e guardò la seduta dal basso. Allungò la mano e afferrò il piedistallo spostandolo di qualche centimetro. Esclamò di nuovo qualcosa. La ragazza non era del tutto convinta del perché, ma, ogni volta che il signore giapponese toccava lo sgabello, lei sentiva come una leggera scossa elettrica, un flebile allarme nervoso a indicare che non era cosa da farsi.
In quel momento, mentre il signore giapponese si era accucciato in terra e continuava a osservare lo sgabello da vicino, un ragazzo alto e abbronzato con indosso un vecchio giaccone passò di lì osservando incuriosito il signore giapponese accucciato e lo sgabello. Continuò a camminare per qualche passo, fino a superare signore e sgabello ma sempre osservandoli, quindi si fermò e restò lì a guardare mezzo di spalle.
Dall’altra parte dello sgabello, direttamente dalla zona ristorante, arrivarono anche i due amici che per primi lo avevano notato. Il biondo non poté evitare di scambiare uno sguardo con la ragazza mulatta. Si sorrisero e si salutarono con un cenno della testa, come se si conoscessero. Il signore giapponese, pur restando accucciato in terra, alzò gli occhi verso i due amici e sorrise anche lui.
«No stop» disse indicando con il mento lo sgabello.
«Yes» rispose l’altro dei due amici accennando anche lui un sorriso, «no stop.»