Incisi diversi oggetti con quella lama. Il primo fu un posacenere. Era un comunissimo posacenere di vetro opaco azzurro, rotondo, del diametro di una decina di centimetri e alto tre. La sezione del vetro era poco più di mezzo centimetro e sul bordo, ortogonalmente, erano praticate quattro sedi per possibili sigarette.
Avevo appena acquistato un corposo e dettagliato libro sulla floricoltura e mi ero andato a sedere nella sala da tè di un bar dietro l’angolo, dove ricordavo che facevano delle interessanti centrifughe. La lezione sui fertilizzanti a cui avevo assistito da mia sorella mi aveva incuriosito, dunque mi era venuta voglia di saperne di più su questa faccenda dei fiori. Ordinai una centrifuga di carote e banana.
Feci caso al posacenere solo qualche minuto più tardi. Ce n’era uno per ogni tavolino, ma quando avevo spostato il mio per posare il libro sul piano ed estrarlo dal sacchetto della libreria non ci avevo fatto particolare attenzione. Quando invece poco più tardi stavo prendendo il mio secondo sorso della centrifuga di carote e banana, mi era caduto l’occhio sul tavolo accanto e sul posacenere, e non avevo potuto fare a meno di restarne rapito. Innanzi tutto era la prospettiva: la linea del mio sguardo colpiva il posacenere con un angolo molto approssimativo di trenta gradi rispetto alla linea del suolo e del piano del tavolo; questo permetteva al bordo del posacenere di formare un’ellisse piuttosto stretta e particolarmente elegante. La scanalatura frontale per le sigarette era in leggerissimo disasse rispetto alla linea di sguardo e mostrava appena il fianco scuro al suo interno. Nella scanalatura alla destra di quella frontale – quella a est, immaginando le quattro scanalature come punti cardinali rispetto al punto di vista – era incastrata una sigaretta spenta e leggermente sbilenca. Sul filtro della sigaretta si intuiva un’impercettibile traccia di rossetto. La superficie lucida del bordo e delle scanalature, quella opaca delle pareti esterne, il colore azzurro e quella sigaretta sbilenca e quella leggerissima traccia di rossetto parevano d’un tratto narrare l’intera umanità. Fui immediatamente invaso da una bruciante necessità di incidere il posacenere. Per un momento fu come se ogni mia speranza di relazione con il mondo dipendesse da questo. Il problema era come. Nessuno dei camerieri sarebbe stato felice di vedermi incidere il loro posacenere. Il bisturi della dottoressa L., che avevo prudentemente deciso di portarmi dietro, avrebbe reso il lavoro certamente più rapido e accurato, ma non era comunque un’operazione da concludersi in pochi secondi. La precisione era fondamentale, altrimenti sarebbe andata a finire come tutte le altre volte, e la faccenda avrebbe davvero preso a frustrarmi. Pensai per un attimo di andare a chiamare Riccardo in macchina e trovare un modo per farmi coprire, ma ero terrorizzato dall’idea che una volta fuori il posacenere venisse spostato o pulito e perdessi così la mia cruciale occasione. A essere sincero, anche lì, senza andarmene, ero preoccupato dalla possibilità di perdere quell’esatta prospettiva. Quando mi giravo per vedere se sopraggiungeva qualcuno, mi imponevo di irrigidire tutti i muscoli e voltare la testa il minimo indispensabile perché la coda degli occhi fosse in grado di intravedere l’uscita. Il che poneva un altro problema: il posacenere era a non meno di due metri da me e quando lo avevo scorto mi trovavo con il busto piuttosto eretto; per inciderlo mi sarei dovuto avvicinare parecchio e per non perdere quella straordinaria prospettiva mi sarei dovuto muovere sulla linea di sguardo, fino a trovarmi abbassato in una posizione che avrebbe senza dubbio destato qualche curiosità.
