La dottoressa Pasini non sembrava molto colpita dalla mia storia. In uno dei rarissimi momenti in cui, come un oracolo, proferiva parola, mi domandò se avevo più avuto degli accessi, e se ne avessi mai avuti con lui. Ero un po’ in imbarazzo, come se avessi fatto qualcosa che non dovevo, e le confessai che sì, mi era capitato, ma solo una volta. La dottoressa Pasini era rimasta impassibile. Le dissi che era successo una sera rientrando in casa, dopo essere stati a fare un po’ di spesa al mercato. Ripensandoci, avevo sentito una corrente acida invadermi l’umore già mentre stavamo in strada. Le persone non mi piacevano granché e stavo molto attenta a dove mettevo i piedi. Rientrati in casa, mi ero bloccata. Lui era andato ad appendere la sua giacca all’attaccapanni. Mi era sfilato alle spalle passando pericolosamente vicino all’angolo del cassettone dell’ingresso. Si era chinato verso il tavolo del soggiorno ad appoggiare due riviste: il suo piede era passato a un centimetro dalla gamba della poltrona, il suo stinco, voltandosi, aveva sfiorato l’angolo del tavolino. Era tutto talmente possibile. Noi, tutti noi, talmente esposti. Lui sarebbe andato di là con il sacchetto del mercato, si sarebbe messo a svuotarlo, avrebbe aperto porte, sfiorato ostacoli, avrebbe impugnato coltelli, lame affilate, punte acuminate. Il sangue, il dolore, tutto il dolore del mondo, tutta questa fatica solo lì per essere dissipata in un nonnulla.

Mi aveva visto. Si era voltato per andare verso la cucina, si era credo domandato perché fossi ancora ferma davanti all’ingresso e aveva capito. Mi doveva aver visto pallida e lontana. Avevo anche molta voglia di piangere. Era passato del tempo, ormai, e ogni volta che non capitava da un po’ mi veniva l’illusione che potesse non capitare più. La dottoressa diceva che era normale, eppure mentre sentivo quella marea oscura e appiccicosa salire e avvolgere tutto, quegli spigoli protrarsi come lame, non facevo altro che sentire il retro della mia testa mugolare tre sole parole: “Non di nuovo, non di nuovo, non di nuovo”. Marco non capiva: quando proprio non poteva farne a meno, mi dava una mano a prendere i tranquillanti, e scuoteva molto la testa. Lui aveva mollato subito il sacchetto sul divano, mi era venuto vicino, mi aveva abbracciato, mi aveva tenuta stretta e con molta calma mi aveva portato verso la stanza da letto. Mentre camminavamo, lentamente, gli avevo spiegato dove poteva trovare le pillole. Lui non aveva risposto, e non erano servite: mi aveva sdraiata semplicemente sul letto ed era rimasto lì con me, e tutto si era fermato. Non era passato subito, ma non aveva nemmeno preso a rotolare giù per la collina come una valanga, travolgendo tutto ciò che incontrava. Era solo stato come svegliarsi da un brutto sogno, una sgradevole sensazione che lentamente svanisce, e il cuore che riprende pian piano il suo ritmo. Per cena mi aveva preparato un bel wok di pollo e verdure. La dottoressa Pasini, per la prima volta da quando ci conoscevamo, abbassò impercettibilmente la testa, mi parve un segno di approvazione.

Andammo pure a una cena. Avevo preso a ricevere telefonate in cui mi si chiedevano notizie di questo mio nuovo misterioso fidanzato. Domandavo sempre accennando una risata cosa Marta avesse detto e mi divertivo ad ascoltare i loro vaghi “niente di che” e “solo che è un bel tipo”. Sapevo bene che mentivano e che Marta, la sera in cui lo aveva conosciuto, non sarebbe nemmeno riuscita ad arrivare alla macchina senza chiamare qualcuno e raccontare tutto e liberarsi fin da subito di quel macigno che le gravava addosso e rischiava di spezzarle le ginocchia. Sapevo, nel momento stesso in cui dicevo tutto a Marta, che questo avrebbe presto significato dover mostrare il mio uomo e avventurarci nel mondo. Sapevo anche, in qualche modo, di non avere il coraggio di farlo per conto mio, di non essere in grado di mollare l’isola felice e protetta che era la nostra storia. Era per questo che avevo inconsapevolmente scelto Marta per confessare tutto: una parte di me aveva deciso di andare avanti e l’incapacità di Marta di tenersi un cecio in bocca mi avrebbe obbligato a farlo.

