Fu così che iniziai a intuire i contorni delle cose. Tutto aveva confini precisi, incapaci di sovrapporsi. Dunque, presi semplicemente a inciderli. Mi servii in un primo momento di un vecchio trincetto che tenevo nel portapenne dai tempi della scuola. Era azzurro, con il fondo estraibile nero e la sicura gialla della lama. Il fondo portava all’estremità una fessura: bastava estrarre la lama della misura di una sua sezione, infilare la cima nella fessura del fondo e praticare una decisa pressione. La sezione della lama cedeva con un colpo secco. Nel corso degli anni avevo staccato diverse sezioni. Di solito cadevano sul piano del tavolo: avevano improvvisamente qualcosa di malinconico, qualcosa che ricordava l’angheria del tempo e l’inutilità.

Anche quando presi a incidere i contorni delle cose staccai una sezione della lama del trincetto: avevo bisogno di una punta più precisa, che non perdonasse errori e disattenzioni. La lama era ormai ridotta a poco più di metà, e il tempo ci aveva tatuato sopra piccole macchie di ruggine e di inchiostro e di qualche sconosciuta reazione chimica, e diversi graffi.

Ero molto affezionato a quel trincetto, ma compresi ben presto che non faceva al caso mio. Affinata per quanto possibile la tecnica, il taglio risultava sempre grossolano e una volta tornato a casa, alla luce della lampada da tavolo, le curve e le pieghe apparivano sempre eccessivamente spigolose. Era molto frustrante, e il più delle volte mi ero ritrovato a dover gettare il lavoro.

Mi venne in aiuto una verruca. Un piccolo ma profondo cratere mi era sbucato da qualche giorno nella pianta del piede sinistro. In un primo momento non ci feci caso, ma una sera notai che in fondo al cratere si nascondeva qualcosa di scuro. Pensai che ci fosse rimasta incastrata dentro una scheggia. Quando ero piccolo era il babbo l’addetto all’estrazione delle schegge. La mamma invece disinfettava le ferite e applicava i cerotti. Quando una scheggia mi si infilava da qualche parte, dopo averla osservata da vicino e molto attentamente per qualche minuto, andavo a mostrarla al babbo. Il babbo afferrava con decisione la porzione del mio corpo in cui era penetrata la scheggia e la metteva a favore della luce. Ero spesso costretto a pose goffe. Poi il babbo mi mandava dalla mamma a chiedere un ago e una pinzetta. L’addetta agli aghi e alle pinzette era lei.

Una volta portatogli l’ago, il babbo cavava di tasca l’accendino e avvicinava la punta alla fiamma, fino a farla diventare rossa. Un giorno mi spiegò che era per sterilizzarlo. Mi sentii molto grande quando me lo disse. Poi il babbo mi rimetteva in qualche posizione goffa, a favore della luce, e mi diceva di stare fermo. Da un certo momento in poi prese anche a mettersi sulla punta del naso un sottile paio di occhiali. Teneva l’ago tra il pollice e l’indice: con la punta del medio lo guidava in prossimità della scheggia e pian piano ne scalzava a brevi ma decisi colpetti la pelle tutt’intorno. Ogni qualche colpetto mi chiedeva se faceva male. Cercavo di rispondere sempre di no: solitamente era vero, e quando sentivo dolore, se una scossa non mi tradiva, cercavo di essere forte. In ogni caso era un genere di dolore molto interessante: affilato e circoscritto. La sua incapacità di propagarsi era molto confortante.

In breve la scheggia compariva per buona parte della sua lunghezza: il babbo allora posava l’ago, raccoglieva la pinzetta e l’estraeva. La scheggia rimaneva di solito attaccata a uno dei fianchi della pinzetta. Qualche volta la pinzetta non serviva nemmeno, e il babbo riusciva a estrarre la scheggia direttamente con l’ago. Quindi il babbo la guardava e la roteava da una parte all’altra.

«Eccola» diceva.

Poi, dopo avermela mostrata e averla brevemente valutata insieme, ripuliva la pinzetta, raccoglieva l’ago messo da parte e con una pacca mi diceva di riportarli alla mamma.

