La segretaria della dottoressa L. era una donna molto brutta. Era talmente brutta e il suo tentativo di rimediarvi talmente goffo che provai un improvviso e bruciante desiderio di inciderle il volto e portarmelo a casa. Mi sarebbe piaciuto dirle di fermarsi, bloccarle la testa, cavare di tasca il vecchio trincetto e inciderle i contorni del capo. Il sistema per incidere oggetti in movimento mi assillava. È vero: anche per gli oggetti immobili riscontravo di tanto in tanto qualche difficoltà, a cui tuttavia sapevo che presto o tardi – con gli strumenti adatti e la pratica necessaria – avrei trovato una soluzione. Agli oggetti animati invece si abbinava il problema della mobilità. Restai qualche secondo a fissare l’orrenda testa di quella donna e i suoi contorni, domandandomi in quale modo potessi bloccarla senza agire sulla sua forma naturale, oppure in che modo potessi permettere alla mia incisione di assecondare i suoi movimenti.

«Serve altro?»

La segretaria mi fissava con aria spazientita. La guardai un attimo negli occhi.

«No» mi riscossi. «Grazie.»

«Allora può accomodarsi in sala d’aspetto» disse la segretaria mostrando una piccola porta di legno scuro alla mia destra.

La sala d’aspetto era una semplice stanza rettangolare, un tre metri per quattro, muri bianchi. Alle pareti erano appese vecchie stampe di animali. Due animali per stampa, sotto ognuno un numero e una dicitura. Erano tutti rappresentati di profilo. C’era una capra, con sotto scritto: “72. Capra”. Mi domandai secondo quale logica la capra si fosse guadagnata il numero 72. C’era l’istrice: sotto aveva scritto: “36. Istrice”. La marmotta portava il numero 51. Il 51 mi parve molto adatto alla marmotta.

I muri erano costeggiati da una fila uniforme di sedie in legno, con la seduta di paglia intrecciata. A terra, sopra un parquet chiaro usurato, c’era un tappeto persiano vagamente liso, coperto per buona parte da un ampio e basso tavolo di legno trattato, cosparso di vecchie riviste. Una tipica sala d’aspetto. Il basso tavolo al centro della stanza era punteggiato di tarlature che, a giudicare dalle gambe, parevano avere una loro struttura organica. Mi domandai se le tarlature del piano potessero nascondere schemi o codici decifrabili. Riuscii a resistere appena un paio di minuti, poi dovetti abbandonare la sedia su cui mi ero seduto e andai a liberare il piano del tavolo dalle riviste. Fu un lavoro impegnativo, che mi provocò una leggera sudorazione all’ascella sinistra. Nella foga del momento avevo dimenticato che la mia ascella sinistra era estremamente sensibile all’attività fisica, e adesso quella traccia di secrezione che galleggiava sulla superficie dell’epidermide mi riempiva di disagio. Per un attimo pensai di scappare e andare a farmi una doccia, poi tentai di calmarmi e di riconcentrarmi sul piano tarlato del tavolo. Non fu molto semplice: il mio umore attraversò un momento di profondo fastidio, e quando percepii che la secrezione si era asciugata, l’idea di quel residuo secco accennò a scatenarmi una punta di panico. Sentivo i pori tappati della mia pelle e mi mancò il fiato. Le tarlature variavano, nel diametro, di qualche frazione di millimetro. Notai che i fori più ampi provocavano impercettibili accentramenti, leggerissime contrazioni nello spazio circostante, e si sviluppavano su assi longitudinali. I fori più piccoli invece avevano un certo carattere satellitare, la cui struttura risultava a un primo ma attento sguardo indeterminabile. Intuii immediatamente che la trama fondamentale – la logica su cui si articolava tutto – gravava, come per altro spesso accade, sui fori di media grandezza.

Sentii la porta aprirsi alle mie spalle. L’orrenda segretaria della dottoressa L. era in piedi nel vano, con il suo camice bianco indosso. Guardò con aria perplessa il tavolo sgomberato, poi me con infastidita curiosità.

«Può entrare» disse.

«Oh» dissi io, poi tornai per un attimo a fissare la superficie del tavolo. «Se mi dà un minuto rimetto tutto com’era.»

In realtà speravo semplicemente di avere qualche altro momento a disposizione per studiare la composizione delle tarlature.

«Non importa, ci penso io» disse la segretaria.

«Insisto.»

«Anche io.»

L’idea di un confronto fisico con quella donna straordinariamente brutta d’un tratto mi preoccupò, e decisi a malincuore di abbandonare il campo.

La dottoressa L. era una donna molto minuta. Sedeva in fondo al suo studio, dietro una grande scrivania di legno messa leggermente di sbieco. L’ampia finestra alle sue spalle la circondava di un leggero controluce, che abbinato ai gomiti poggiati sui braccioli della poltrona e le mani giunte le dava una buffa aria potente.

