La mattina mi svegliai molto riposata, come non mi accadeva da mesi. Feci una doccia lunga e gustosa, poi, ancora in accappatoio, andai a prepararmi una bella macedonia. Pensai di prepararne due e, prima di vestirmi, ne portai una al mio ospite. Era seduto con le gambe piegate sopra i cassetti della biancheria, sotto le camicie appese, nella sezione dell’armadio più vicina al muro.
«Buongiorno» salutai.
Lui sorrise e annuì.
«Ti ho preparato una macedonia» dissi.
Afferrò la coppetta piena di frutta, uscì dall’armadio e si mise a mangiare seduto sul letto. Io intanto mi finii di asciugare e mi truccai e infilai un tailleur chiaro che non indossavo da un sacco di tempo.
«Io vado al lavoro» dissi. «Tu, se vuoi, resta pure.»
Lui annuì e sorrise ancora. Era molto tenero, lì seduto nudo sul letto, e prima di uscire gli mollai un bel bacio sulla fronte, sostenendo con una mano il mento.
La sera, quando rientrai, la casa era perfettamente pulita e in ordine. Pensandoci bene, non ricordavo di averla mai vista così pulita e in ordine. Il parquet del pavimento e il tappeto del soggiorno parevano lucidati e sbattuti, i libri e i ninnoli sulle librerie spolverati, le riviste sul tavolino riordinate e stese a scaletta una sull’altra. C’era anche un delizioso odore di fresco che non credevo potesse più appartenere a quelle mura. Mi avviai come imbambolata fino in cucina. Anche lì era tutto tirato perfettamente a lucido, l’acquaio e i fornelli scintillanti come nelle pubblicità, il piano bianco perfettamente candido perfino negli angoli, dove aveva leggermente ceduto e si era aperta una minuscola fessura e dovevi togliere le briciole con la punta di un coltello affilato. L’ultima volta che lo avevo fatto ero in preda a un accesso ed era stato l’unico modo per permettere ai tranquillanti di fare effetto. Anche il tostapane luccicava, e ne erano state tolte le briciole all’interno. Al centro del tavolo della cucina era posato un cestino colmo di frutta: mele, pere, banane, kiwi e pure un bel mango arrivato da chissà dove. Lentamente, sovrappensiero, aprii il frigorifero. Fui investita da una nuvola di odori. Non ricordavo di aver mai visto il mio frigo tanto pieno e organizzato e variopinto. C’erano cesti di insalata, peperoni, pacchetti di alluminio luccicante, bottiglie di vetro trasparenti piene di latte e succhi di frutta.
Lasciai la borsa sul tavolo, il cappotto su una sedia, e mi avviai verso la stanza da letto. Le lenzuola erano state cambiate e i miei vestiti smessi piegati ordinatamente e impilati sulla poltroncina nell’angolo. Arrivai fino alle ultime due ante dell’armadio a muro. Prima di aprirle mi fermai e sentii sopraggiungere un chiaro momento di commozione: avrei tra un istante aperto l’armadio e l’avrei trovato vuoto e tutto si sarebbe dissolto come un incantesimo. Dunque, sospirai e scostai le ante. Lui era lì, vestito, le gambe piegate e le mani sulle ginocchia, che sorrideva. Fui presa da un refolo di felicità e gli afferrai la testa e me la schiacciai contro il petto e gli mollai una serie di baci. Lo feci quindi uscire dall’armadio e lo spogliai continuando a coprirlo di baci e facemmo di nuovo l’amore. Questa volta lo lasciai anche stare sopra e lo invitai a tenermi bene le gambe in alto.
In mia assenza, lui si era divertito a preparare delle lasagne. Le scaldammo e le mangiammo direttamente dalla teglia, seduti al tavolo della cucina, sorseggiando del vino dalla bottiglia, nudi.
Iniziò così, quel fantastico periodo. Lui, di solito, dormiva nell’armadio. Io mi alzavo e gli davo un bacio e me ne andavo al lavoro. La sera, quando tornavo, la casa era sempre tirata a specchio, e lui aveva preparato qualche delizioso piatto per la cena. Era un ottimo cuoco, pieno di idee ed equilibrio. Alle macedonie continuavo a pensare io: lui aveva capito di non provarci nemmeno, e si era limitato a farmi trovare della frutta sempre fresca.