Decisi d’altronde che non avevo scelta. Estrassi con cautela dalla tasca interna della giacca il bisturi incappucciato della dottoressa L. e con la stessa cautela separai la lama dalla sua protezione. Voltai leggermente la testa fino a scorgere l’ingresso della sala da tè e tentai per un attimo di udire se potesse essere il momento giusto. Se non fosse che i miei occhi erano forse l’unico dettaglio che ammiravo di me, avrei per un istante desiderato essere un cieco e possedere la raffinatezza del loro udito. Mi voltai di nuovo verso il posacenere e, dopo essermi assicurato di trovarmi nella prospettiva ideale, presi a muovermi lungo il suo asse. Quando fui alla distanza giusta, ormai piegato fin quasi all’altezza del tavolino, avvicinai il bisturi al fianco destro del posacenere e, concentrando ogni mia cellula in quel preciso punto, affondai la lama. La morbidezza con cui il bisturi riusciva a procedere era davvero strabiliante e produceva dentro di me una scossa indubitabilmente erotica. Anche nella parte inferiore del posacenere, dove il bordo faceva un piccolo scalino, il bisturi seguì la linea senza alcuna fatica. Ero assolutamente estasiato, ogni molecola del mio corpo sentiva una gran voglia di ridere, e solo con un profondissimo autocontrollo e senso del dovere riuscii a trattenermi. Quando ormai il bisturi era già quasi giunto alla fine del bordo inferiore, vicino allo scalino di sinistra, sentii dei passi alle mie spalle. L’unica cosa che riuscii a fare fu appoggiare le mani sul piano del tavolo e nasconderci sotto il bisturi. Mentre il cameriere spariva dietro una porta scorrevole notai che mi guardava con le sopracciglia aggrottate. Pensai di rimettermi semplicemente a fissare il posacenere e sperai che non mi dicesse niente, e che non notasse l’angolo ormai molle del vetro azzurro. Appena ebbe superato la porta ripresi in mano il bisturi e mi rimisi al lavoro. Il lato sinistro del posacenere era più scomodo da incidere, ma la piccola lama rese il lavoro sorprendentemente semplice.
In men che non si dica, ancora prima che il cameriere risbucasse dalla porta scorrevole, finii il lavoro con quella che mi parve un’estrema precisione. D’altronde avrei dovuto aspettare di essere a casa per controllare con calma il lavoro: nella fretta di non essere scoperto gettai il posacenere intagliato tra le pagine del libro di floricoltura, proprio come avrei fatto con un fiore, e sul buco nero rimasto sul tavolino adagiai il tovagliolo che mi era stato servito insieme alla centrifuga. Anche nelle altre occasioni avevo notato quella sorta di buco nero che restava nel luogo dove poco prima si trovavano gli oggetti incisi, ma ogni volta la fretta di non essere visto e di tornare a casa per controllare il risultato mi aveva impedito di dedicarvi la necessaria attenzione. Non potevo dirlo con certezza, ma non pareva semplicemente una zona vuota, quanto più l’apertura su un luogo più profondo e oscuro, come l’oblò di una navicella affacciato sullo spazio siderale, o come una pupilla.
Andai di corsa a pagare e una volta in macchina ordinai a Riccardo di correre a casa più velocemente che poteva. Mi ritirai immediatamente in camera e dissi a tutti di non disturbarmi per alcun motivo. Andai fino al mio alto tavolo da lavoro, salii sullo sgabello, accesi la lampada mobile e una volta appoggiato il libro di floricoltura sul piano lo illuminai per bene. Aprii dunque il libro e con calma, con appena la punta di due dita, trattenni il posacenere intagliato; con la mano sinistra tirai via il libro e lasciai scivolare il posacenere direttamente sul piano. Era composto di una materia molto fine e molto tenace, setosa ma estremamente elastica. Mi fermai qualche momento a osservare il posacenere intagliato galleggiare lì sul piano nero del tavolo, sotto la luce bianca della lampada. Raccolsi dal portapenne una vecchia lente d’ingrandimento che mia nonna usava per fare i cuscini al piccolo punto e seguii attentamente i bordi del posacenere intagliato. Era un lavoro molto ben fatto. Solo in un punto sentii l’esigenza di estrarre ancora il bisturi dalla tasca e correggere una piccola sbavatura in eccesso. D’un tratto mi trovavo piuttosto a disagio a maneggiare il posacenere direttamente con la superficie delle dita e sentii l’urgenza di acquistare dei guanti sterili. Un giorno, non ricordavo bene dove, avevo anche visto sulla scrivania di qualcuno un tappetino verde millimetrato, su cui avrei potuto incidere con minore cautela e maggiore precisione. Decisi di cercare e acquistare pure quello.