«Buongiorno» mi disse la dottoressa.

I muri dello studio erano di un improbabile arancione scuro. Sulla destra c’erano un lettino e un carrello con degli strumenti.

«Buongiorno» dissi pure io.

Mi misi a sedere tentando di non muovere la sedia davanti alla scrivania.

«Mi dica» disse la dottoressa senza spostarsi di un millimetro, con un filo di sorriso appeso alle labbra. Aveva la pelle molto uniforme.

«Ho qualcosa sotto il piede.»

La dottoressa mi fissò qualche istante in silenzio.

«Vediamo» disse poi alzandosi.

«Qui?»

«Certo.»

La dottoressa mi fece adagiare su un lettino, mi fece alzare il piede e vi avvicinò una grossa lente circondata da un anello di luci. Mentre già fissava la pianta del mio piede da dietro la sua grossa lente, la dottoressa raccolse dal carrello una boccetta e spruzzò qualcosa nel punto in cui era comparso il cratere.

«Sì, è proprio lei» disse dopo un po’, allontanando la lente con un mezzo sorriso compiaciuto.

«Lei chi?»

«La verruca.»

«Ah. E quindi?»

«E quindi c’è da lavorare» disse la dottoressa tornando a sedere dietro la scrivania. «Si rimetta pure la scarpa e si accomodi.»

Quando fui tornato a sedere la dottoressa mi diede una leggera infarinatura su cosa fosse una verruca e come si comportasse. Raccolse anche un pezzetto di carta dalla scrivania e, con una penna a sfera argentata, ci tracciò sopra l’approssimativa sezione di una verruca plantare. Mi informò che la verruca plantare ha la fastidiosa caratteristica di addentrarsi nell’epidermide e renderne particolarmente difficile la rimozione. M’informò anche che nessun trattamento garantiva la certezza del successo. Mi disse che c’era addirittura chi sosteneva che, essendo sostanzialmente una patologia virale, il miglior rimedio fosse l’effetto placebo.

«È un po’ tardi» feci notare.

«Per cosa?» domandò la dottoressa interrompendo la sua improvvisata lezione e aggrottando un attimo gli occhi.

«Per l’effetto placebo.»

«Cioè?»

«Be’, ora che lo so che placebo è? Se non me lo diceva e mi dava quella boccetta con cui mi ha spruzzato forse eravamo ancora in tempo.»

«Ma quella era solo acqua termale.»

«Un placebo eccezionale, direi.»

La dottoressa mi guardò con aria perplessa.

«In ogni caso ci ho sempre creduto poco a questa storia del placebo» disse, poi continuò sostenendo che la sua ormai trentennale esperienza l’aveva portata a sviluppare un metodo che sembrava funzionare più degli altri. Mi disse che si poteva anche tentare con il laser, ma che – per quanto statisticamente si registrassero maggiori successi – nemmeno con quello la garanzia era assoluta, e tra l’altro si apriva comunque una ferita, che nel caso di un piede poteva risultare molto fastidiosa. La informai che già così sentivo un leggero ma noioso disassamento nell’andatura, e che preferivo non accentuarlo. La dottoressa mi guardò di nuovo con aria perplessa, poi raccolse da un cassetto un foglio e mi illustrò la sua rodata strategia. Si trattava di una cura quotidiana: dovevo scaldare qualche minuto il piede o comunque la parte interessata in acqua calda, grattare la pelle di superficie con una lama o qualche altro materiale abrasivo, applicare un liquido a base di acido salicilico che mi avrebbe prescritto, far asciugare per almeno mezz’ora e coprire infine con un cerotto sterile telato. Suggerì anche, per il periodo del trattamento, di fare la doccia la mattina, senza levare il cerotto, in modo da lasciare tutto il giorno la verruca inumidita.

«E se ne faccio più di una al giorno?»

Lei mi guardò un momento.

«Tanto meglio.»

Scrisse su un foglio intestato il nome del liquido e attaccò un campione di cerotto in un angolo del foglio con le istruzioni.

«Per asportare la superficie trattata di pelle, invece» disse mentre apriva un cassetto e tirava fuori una stretta e piatta bustina di plastica, «userei questo.»

Appoggiò la bustina sul piano della scrivania. La superficie della bustina era trasparente e spiegazzata. All’interno c’era un oggetto stretto e lungo di plastica verdognola, con una metratura incisa sopra. A una delle estremità era applicato un lungo cappuccio di plastica trasparente opaca, e all’interno del cappuccio, saldata al manico verdognolo, si intuiva una lama.