Stavamo soprattutto in casa. Se però il tempo era buono e l’aria si intiepidiva, ce ne andavamo a spasso per la città. Mi piaceva stare attaccata al suo braccio, e qualche volta mi ci appendevo tentando di farlo cadere e ridevamo. Mi piaceva farmi vedere a braccetto di quell’uomo bello e possente. Mi pareva che fossimo molto gradevoli da vedere insieme, io così minuta e lui così grande. Parlavo parecchio, lui no, ma credevo che preferisse così e non lo spingevo. Per la prima volta mi sembrò anche di capire cosa intendesse chi affermava che il vero luogo d’intesa di due persone era il silenzio. Non l’avevo mai granché capita, questa cosa, né ovviamente condivisa. A me il silenzio più che altro spaventava. Soprattutto perché, in fin dei conti, non era mai silenzio. Era semplicemente un’assenza di suoni dominanti, e tutto ciò che restava era una moltitudine di sussurri e bisbigli che facevo molta fatica a distinguere, e che assomigliavano sempre a orde di mani che mi tiravano in stanze buie. Ne avevamo parlato molto, con la dottoressa Pasini. Parlato... lei di solito stava zitta e mi guardava da dietro i suoi improbabili occhiali viola. Un giorno, dopo aver pianto, mentre finivo di soffiarmi il naso, dissi proprio così, scocciata: «Ma le pare silenzio, questo?». Le confessai che se mai avessi ritrovato il coraggio di viaggiare, la mia prima meta sarebbe stata il deserto: lì sì che avrei sentito il silenzio, e avrei capito una volta per tutte se era davvero lui a spaventarmi e non quell’esercito di spettri che lo abitavano dalle nostre parti.
Come poteva dunque, il silenzio, essere il luogo riparato di una coppia? Con Marco, avevo provato a farci attenzione: lui leggeva una rivista, o il giornale, io sedevo su una poltrona a far finta di baloccarmi con qualcosa, e lo osservavo, o più precisamente osservavo il silenzio sospeso nella stanza. Era come una spessa trapunta imbottita e polverosa che ci gravava sulle spalle. Immancabilmente, Marco alzava lo sguardo.
«Allora?» diceva infine.
«Allora che?»
«Boh, così.»
«Allora, nulla.»
Lui annuiva.
«Che facciamo?» domandava poi dopo un altro mezzo minuto, voltando distrattamente una pagina della sua rivista.
«Mah, niente. Stiamo qui.»
«A far che?»
«Boh, niente. In silenzio.»
Lui allora, dopo qualche altro secondo, chiudeva la rivista e diceva qualcosa tipo: «Tesoro, è sabato pomeriggio. Se dovevamo stare qui a non dirci niente potevo andare a giocare a pallone con i miei amici. Andiamo almeno a fare un giro».
Così ci chiudevamo in macchina e io riprovavo a osservare il silenzio e lui si innervosiva e mi innervosivo anche io e gli domandavo perché secondo lui non riuscivamo a stare in silenzio e lui mi domandava perché invece non riuscivamo a parlare come persone normali e ci mettevamo a discutere e poi a casa facevamo un po’ di sesso riparatore e di solito finivamo a vederci un film al cinema.
Con lui invece era diverso. Quando non era nell’armadio, se ne stava lì con me in soggiorno, o sul letto, per ore, senza dire nulla. Semplicemente, lo trovavo irrilevante. Il silenzio, intendo: stavamo zitti, tutto lì, immagino perché non avevamo al momento niente di importante da dirci. Che c’era di tanto speciale? Io non stavo bene in sua compagnia perché sapevamo stare in silenzio, io stavo bene con lui perché era bello e mi ascoltava e aveva un ottimo odore e aveva dei bellissimi deltoidi e una lingua molto morbida e perché il suo sesso calzava perfettamente il mio. Casomai il suo silenzio non mi infastidiva, e questo in effetti era molto rilassante.