Restava adesso il problema di cosa fare con il posacenere intagliato. Le altre volte il mio vecchio trincetto aveva talmente sporcato l’intaglio che il problema di cosa farne non si era nemmeno presentato. Pensai di parlarne con Livia. La invitai da me la sera stessa, come sempre per mezzo di un biglietto recapitatole da Riccardo. Dabbasso disposi che venisse condotta direttamente su nella mia stanza. La trovò una cosa inusuale, se non addirittura bizzarra, che la mise in un umore curioso. Mi guardava con aria sorpresa e sospetta. Gli improvvisi mutamenti delle usanze mettevano Livia in un lieve disagio.
Avevo conosciuto Livia in seguito al concerto privato di un conoscente. Mentre alla fine della modesta esibizione tutti si avventavano sui musicisti a riempirli di complimenti, il padrone di casa si era avvicinato e mi aveva ringraziato di essere lì e mi aveva invitato a rimanere per un brindisi. Mi ero chiesto cosa ci fosse da celebrare, ma avevo ringraziato e accettato, apparentemente di buon grado. Tuttavia, mentre poco dopo ci avviavamo verso il salone, avevo bofonchiato alla grinzosa signora che mi camminava accanto che dovevo raccogliere qualcosa nel paltò e, scusandomi, mi ero lanciato giù per le scale. Il luogo del concerto non era lontano da casa e avevo lasciato a Riccardo la serata libera. Mentre già mi trovavo all’angolo della via, una voce rimbalzò tra i muri della strada e mi raggiunse.
«Non un granché, le pare?»
Avevo il forte sospetto che la frase fosse rivolta a me, ma pensai di non rispondere e svoltai di fretta l’angolo. Udii alle mie spalle l’accelerare di piccoli passi.
«Che fa, scappa?» mi aveva colpito una voce di donna ormai al mio fianco. La cortesia mi aveva obbligato a fermarmi. A parlarmi era una giovane donna piuttosto alta, con indosso un lungo cappotto nero, una borsetta attaccata al braccio e un improbabile cappellino a fiori in testa.
«Non direi, accelero.»
«Ho notato. Ha urgenza di tornare a casa?»
«Sì, direi di sì.»
«E perché?»
La domanda era meno semplice di quanto apparisse.
«Lo trovo un luogo confortevole, immagino.»
Livia aveva annuito e mi aveva preso sottobraccio. L’idea di quell’inatteso contatto fisico mi aveva raggelato. Eppure, sorprendentemente, il disagio si era subito dissolto.
«Non sa come la capisco» aveva sospirato Livia.
Aveva poi leggermente forzato il mio gomito e avevamo ripreso a camminare.
«Dunque, non un granché, le pare?»
«Che cosa?»
«Il concerto.»
«Sì, piuttosto deludente, direi.»
«Non so cosa si debba fare ormai in questa città per ascoltare della buona musica.»
Livia era quindi partita per uno dei suoi usuali e inarrestabili sproloqui, che in seguito avrei imparato a non ascoltare ma che come una radio in sottofondo mi avrebbero tenuto molta compagnia. Terrorizzato dall’idea che lo sproloquio potesse non fermarsi più, giunto a casa mi ero bruscamente staccato dal suo braccio ed ero corso verso il portone, ringraziandola della piacevole serata e sparendo rapidamente all’interno.
Ero stato non poco sorpreso quando due giorni più tardi Livia era passata a trovarmi all’ora del tè, con in mano una scatola di pasticcini inglesi. Le sue visite erano diventate pian piano più frequenti, e si erano presto regolarizzate su tre pomeriggi a settimana: il martedì, il giovedì e il sabato, dalle sedici alle diciotto e trenta. Dunque, Livia si era introdotta nella mia esistenza senza che io l’autorizzassi formalmente: trovavo interessante che poi si spazientisse per qualche mio raro incrinamento delle abitudini.
«La borsa» disse adesso con aria scocciata, in piedi vicino alla porta.
«Non credo di seguirti.»
Mi guardò e non poté fare a meno di stringere la mascella e produrre un piccolo sbuffo.