Quando affondai la punta annerita dell’ago nel cratere del mio piede, l’unica cosa che ottenni fu un’eruzione di sangue. Considerati il diametro del cratere e la pressione della mia mano, l’eruzione fu piuttosto intensa. Impedì qualunque prosecuzione dei lavori: mi obbligò a praticare una leggera medicazione e coprire il tutto con un cerotto sterile. Dovetti aspettare quasi tre giorni per tornare a scorgere qualcosa nel cratere. Questa volta mi armai di maggiore delicatezza e di una vecchia lente di ingrandimento con il manico di legno. Invece di affondare l’ago nel cratere tentai di scalzare la pelle per allargare il solco e vedere meglio. La pelle del mio piede era più spessa del previsto. Mi domandai come fosse possibile, in che modo la mia sostanziale inattività avesse potuto modellare e indurire la scorza del mio corpo. Anche le mie mani tradivano inspiegabilmente dell’attività fisica. Una sera di qualche anno prima una mia mano si era ritrovata tra quelle di una sconosciuta, l’amica di un individuo dai capelli rossi per cui provavo soprattutto fastidio, ma che si riteneva mio amico e di tanto in tanto si divertiva a mostrarmi in giro come un’attrazione. La sconosciuta aveva i capelli tagliati in un insolito caschetto. La riga di nero della palpebra sinistra piegava prematuramente verso il basso e l’incisivo sinistro superiore si accavallava leggermente al destro: questo era forse il tratto più interessante del suo volto. Era seduta sulla poltrona di un elegante salotto e teneva la mia mano tra le sue. Aveva l’aria molto interessata.

«Che fai?» mi aveva domandato mentre avvicinava leggermente gli occhi al palmo della mia mano.

«Aspetto che lei mi renda la mano» avevo suggerito.

Lei aveva riso. Due linee le si erano scavate in entrambe le guance e i denti avevano mostrato ulteriori imperfezioni.

«Nella vita, intendo» aveva specificato la sconosciuta senza rendermi la mano.

«Ah.»

Lei mi aveva guardato senza aggiungere altro.

«Quindi?» aveva detto poi sorridendo.

«Quindi che?»

«Cosa fai nella vita?»

Come sempre avevo trovato interessante la vaghezza della domanda.

«Niente» avevo risposto.

«Che significa niente?»

Questa domanda mi era parsa molto più brillante.

«La sua è una domanda piuttosto impegnativa» mi ero trovato a riflettere mentre la sconosciuta non accennava a rendermi la mano. «Di solito, con la parola “niente” si indica un’assenza, in qualche modo il contrario di un tutto, e quindi per paradosso il tutto stesso. In termini scientifici la parola non ha alcun valore tecnico, indica un insieme vuoto.»

La sconosciuta con il caschetto e gli incisivi sovrapposti mi aveva di nuovo guardato qualche secondo e aveva sorriso.

«Intendevo dire cosa significa che non fai niente nella vita» aveva detto riscaldando e abbassando la voce di un paio di ottave. Anche questa era tutto sommato una domanda interessante. Questa persona aveva bisogno di molte istruzioni.

«È quella che viene comunemente definita una “frase fatta”: significa che ho eliminato qualunque relazione attiva con il mondo.»

La ragazza mi aveva fissato con quello che pareva un insopportabile sguardo rapito e d’intesa.

«Be’» aveva detto tornando a guardare la mano, «non sembra la mano di uno che non fa niente.»

Ricordo che non sapevo bene come dovesse essere la mia mano, ma che iniziavo ad avere una certa urgenza che mi venisse restituita. Quando ero riuscito a riaverla mi ero messo a osservare la gente che sfilava. Le poltrone di velluto su cui sedevamo erano situate in un largo corridoio. Persone eleganti ci passavano a fianco con bicchieri in mano. Nell’imboccare il corridoio il loro passo accennava impercettibilmente a rallentare.

La ragazza si era successivamente offerta di appartarsi con me.

«Grazie, ma preferirei di no» avevo risposto.

Il tessuto in fondo al cratere del mio piede era molle e spugnoso, dissimile da qualunque materiale cutaneo mi fosse mai capitato di vedere. Dopo un paio di settimane, quando il cratere sotto al mio piede iniziò a produrre un leggero dolore, pensai di consultare qualcuno: il dolore provocava un impercettibile disassamento nella mia andatura, e la cosa iniziava a infastidirmi.

Quando Nina venne ad aprirmi sembrava a disagio.

«Che vuoi?» domandò.

Scivolai con una certa destrezza nell’ingresso.

«Ho bisogno di un consulto.»

Nina mi guardò male. Per qualche ragione aveva in testa un buffo copricapo simile a un turbante.

«Non ora, Teo, ho da fare.»

Svicolai nella grande porta a vetri.

«Ci vorrà un secondo.»

Nel salotto, riunita intorno a un basso tavolo di cristallo, c’era una dozzina di signore di varia età. Avevano indosso abiti colorati e delle tazze di tè in mano. Sul tavolo erano poggiati dei sacchi di plastica e una delle signore, con i capelli rossi legati in una bizzarra cofana, era in piedi davanti al camino, come se stesse facendo un sermone.

«Oh» dissi fermandomi sull’ingresso del salotto. «Buonasera.»

Le signore sembravano piuttosto impensierite dalla mia apparizione.

«Buonasera» disse qualcuna di loro, non molto convinta.

«Teo, per favore, abbiamo da fare» disse mia sorella alle mie spalle. Sembrava molto preoccupata. Si voltò verso le sue compagne. «Perdonate, è mio fratello.»