Mi accorsi presto che le persone faticavano un po’ a comprendere questa nostra situazione. Per qualche tempo preferii non farne cenno con nessuno, poi, una sera dopo cena, sedute al tavolo di cucina a chiacchierare, ne parlai con Marta. Lei parve molto sorpresa.
«Ma perché non mi hai detto niente?»
«Non so.» Alzai le spalle. «Sembrava una cosa delicata, e avevo paura di sciuparla.»
«Ma da quant’è che va avanti?»
Era una buona domanda: mi resi conto che facevo fatica a dirlo. Era ormai primavera inoltrata, dunque dovevano essere mesi, ma non sembrava così tanto.
«Non saprei. Due o tre mesi, forse.»
«Non saprei?»
«Sì, non sono sicura. Sembra poco ma mi sa che sono già due o tre mesi.»
«Ma è bellissimo!» Marta batté le mani come una bambina e affettò una risata. «Non si ricorda nemmeno quand’è cominciato!»
Sentii una punta di imbarazzo e mi domandai se avevo fatto bene a dirglielo.
«Voglio sapere tutto» proseguì Marta eccitata. «Ti ricordi almeno dove vi siete incontrati?»
«Certo, qui sotto.»
«Qui sotto dove?»
«Sul ponte. Ero andata a fare una passeggiata e tornando l’ho visto lì che guardava la corrente e mi sono fermata anche io e ci siamo messi a parlare. Cioè, io più che altro mi sono messa a parlare.»
«E poi?»
«E poi nulla.»
«Come, nulla? Quando vi siete rivisti?»
«Non ci siamo rivisti. Siamo andati a bere una cosa all’Osteria.»
Marta sorrise e mi guardò di traverso con aria maliziosa.
«Non ci posso credere.»
«Che cosa?»
«Te lo sei portato a casa subito quella sera.»
Appallottolai un pezzetto di tovagliolo e annuii accennando un sorriso. Marta rise e batté di nuovo le mani.
«E come è stato?»
«Bello.»
«E lui com’è?»
«È una persona molto pacata.»
«Ma che me ne frega se è una persona pacata o no... è bello?»
«Molto» anuii.
«Descrivere.»
«È alto, spalle larghe, moro e con gli occhi molto scuri e una splendida linea del mento.»
«E come ce l’ha, grosso?»
Appallottolai il resto del tovagliolo e glielo tirai. Lei si scansò e rise di nuovo e batté le mani e disse che era fantastico.
«Ma che fa?» domandò poi.
«Niente di che, fa un po’ quello che fanno tutti.»
«Nella vita, intendo.»
«Ah, boh, non parliamo mai di lavoro. Non credo però granché, ha molto tempo libero.»
«E te che ne sai che ha molto tempo libero? Vi vedete anche di giorno?»
«No, ma quando torno, la sera, la casa è sempre perfetta e ha preparato la cena.»
«Ha fatto cosa?»
«Ha preparato la cena. Il pollo al curry l’ha fatto lui.»
Marta gettò un momento lo sguardo verso i piatti sporchi accanto all’acquaio, poi si soffermò sulla ciotolina vuota della macedonia che le stava sotto il mento, ne afferrò un bordo con due dita e la sollevò leggermente verso di me.
«Anche...»
«Ma sei pazza?»
«Ah, menomale.»
Lei riabbassò la ciotolina e restò qualche istante in silenzio.
«Quindi, fammi capire: gli hai già dato un mazzo di chiavi?»
«Certo, poverino, sennò se vuole uscire come fa?»
«Uscire?»
«Eh, uscire.»
«Uscire da dove, scusa?»
«Come da dove, da casa.»
«Cioè lui sta qui?»
«Sì, scusami, non te l’avevo detto.»
Marta mi fissò perplessa.
«E ora dov’è?»
«Di là.»
«Cioè è qui in casa?»
«Sì, certo. È di là.»
«E che fa di là?»
«Boh, si fa i fatti suoi, immagino.»
«Ma perché non me lo hai detto?»
«Perché era un po’ che non ci vedevamo e pensavo volessimo stare per conto nostro.»
«Ma di là dove?»
«In camera.»
«Ma se sono andata prima in bagno e non c’era nessuno.»