«È che non so dove mettere la borsa.»
La fissai. In diverse occasioni avevo trovato il mondo di Livia piuttosto divertente, ma con tutta la buona volontà non riuscivo a trovare quello un serio problema.
«Prova lì» dissi indicando il vecchio divano di pelle rossastra che un giorno sarebbe diventato tanto importante e per cui tutti adesso mi esasperano.
Livia osservò per qualche secondo il divano, poi di nuovo me, e infine si decise a muoversi: poggiò la borsa con fastidio sui cuscini di pelle usurata e si voltò.
«Vieni qui. Guarda.»
Livia si avvicinò e fissò il piano illuminato del tavolo.
«Sì. E allora?»
«Come “e allora”. Non ti piace?»
«Non saprei. È un posacenere.»
«No, è il posacenere.»
«Che significa è il posacenere?»
«Che è proprio lui, o quel che resta di lui.»
Livia mi guardò con aria perplessa.
«L’ho preso in un caffè in centro. L’ho inciso direttamente dal tavolo, con un bisturi.»
Livia mi fissò ancora un momento, poi tornò a guardare il posacenere adagiato sul tavolo e si chinò pure di qualche grado per vedere meglio.
«Cioè questo è proprio lui?»
«Sì, è proprio lui.»
Non potei trattenere un lieve sorriso di compiacimento.
«E al suo posto cosa è rimasto?»
«Non so bene: nella fretta di non essere scoperto ci ho gettato subito un tovagliolo sopra e me ne sono andato. Sembrava una specie di buco nero.»
Livia alzò gli occhi, raccolse dal portapenne una matita spuntata, l’avvicinò a un angolo del posacenere e ne mosse il bordo. La materia setosa e plastica di cui era composto si piegò leggermente e, non appena Livia allontanò la matita, tornò al suo posto.
«Affascinante.»
Non potei fare a meno di convenirne.
«E adesso?»
«E adesso che?»
«E adesso che facciamo?»
«Io credo che tornerò a casa.»
«No, con questo.»
«Che ne so. Che vorresti farci?»
«Non so, lo lasciamo qui così?»
Continuammo a fissare il posacenere illuminato. Avevo evidentemente sollevato una questione interessante.
«Potresti incorniciarlo.»
Incorniciarlo. La parola attraversò la mia mente come una parata di colombe. D’un tratto la stanza si riempì di cornici dorate appese a palloncini, e all’interno di ognuna uno splendido posacenere azzurro.
«Sei una donna stupefacente.»
«Prima però dovremmo trovare una superficie su cui adagiarlo.»
Una superficie. Livia quella sera era piena di intuizioni.
«Che tipo di superficie?»
«Non saprei. Potrebbe essere del legno, o della tela da pittori.»
Restai qualche momento fermo a guardare la sagoma illuminata del posacenere.
«Il legno forse è più adatto.»
«Non sembri molto convinto.»
«No, non sono molto convinto.»
«Perché?»
«Non so, il legno mi pare troppo concreto, forse è meglio qualcosa di più neutro. Tipo la superficie di questo tavolo.»
«Questo tavolo è laccato.»
«Eh.»
«Potremmo laccare una tavoletta di legno e fare incorniciare quella.»
«Si può fare?»
«Si può fare tutto.»
L’improvvisa sicurezza di Livia era molto eccitante.
«Dunque, che devo fare?»
«Lascia perdere, ci penso io.»
«Ci pensi tu?»
«Sì, ci penso io.»
«Davvero?»
«Sì, davvero.»
«Be’, sei meravigliosa.»
«Sì, lo so.»
Livia ricomparve due giorni più tardi con in mano un ingombrante sacchetto di carta marrone. Mi fece i complimenti per la mia nuova giacca da camera e mi disse di andare subito nella mia stanza. Una volta di sopra mi chiese di tirare fuori il posacenere e di accendere la luce.
Accesi dunque la lampada e la posizionai sul tavolo da lavoro. Avevo fatto comprare a Riccardo una scatola di guanti in lattice e presi a indossarne una coppia. Quando avevo detto a Riccardo di acquistarli, lui mi aveva chiesto di quale misura. L’avevo osservato un momento perplesso.