«È un piccolo bisturi» disse la dottoressa. Io la guardai un secondo negli occhi e mi sporsi in avanti per vederlo più da vicino. Era una lama molto piccola, di misure ristrette rispetto alla parte di metallo fissata al manico. «Ritengo sia l’ideale per questo tipo di trattamento. Ovviamente deve fare molta attenzione.» Raccolse la bustina e impugnò lo strumento come una penna. «Deve tenerlo più parallelo alla pelle possibile e raschiare. Niente di più. Deve andarci estremamente cauto, è molto affilato. Mi sta ascoltando?»

D’un tratto mi riscossi e guardai la dottoressa. Mi ero sporto molto in avanti e non riuscivo a staccare gli occhi dalla piccola lama del bisturi.

«Certo.» Tentai di riprendermi. «Dove lo trovo?»

«Glielo lascio» disse la dottoressa, non molto convinta.

«Davvero?»

«Sì» mi scrutò lei. «E in ogni caso può trovarne altri in qualunque farmacia.»

Poi, sempre con un certo sospetto, riappoggiò la bustina sul tavolo e la spinse nella mia direzione, sopra la ricetta e le istruzioni per il trattamento.

«La cura richiede almeno tre settimane, se non di più. Porti pazienza» disse la dottoressa.

«Certo» dissi io, già in piedi e con la mano protesa per salutarla.

«Arrivederci.» Mi strinse la mano. «E chiami per qualunque problema.»

«Senz’altro» dissi mentre sgattaiolavo fuori.

Sbrigai le questioni economiche con la segretaria nel minore tempo possibile, senza sforzarmi di nascondere molta fretta e insofferenza. Appena fuori mi catapultai in macchina e dissi a Riccardo di volare a casa.

Una volta entrato, Maria mi venne incontro per raccogliermi il soprabito e mi avvisò che il pranzo sarebbe stato servito entro venti minuti.

«Sì, sì» risposi io di fretta correndo poi rapidamente nel salottino.

Il salottino era in realtà un vecchio studio, appartenuto prima a mio nonno e poi a mio padre, con però, oltre agli scaffali pieni di libri e la lunga scrivania di legno scuro, anche un largo divano, due poltrone di pelle e un basso, solido tavolo anch’esso di legno scuro. Per questo veniva chiamato “il salottino”.

Andai a sedermi sul divano e appoggiai sul piano del tavolo l’oggetto regalatomi dalla dottoressa L. Lo appoggiai longitudinalmente rispetto al piano, al centro. Era molto complicato stabilire se fosse esattamente al centro. Per un attimo pensai di andare fino al cassetto della scrivania e raccogliere un metro che ricordavo di averci visto dentro. Avrei potuto misurare esattamente i bordi del tavolino e quelli della confezione plastificata, e trovare il centro esatto, o in ogni caso la posizione che dati gli strumenti a disposizione si avvicinasse maggiormente al centro esatto. Ma la confezione era piuttosto spiegazzata, e la sfumatura giallognola che stava assumendo la plastica mi riempiva di un crescente disagio. Mi risolsi dunque a raccogliere il pacchetto e aprirlo. La plastica trasparente si separò con grande facilità dalla carta, e mentre le due superfici si allontanavano sbocciava sempre più al loro interno uno stretto cappuccio di plastica. Quando il cappuccio fu tutto fuori, una volta sbocciato anche qualche centimetro di manico, lasciai con la mano sinistra il foglio di carta e augurandomi che la struttura non cedesse andai a sostenere l’oggetto con due dita. Sfilai dunque del tutto l’involucro e appoggiai di nuovo l’oggetto in quello che ritenni essere il più probabile centro del piano. Una venatura del legno appena più profonda pareva sostenere l’intera struttura. Andai verso la scrivania e facendo attenzione a piegare con molta cura l’involucro di carta e plastica trasparente lo gettai nel cestino di pelle nera. Tornai dunque verso il tavolino. L’oggetto verdognolo con il cappuccio opaco galleggiava là tranquillo sul legno scuro. Il verde del manico era particolarmente sgraziato e sulla cima del cappuccio opaco era praticato un fastidioso forellino. All’interno si intuiva però qualcosa di oltremodo sorprendente. Restai un buon minuto o due a scrutare dall’alto quell’oggetto meraviglioso, poi mi decisi: lo raccolsi, praticai una leggera pressione sul cappuccio opaco e molto lentamente presi a separarlo dal manico. In cima, fissata per mezzo di due forellini attraverso cui passava un grumo di plastica verdognola, si trovava una piccola lama metallica, la cui parte affilata era lunga non più di nove millimetri e larga probabilmente quattro. Era una lama di straordinaria eleganza, un inno all’accuratezza, e mentre me ne stavo lì in piedi ad ammirarla, sentii una vibrazione percorrermi il bacino e i genitali, e salirmi su fino a produrre un sibilo ad altissima frequenza nelle tempie.