Sorprendentemente, quando gli dissi che dei miei amici ci avevano invitati a cena, lui sembrò molto contento. Fu come andare a un esame. Ci avevano invitati Giorgia e Dario, insieme a Marta e un’altra coppia di loro amici. Prima di uscire, cambiai quattro volte gli abiti e cinque il colore del rossetto, per tornare alla fine al leggero pesca lucido che avevo provato per primo, ma pentendomene non appena mi scorsi nello specchietto del taxi. Feci cambiare tre volte pure lui. Gli avevo detto di vestirsi elegante, ma non troppo, e lui correttamente aveva indossato un bell’abito grigio, senza però la cravatta. Apparve nello specchio del bagno mentre mettevo il rimmel. Abbassai la mano e allontanai leggermente il volto dallo specchio e lo osservai qualche secondo. Scossi dunque la testa.

«Troppo» dissi.

Lui sparì in camera.

«Sei molto bello, però!» gridai riavvicinando il volto allo specchio e lo spazzolino del mascara alla palpebra, credendo di essere stata un po’ troppo brusca.

Riapparve nello specchio qualche minuto più tardi, mentre io valutavo il secondo rossetto. Adesso indossava un paio di jeans e una Lacoste blu con cui non lo avevo mai visto ma che in effetti gli donava molto. Lo scrutai mentre sfregavo un labbro sull’altro.

«Carino, molto carino. Troppo sportivo, però. Magari una via di mezzo.»

Lui ridacchiò e sparì di nuovo, io rilasciai le labbra e mi guardai bene nello specchio. Ero entusiasta del color vinaccia di quel rossetto, quando lo avevo comprato, e anche della sua consistenza. Fin dalla prima volta, quando la commessa di quel centro commerciale me l’aveva fatto provare, mi era parso di sentire sulle labbra la carezza di un neonato. Poi, a casa, ogni volta che lo mettevo, aveva qualcosa di presuntuoso. Pareva essere lì sulle mie labbra apposta per attrarre complimenti e finiva per mettermi a disagio. Purtroppo, le due volte che mi ero sforzata e avevo deciso di tenerlo addosso, era in effetti finita che tutti non vedevano altro che quello e si era parlato di rossetti tutta la sera, o almeno fino a quando non era sbiadito e avevo deciso di non rimetterlo.

Quando lui ricomparve nello specchio ero al quarto tentativo di colore e avevo già deciso di lavare via quell’improbabile rosso acceso e tornare alla prima scelta. Questa volta indossava la camicia bianca che aveva provato con l’abito, ma senza giacca e incalzata nei jeans di poco prima. Mi alzai sulle punte dei piedi per scorgergli le scarpe. Ne indossava un bel paio di pelle color noce, allacciate. Non sapevo dove le prendesse, ma era pieno di belle scarpe.

«Perfetto» dissi.

Sul taxi, poco dopo, ero molto agitata.

«Lo sapevo» scossi la testa quando mi vidi nello specchietto. «Non dovevo mettere questo rossetto, è orrendo.»

Lui mi guardò e abbozzò di nuovo una risata, poi mi prese la mano, me la strinse leggermente e la tenne nella sua, appoggiata al sedile del taxi. Dunque si voltò e prese a guardare in silenzio fuori dal finestrino.

Quando aprì la porta, Giorgia saltellò come una ragazzina.

«Eccoli!» gridò. «Ed ecco finalmente l’uomo del mistero. Vieni subito qui a farti dare due baci» se lo tirò contro, «e fatti guardare per bene.»

Dopo avergli mollato due baci sulle guance lo riallontanò tenendolo per le spalle e lo scrutò da capo a piedi, poi si voltò verso di me e abbassò vistosamente i lati della bocca.