Ci fu un coro di saluti e approvazioni, un paio si voltarono verso le vicine e bisbigliarono qualcosa.

«Fare che?» domandai senza riuscire a staccare gli occhi dalle signore.

«È il mio gruppo di giardinaggio. Non sono affari tuoi.»

«Ah» dissi io, poi mi riscossi e mi avviai verso il tavolo di noce intarsiato nell’angolo, che una volta era stato di nostra nonna. Da piccolo mi ci sedevo sotto e stavo semplicemente fermo a osservare. I piedi delle persone che passavano, soprattutto. All’inizio i miei l’avevano trovata una cosa divertente, poi la mia immobilità e il mio silenzio aveva preso a inquietarli e si erano spazientiti. Infine, avevano deciso di soprassedere.

Quando mi adagiai su una delle sedie del tavolo e presi a slacciarmi la scarpa, mia sorella scattò.

«Teo, ho detto che non è il momento!»

Sfilai noncurante anche il calzino e le porsi la pianta del piede.

«Cos’è secondo te?»

Nina mi fissò con aria furente, poi fece tre passi avanti, mi raccolse il tallone con la mano destra e lo alzò per vedere meglio. Non fu molto delicata, e non potei impedire una leggera flessione indietro del busto.

«Non lo so» disse Nina, «sembra un buco.»

Le altre signore si alzarono d’un tratto dai divani e dalle poltrone e si riunirono alle spalle di Nina. Qualcuna si piegò leggermente in avanti per vedere meglio.

«Lo so che è un buco» dissi io. «Ma c’è qualcosa in fondo.»

«Una spina?» domandò una delle signore gettandomi una rapida occhiata.

«Non direi. Ho provato a estrarla con la punta di un ago, ma ho ottenuto soltanto una intensa eruzione di sangue. Sembra più materia molle.»

Le signore e mia sorella restarono qualche istante in silenzio a osservare attentamente la pianta del mio piede.

«Una verruca» disse d’un tratto una delle signore.

Le altre si voltarono a guardarla.

«Una verruca?»

«Sì, è senz’altro una verruca.»

Le signore tirarono leggermente indietro la testa.

«Oddio che schifo» disse qualcuna. Mia sorella mi fissò nuovamente con aria severa. Poi però riavvicinarono tutte la testa. In fin dei conti sembravano molto interessate.

«Ma sono fatte così le verruche?»

«Sì, anche.»

«Le facevo più brutte.»

«Alcune sono orrende.»

«Lei ha dei bei piedi.»

«Grazie.»

«Occhio che sono contagiose.»

«Cosa?»

«Le verruche. Sono contagiose.»

Le signore che guardavano più da vicino il mio piede si allontanarono di scatto, e mia sorella mi mollò immediatamente il tallone.

Rimasero tutte ferme a fissarmi.

«Mi daresti per favore il numero di quella dermatologa da cui sei stata una volta?» domandai a mia sorella.

«Non sono mai stata da nessuna dermatologa» rispose lei.

«Come no? Quando ti è venuta quell’eruzione sul fianco.»

Le signore guardarono tutte mia sorella, incuriosite.

«Non ho mai avuto alcun tipo di eruzione.»

Dovevo usare un’altra strategia.

«Vabbè. Conosci per caso una dermatologa?»

Mia sorella ci pensò sopra un secondo.

«La dottoressa L.»

Fu un tripudio di approvazioni.

«Aaah, una donna meravigliosa!» disse una delle signore.

«Grandissima persona!» approvò un’altra.

«E che medico...»

«Guardate, a mio marito ha risolto una noia che non sapevamo più come fare» disse un’altra mentre già si riavviavano tutte verso i divani.

Mi fu chiesto di unirmi a loro per una tazza di tè. Fu piuttosto interessante. La signora che quando ero entrato stava in piedi si rimise davanti al focolare e fece un’accorata e scrupolosa analisi del problema dei fertilizzanti. Imparai molte cose. Gli elementi principali dei fertilizzanti sono azoto, fosforo e potassio. Gli elementi secondari sono il calcio, il magnesio, lo zolfo, il sodio e il cloro. Sul sodio pare esserci una diatriba: nel Nord Europa, dove scarseggia, gli danno molta importanza; in realtà sembrerebbe non contribuire allo sviluppo della pianta, forse la danneggerebbe pure. I microelementi sono il boro, il manganese, il rame, lo zinco, il molibdeno, il cobalto e il ferro. I concimi si suddividono in chimici e organici. I concimi chimici si dividono in semplici, binari e ternari, a seconda che possiedano uno, due o tutti e tre gli elementi principali. La signora si prese una pausa.

«Per il giardinaggio, il concime migliore rimane la popò.»

Così disse, questa raffinata esegeta del giardinaggio: la popò.