«Non saprei.»
«Mi faccia vedere la mano.»
Avevo alzato la sinistra, ben aperta, con il dorso rivolto verso di lui.
«La volti» aveva detto Riccardo.
Avevo osservato la mia mano, facendo attenzione a non muovere alcuna altra parte del corpo, e avevo rivolto il palmo verso Riccardo. Non era una posizione molto comoda.
Riccardo aveva alzato la sua mano destra e aveva avvicinato il suo palmo al mio, fino a sfiorarlo. Il cuore aveva preso a battermi molto forte e mi ero sentito piuttosto a disagio. Sembrava una mano molto calda e molto ruvida.
«Bene» aveva detto Riccardo ritirando la mano, e poco più tardi era ricomparso alla porta della mia stanza con in mano la scatola di guanti.
Quando finii di infilarmi la coppia di guanti, vidi che Livia li stava fissando molto intensamente.
«E questi?»
«Sono guanti in lattice» risposi aprendo leggermente le mani per mostrarli meglio, come se fossero di qualcun altro.
«Sono bellissimi.»
«Se vuoi puoi averne un paio pure tu, ce n’è un’intera scatola.»
«Credi?»
«Certo.»
Allungai la mano verso il foro ellittico praticato sulla parte superiore della scatola, estrassi un’altra coppia di guanti e li porsi a Livia. Li raccolse senza smettere di fissarli, con le pupille mezze dilatate, e li indossò con cura. Erano leggermente grandi, ma non le stavano male.
«Sono leggermente grandi.»
«Sì, ma sono splendidi» sussurrò Livia continuando a girarsi le mani davanti agli occhi e sotto la luce della lampada.
«Te ne farò prendere una scatola della misura giusta, se vuoi.»
«Davvero?»
«Certo.»
«Sarebbe meraviglioso.»
Poi Livia si voltò e senza smettere di ammirarsi le mani andò a raccogliere il contenuto del sacchetto. Io intanto aprii sul piano il libro di floricoltura e fermando la sagoma del posacenere la lasciai di nuovo scivolare sul tavolo.
Livia estrasse dal sacchetto una scatola, l’aprì e raccolse da un materasso di gnocchi di polistirolo una cornice nera laccata. Era una comune cornice da quadro, piuttosto mossa, larga sei o sette centimetri e spessa sui tre, nera e lucida. Al suo interno c’era una superficie anch’essa lucida e nera, quadrata, di più o meno una spanna per lato.
«È molto bella.»
«Sì, lo so.»
«Chi te l’ha fatta?»
«Un corniciaio di fiducia.»
«Non sapevo avessi un corniciaio di fiducia.»
«Nemmeno io.»
Non ero certo di cosa quel “nemmeno io” significasse, ma mi parve una risposta brillante e non aggiunsi altro.
Livia sollevò la cornice e l’appoggiò sul piano del tavolo, subito accanto al posacenere intagliato. Mi disse di mettercelo dentro. Raccolsi con molta cura il posacenere con entrambe le mani e lo lasciai scivolare all’interno della cornice, sulla superficie nera. Livia ci sistemò bene la luce sopra e mi spostò leggermente di lato.
«Fai fare a me.» Prese a spostare il posacenere a piccoli colpetti, fermandosi di tanto in tanto e cambiando punto di vista e piegando la testa da una parte. «Ecco» disse infine.
Il posacenere sembrava in effetti perfettamente al centro. L’azzurro risaltava bene sul nero e la superficie morbida e opaca del posacenere creava un bel contrasto con il lucido della laccatura.
«E adesso?»
«E adesso bisogna fissarlo.»
«Fissarlo come?»
Livia allungò di nuovo le mani verso il sacchetto e tirò fuori un tubetto di metallo.
«Con questa.»
«E che è?»
«Colla.»
«Ah. E dove l’hai presa?»
«Da una mesticheria di fiducia.»
Livia, d’un tratto, oltre che piena di sorprese e determinazione, era pure piena di luoghi di fiducia.
«Dobbiamo stare attenti a metterne appena un velo, sennò rischia di fuoriuscire dai margini. Ce l’hai qualcosa su cui posso lavorare?»
«Tipo?»
