Ora che iniziava a fare più caldo, ci piaceva stare in soggiorno e tenere tutte le finestre spalancate. Le tende di lino quando saliva la brezza del tramonto svolazzavano in giro come i veli di una sposa. Si gonfiavano e ricadevano e parevano danzare. Mettevamo la musica. Sedevamo in terra, mezzi nudi, a fare qualche gioco. Monopoly, Scarabeo, un gioco di carte. All’inizio mi ero preoccupata che qualcuno potesse vederci dall’altra parte della strada, ma poi avevo deciso che non c’era nulla di male, e che eravamo belli, e che sarebbero stati invidiosi. Fu un pensiero che mi stupì molto: l’idea che qualcuno potesse essere invidioso di me. Era come sentirsi addosso un fascio di fotoni, un getto di luce che ti carica di energia. Non ero in una conca piena di individui in pericolo, ero in un luogo riparato con il mio uomo, a giocare, nudi, e nessuno poteva farmi niente di male.

Sennò uscivamo. Ripercorrevamo spesso il giro che avevo fatto prima di incontrarlo. Avevamo impiegato due o tre volte per ritrovarlo tutto, ma alla fine ce l’avevamo fatta. Io fantasticavo sull’infinità di minuscoli eventi che mi avrebbero potuto allontanare da lui. Mi domandavo dove sarei stata, senza di lui, e mi pareva di scivolare di nuovo in un luogo angusto e buio. Lui mi guardava giocare e ridere e dire: «Vieni, andiamo di qua, vediamo cosa sarebbe accaduto se quella sera fossi andata da questa parte». Ci immaginavamo allora cosa avrei fatto, chi avrei incontrato. Vedevo un altro uomo e dicevo che avrei magari attaccato bottone con quello là. Lui rideva. Continuavo ad attaccarmi al suo braccio. Di tanto in tanto alzavo i piedi e mi ci appendevo. Sembrava di attaccarsi al ramo di un albero, non cedeva di un centimetro, e ogni volta pensavo che sarei voluta stare appesa lì tutta la vita e che era straordinariamente eccitante e mi prendeva una gran voglia di andare a casa e fare l’amore.

Una sera, rientrando, incontrammo Marco. Era lì, da una parte, seduto su un muretto.

«Allora è vero» disse con l’aria triste ma dura.

«Vero che?»

Si alzò e ci venne incontro.

«Che stai con un altro» disse indicando lui con il mento ma senza guardarlo, con l’aria sempre più dura.

«E allora?» scossi la testa io.

«E allora me lo potevi dire.»

Ormai Marco era molto vicino, ad appena un passo da me, e mi guardava in cagnesco dritta negli occhi.

«E perché?»

«Perché avevamo deciso che ci saremmo presi una pausa e poi avremmo riparlato.»

«Si vede che non avevo niente da dire.»

«Non fare la simpatica.»

«Non sto facendo la simpatica, sto dicendo come stanno le cose.»

Marco mi fissò a lungo senza dire niente, con i muscoli della mascella induriti, poi girò la testa e guardò lui per qualche istante.

«E chi è?»

«Che ti frega?»

«Smettila. Dimmi chi è.»

«È qui, chiedilo a lui chi è.»

«Non voglio chiederlo a lui. Lui non esiste. Lo voglio sapere da te.»

«Oh, eccome se esiste, Marco. Esiste più di quanto tu immagini.»

«No, lo sai bene che non esiste e che questa è tutta una ripicca.»

«Una ripicca?» Scoppiai a ridere. «Una ripicca per cosa, scusa?»

«Perché ho suggerito di prenderci una pausa.»

Risi di nuovo.

«Marco, mi dispiace dirtelo, ma sono entusiasta della tua idea. Anzi, ti ringrazio. Sono talmente contenta di questa pausa, che quasi quasi ci resto, in pausa.»

«Smettila, lo sai che non lo pensi.»

«Oh, sì che lo penso. Sono felice, Marco. Davvero, non ti devi preoccupare.»

«Smetti di fare così e andiamo un po’ a parlare.»

«Non ho niente da dirti.»

«Io sì.»

«Non mi interessa.»

«Smettila, andiamo a parlare.»

Io fui presa da un momento di frustrazione, poi mi dissi di calmarmi, strinsi il braccio di lui, me lo tirai dietro e mi voltai.

«Addio, Marco. Ti auguro ogni bene.»

Mentre facevo qualche passo e infilavo la mano in tasca per prendere le chiavi, sentii afferrarmi il braccio.

«Falla finita» disse ancora Marco cercando di voltarmi con la forza.

«Non mi toccare» dissi sganciandomi dalla sua presa.

Marco provò a riafferrarmi, ma lui fu più svelto e riuscì a stringergli l’avambraccio e lo fissò serio e fece segno di no con la testa.

«E tu che vuoi? Eh? Chi sei te?»

Marco si liberò goffamente dalla presa e gli diede una gran botta al braccio.

«E butta giù le mani.»

Lui gli diede un pugno. Secco, sulla punta mento. Le ginocchia di Marco cedettero come cerniere. Si ritrovò a sedere, stordito. Per un attimo, provai una punta di pietà.

«Così impari» dissi piano. Poi spinsi lui via e ci avviammo verso il portone.