«Sì, è nell’armadio.»
Marta mi fissò a lungo con l’aria imbambolata e la bocca dischiusa. Infine aggrottò lievemente le sopracciglia e la fronte.
«Come hai detto?»
Cominciavo a spazientirmi. Detestavo questo vizio di Marta di richiedere continuamente cose che aveva capito benissimo.
«Ho detto che è di là, Marta, nell’armadio.»
«Ma in che senso nell’armadio, scusa?»
«Quanti sensi ci devono essere?»
«Ma tu non hai una cabina armadio.»
«E chi ha parlato di una cabina armadio? Ho solo detto che sta nell’armadio, in camera.»
«L’armadio a muro?»
«Eh, l’armadio a muro. L’unico armadio che c’è. Vai a vedere, se vuoi. Non gli dai fastidio.»
Marta mi fissò di nuovo, quindi si alzò e lentamente si avviò verso la stanza da letto. La sentii aprire un paio di ante dell’armadio, poi un momento di silenzio.
«Buonasera» le sentii dire.
Udii dunque richiudersi l’anta dell’armadio e dei passi ancora più lenti tornare verso la cucina. Marta si lasciò cadere sulla sedia e riprese a fissarmi con aria sbalordita, forse pure un po’ turbata. Io alzai le sopracciglia e accennai un sorriso.
Marta scosse la testa.
«Be’, che c’è?»
«Ma scusa, ti sembra una cosa normale?»
«Normale? Che vuol dire normale?»
«Normale vuol dire normale.»
«Ma che ne so? È normale per noi.»
«Ma mi dici che ci fa lui nell’armadio?»
«Che ne so. Nulla ci fa. Sta lì e basta.»
«Di sua volontà?»
Ci pensai un momento.
«Oddio, proprio di sua volontà non lo so. Gliel’ho chiesto e lui l’ha fatto. Tutto qui. Non si è mai lamentato. Anzi, spesso ci torna per conto suo.»
«Ferma un momento, voglio capire com’è che glielo hai chiesto.»
«Non c’è granché da capire: la sera che ci siamo incontrati, appena prima di addormentarmi, gli ho detto che se voleva poteva restare, e mentre lo dicevo mi sono immaginata di alzarmi il mattino dopo e di trovarlo nell’armadio. Così, già mezza nel dormiveglia, gli ho indicato l’armadio e gli ho detto che poteva stare lì. Lui s’è alzato e si è infilato nell’armadio. Fine.»
«E ti sembra una cosa normale.»
«Oddio, ma cos’è oggi con questa storia del normale? Che ne so se è normale? È normale allora che Stefano tutti i giovedì che Dio manda in terra debba uscire solo con i suoi amici e che se per caso becca te e le tue amiche nello stesso locale succede un finimondo? È normale che Lucrezia tutte le volte che esce a cena da sola con suo marito poi debba per forza fare del sesso, come se dovesse rendergli i soldi? È normale che lei te lo racconti ridendo e che le faccia quasi tenerezza e non si senta invece una battona? Son cose che sono così e basta. Funzionano. Che ci frega se sono normali o no? Chi l’ha detto poi cos’è normale e cosa no?»
Marta mi fissò e dopo qualche istante accennò un sorriso.
«E quindi lui sta nell’armadio.»
«Già» sorrisi anche io. «Non è fantastico?»
«Ma ci sta tanto?»
«Sempre meno, a dire il vero. È buffo: è come se sapesse quando starci e quando no. La notte, soprattutto. Ci sono notti in cui vorrei stare rannicchiata contro di lui tutta la vita, altre in cui invece non faccio altro che cercare le zone più fresche delle lenzuola. È come se lui lo capisse, e la mattina, quando mi capita di sentire il letto vuoto, ho sempre quella splendida punta di rimorso che mi fa correre all’armadio a sbaciucchiarmelo un po’.»
Marta ci pensò un attimo su.
«Quindi, ricapitolando: hai un fusto di un metro e novanta che parla poco, cucina, ti rimette a posto la casa e quando non lo vuoi tra i piedi sparisce in un armadio.»
«Sì, direi che più o meno è così.»
«Be’, tesoro, che ti devo dire?»