«Non saprei. Una superficie qualunque che non ti interessa, il retro di un vecchio quaderno, un pezzo di cartone.»
Mi guardai intorno. C’erano soprattutto grossi libri che non avevo molta voglia di sciupare. Pensai che il libro di floricoltura ormai era parte dell’operazione.
«Prendi questo» dissi facendo scivolare il librone sul piano del tavolo, fino accanto alla cornice.
«Molto bene» disse Livia, poi si guardò un momento intorno, afferrò l’alto sgabello, se lo tirò vicino e si mise a sedere.
Fu così, con questo gesto banale e automatico, che Livia prese possesso del mio tavolo. Una volta incisi gli oggetti, divenne naturale portarli semplicemente a casa e mostrarli a Livia. Lei dunque si occupava di scegliere il materiale su cui adagiarli e il tipo di cornice. Le feci acquistare il tappetino millimetrato, di cui fu molto soddisfatta, e una sua personale scatola di guanti in lattice. Li indossava sempre con grande cura e una volta indossati li osservava per qualche secondo con aria rapita. Amava molto quei guanti.
Nel paio di settimane successive incisi la parte superiore di un ombrello con il manico di legno, un vecchio telefono grigio a disco, un portapenne e una lattina di birra ammaccata. Nella sala d’aspetto del dentista incisi pure una divertente e colorata pila di riviste.
Vidi l’ombrello fuori dalla porta di una signora che mi aveva invitato a cena. Lo incisi così com’era, lungo la linea del portaombrelli. Quando Livia lo vide lo trovò interessante: decise di pareggiare il fondo in una linea retta e presentarlo come se sparisse sotto la cornice. Ci pensò un po’ su e le venne l’idea di adagiarlo sulla superficie grezza del retro di una tela da pittore. Disse che anche Francis Bacon lo faceva. Usò una semplice e spessa cornice dorata, e venne molto bene.
L’unico oggetto che riuscii a incidere con calma fu la lattina di birra ammaccata. La trovai di sera, dietro l’angolo di un vicolo, poggiata da sola su un armadietto della compagnia elettrica. La intagliai e la feci sparire in tasca dentro una busta di plastica che Livia mi faceva sempre portare dietro. E finalmente potei osservare quel buco nero che restava al posto degli oggetti intagliati. Era come una finestra su un luogo profondo e sconfinato. Ci infilai una mano dentro, con grandissima cautela, pensando che anche il dito potesse essere inghiottito da quel nero, ma non accadde niente. Era come se il nero fosse in fondo da qualche parte, eppure avvolgesse ugualmente tutto. A guardare bene il nero non pareva semplicemente nero, ma uno sfrigolare rapidissimo di colori, come quando uno strizza molto forte gli occhi chiusi, ma a frequenze infinitamente più alte. Non pareva vuoto e inanimato, quel nero, quanto più un luogo mosso da vibrazioni talmente rapide da diventare indistinguibili.
Il portapenne fu l’ultimo della serie a essere inciso, e feci molta più fatica del previsto. Gli angoli e i dettagli delle penne e delle matite erano molto sottili, e il bisturi procedeva con più fatica del solito. Rischiai persino di essere scoperto.