«Accipicchia, tesoro, che pezzo d’uomo. Se è vero che l’hai trovato su un ponte, metti un cero alla Madonna perché questo è come un tris alle corse» rise infine, poi ci prese tutti e due sottobraccio e ci portò in salotto. «Su, signori, in piedi a salutare i nostri ospiti!»

Dario e Marta e l’altra coppia di amici che non conoscevo si alzarono tutti dai divani con un bicchiere in mano e ci vennero incontro. Marta questa volta salutò lui con due bei baci e ammiccando un silenzioso “noi già ci conosciamo”, Dario gli strinse solennemente la mano e disse che aveva sentito su di lui un sacco di belle cose.

L’altra coppia era piuttosto stravagante: erano entrambi molto coloriti, lui aveva una vistosa cravatta a pois e dei buffi pantaloni viola, lei degli accesi capelli arancioni e un lungo vestito azzurro apparentemente eccessivo ma che invece portava con gran naturalezza. Venne fuori che dopo ben vent’anni di relazione si erano da poco sposati ed erano appena tornati da un lungo viaggio di nozze in Tanzania e Madagascar. Dissero ridendo, seduti abbracciati sul divano, che era l’unico modo per convincersi a fare il viaggio che sognavano da anni senza mai riuscire a trovare la scusa e il tempo per andare. Non appena potevano, continuarono ridendo, avrebbero iniziato le pratiche per il divorzio: c’erano ancora un sacco di posti dove volevano andare e progettavano almeno tre o quattro matrimoni.

Lui fu trascinato subito da Dario verso uno dei divani, insieme alla nuova coppia, e io rimasi bloccata tra Marta e Giorgia. Mentre Giorgia mi faceva sedere vicino a lei e mi diceva che era troppo che non ci vedevamo e che le dovevo raccontare di tutto quello che mi era capitato in quei mesi, osservavo lui dall’altra parte del tavolino di vetro coperto di libri d’arte e mi dicevo che era la prima volta che lo condividevo con qualcuno. Era seduto nel posto più esterno del divano, aveva Dario da una parte, perpendicolare, su una poltrona, e l’altra coppia alla sua sinistra, seduti entrambi un po’ di sbieco per essere meglio a suo favore. Conversavano tra loro e si raccontavano cose e lui annuiva o abbassava i lati della bocca o rideva. Sembrava molto a suo agio e di tanto in tanto mi guardava e sorrideva. Ero improvvisamente molto gelosa. Visto così, da una parte all’altra di un salotto, immerso in quella marea inarrestabile che sono le chiacchiere e i tormenti della gente, pareva un’isola sconosciuta e felice dove chiunque avrebbe voluto riparare. Ma era la mia isola felice. Che ci facevano d’un tratto quelle barche all’ancora, nella baia, e quel fuoco acceso sulla spiaggia? Era estremamente fastidioso, ma per buona parte della serata riuscii a tollerarlo. Dopo cena, però, mentre gli altri uomini erano in terrazza a fumarsi una sigaretta e lui era incastrato da più di mezz’ora da Giorgia in un angolo del divano, decisi che era troppo, abbandonai Marta e la signora con il vestito azzurro e li raggiunsi. Gli sedetti accanto e gli poggiai una mano sulla gamba. Lui mi sorrise, mi circondò con un braccio, mi tirò a sé dandomi un bacio sulla fronte e tornò a seguire Giorgia, che però si era fermata e ci fissava. Ebbe come un moto di malinconia.

«Siete splendidi» disse, poi mi fissò e accennò un sorriso. «Tesoro, hai trovato un uomo davvero fantastico.»

«Lo so» dissi incastrandomi meglio in lui, come se fosse un cuscino e stessi per addormentarmi. Mi resi conto che non gli avevo mai fatto un complimento. Giorgia tutt’a un tratto si alzò, e se un attimo dopo non l’avessi vista in terrazza che si accendeva una sigaretta, avrei creduto che fosse corsa in bagno a piangere. Io alzai gli occhi e lo guardai. Pensai che avevo voglia di dirgli delle cose, ma non ne feci di niente.