La sera, quando grattandomi la pelle in eccesso della verruca sentii un eccessivo attrito, capii che il bisturi si era slamato. La cura della verruca si era dimostrata un’operazione piuttosto impegnativa, oltre che non molto gradevole. I guanti erano risultati molto utili anche a questo. Ogni sera, prima di dormire, sedevo sul bordo del letto e avvicinavo il più possibile il piede alla luce. Dunque levavo il pezzo di cerotto sterile applicato la sera precedente e analizzavo l’evoluzione della cura. Di solito il gel di acido salicilico, seccatosi, lasciava una pellicola biancastra che il più delle volte restava attaccata al cerotto. Di tanto in tanto dovevo scalzare gli ultimi resti con la punta del bisturi. Il cerotto e l’acido salicilico rendevano la superficie della pelle bianca e dura. Pian piano, giorno dopo giorno, il cratere era stato quasi del tutto sbassato ed era presa via via ad apparire al suo posto una protuberanza. Un paio di sere prima la protuberanza aveva assunto un colore più scuro rispetto alla pelle circostante. Più precisamente, pareva che uno strato di pelle biancastra nascondesse una protuberanza più scura. Avevo tentato di vincere quel sigillo con la tecnica insegnatami dalla dottoressa L., tenendo il bisturi il più possibile parallelo alla superficie e levando delicatamente sottili strati di pelle. Quell’ultimo strato però non voleva disfarsi. Mi ero fermato e avevo osservato per qualche minuto la protuberanza, cercando di intuire il da farsi. Per un momento avevo pensato di non intervenire e lasciar lavorare l’acido salicilico per un altro giorno e vedere cosa sarebbe accaduto. La curiosità tuttavia di aprire quel velo di pelle biancastra e svelare cosa nascondesse era irresistibile. Avevo avvicinato dunque la punta del bisturi a quello che pareva il fianco della protuberanza e con grande cautela ve l’avevo affondata dentro. Subito la pelle si era spaccata e aveva mostrato una materia effettivamente più scura e morbida. Avevo finito quindi di incidere e asportare l’epidermide in eccesso, fino a scalzare e aprire un piccolo occhio di pelle, la cui pupilla era un ributtante bottone marroncino e spugnoso. Sulla superficie si intuivano quelle che fino a poche settimane prima dovevano essere le caratteristiche linee della pelle, tramutate adesso in orribili grinze profonde e legnose. Pareva che una forma di vita aliena avesse colonizzato e imputridito quella minuscola zona del mio corpo. Mi era parsa una faccenda scandalosa e sconveniente. Avevo raccolto dal tavolino da notte la boccetta di acido salicilico e con una certa rabbia vendicativa ve ne avevo applicato sopra uno strato più cospicuo del solito. Avevo sentito un discreto bruciore, che si era prolungato fin quasi a diventare insostenibile; eppure l’idea che quel bruciore fosse il primo doloroso segno della possibile vittoria contro l’odioso e disgustoso colonizzatore mi aveva fatto affrontare la sofferenza con grande tenacia. Mi ero dunque domandato in che luogo un essere tanto sgradevole potesse aver vinto la mia proverbiale attenzione all’igiene. Doveva essere stato senz’altro in quell’orrenda piscina in cui il dottor F. mi aveva consigliato di andare per fare esercizio fisico. Comprare quella grande cuffia e quella tuta intera da bagno e quegli scarpini di gomma non era servito a niente. D’un tratto mi ero sentito violato e sporco e avevo immaginato tutte le persone che avevano orinato di nascosto in quella piscina senza essere viste, tutte le invisibili scaglie di psoriasi che vi nuotavano dentro, tutti i residui di infezioni e secrezioni resistenti a qualunque miscela di cloro. Non avevo potuto fare altro che applicarmi di fretta il cerotto sul piede e correre sotto la doccia per lavarmi di nuovo a fondo con tre saponi diversi e una buona brusca. Avevo poi chiamato Maria e mi ero fatto portare una tisana alla melissa.
Adesso la protuberanza si era vistosamente ridotta e il colore più tenue mostrava i segni di una probabile imminente vittoria. Mi sentivo molto fiero. Il bisturi però si era senza dubbio slamato.
La mattina successiva, dopo aver fatto colazione e letto i giornali, dissi a Riccardo di portarmi in una buona farmacia. Una graziosa farmacista bionda, dopo avermi invitato a prendere un numerino da un distributore rosso accanto all’ingresso e aver servito altre tre persone, tra cui un anziano magro individuo che pareva piuttosto spaesato, mi chiese con un gran sorriso che cosa desiderassi. Cavai dalla tasca interna del soprabito il bisturi e lo poggiai al centro dello spazio libero del banco, su un orrendo tappetino giallo con sopra la foto di un insopportabile giovane, sorridente e abbronzato.
«Questo, grazie.»
La farmacista abbassò gli occhi sul bisturi verdognolo, lo raccolse, lo avvicinò per vederlo meglio e cavò la protezione.
«Mmm» prese a dire nascondendo il labbro superiore sotto quello inferiore. «Vedo se mi è rimasto.»
La farmacista sparì dietro una porta alle sue spalle. Un suo collega, alla mia destra, stava servendo una signora molto piccola e molto rotonda, con in testa un buffo cappello arancione. La signora chiedeva consiglio per dei fastidiosi pruriti e il farmacista, per quanto tentasse di essere professionale, non riusciva a trattenere delle brevi occhiate a noi altri clienti, che tradivano un sottile ma profondo imbarazzo.
Riapparve la mia farmacista con in mano il bisturi.
«Purtroppo li ho terminati. Se desidera ho però i manici universali e le varie lame. Di quelle ho tutte le misure.»
Le parole “varie lame” e “misure” presero a sbatacchiarmi in testa producendo un suono particolarmente gradevole.
«Non credo di seguirla.»
La farmacista mi fissò un attimo senza dire niente.
«Di questi» disse poi alzando bene il bisturi davanti ai miei occhi, «non ne abbiamo più. Abbiamo però» continuò lentamente, scandendo bene le parole e senza smettere di fissarmi «dei manici universali, più o meno come la parte verde di questo qui, ma di metallo, a cui si possono applicare le lame delle varie misure.»
Guardai la farmacista molto intensamente. Il suono nella mia testa si stava trasformando nell’accenno di una sinfonia.
«Misure?»
«Sì, misure.»
«Che intende per “misure”?»
Non potevo fare a meno di sentir sopraggiungere la lenta cadenza di un lontano assolo di violino. A giudicare dall’espressione della farmacista, lei sentiva solo il sopraggiungere di un accesso di fastidio.
«Glieli mostro, che faccio prima.»
La farmacista si voltò di nuovo e risparì dietro la porta. Ricomparve poco dopo con un libro in mano, che appoggiò sul banco e prese a scartabellare. Dopo qualche secondo, con un innegabile moto di stizza, andò in fondo al libro, scorse l’indice e tornò alla pagina giusta.
«Ecco, vede? Questo è il manico, a cui può applicare ognuna di queste lame.»
Sulla pagina patinata di un catalogo dalla cornice bordeaux erano montate le immagini di un bisturi di metallo, leggermente inclinato rispetto all’asse longitudinale del foglio, e quelle più piccole di un manico e una serie di lame di diverse forme e dimensioni. Erano fotografate perfettamente in asse e parallele, dall’alto verso il basso. Sei lame, ognuna con un piccolo numero a fianco, dal numero 10 al numero 15c. C’era la classica lama da bisturi che avevo sempre visto rappresentata in film e fotografie, la numero 10; una lama dritta e rastremata verso la punta tipo taglierino, la numero 11; due splendide lame ricurve, una leggermente più lunga e pronunciata dell’altra, la numero 12 e 12b; una apparentemente della stessa forma e misura di quella in mio possesso, la numero 15, e infine la 15c, di misura simile alla mia ma forse appena più stretta e con quella che sembrava una seconda piccola lama sul dorso.
Restai qualche secondo a guardare tutto quel bendiddio, immaginandomi gloriose incisioni e dissezioni.
«Che devo fare?» dissi titubante rialzando gli occhi. La farmacista mi squadrava con aria incuriosita.
«Mi scusi?»
«Non so bene cosa devo fare.»
«Le interessano?» domandò ancora la farmacista.
«Sì» mi affrettai a dire, ancora leggermente scosso. «Mi interessano parecchio.»
«Quali?»
«Tutte.»
«Tutte?»
«Sì, tutte. Quante ce ne sono per confezione?»
«Vengono in pacchetti da dieci.»
«Molto bene, dunque me ne dia cinque pacchetti per misura. E di manici?»
«Di manici...?»
«Le confezioni.»
«I manici vengono venduti singolarmente.»
«Molto bene. Allora me ne dia per favore uno, due, tre, quattro... sei... faccia dieci.»
La farmacista mi fissò ancora un attimo con aria incuriosita e non poté trattenere un sorriso, poi sparì di nuovo nel retro con il catalogo in mano. Ricomparve un paio di minuti dopo con i manici di metallo in una mano e nell’altra delle scatoline di cartoncino lucido anch’esso bordeaux.
«10, 11, 12...» elencò spostando le scatole rosse da una parte all’altra del tappetino con sopra l’insopportabile individuo abbronzato e sorridente, «12b, 15 e 15c. E due, quattro, sei, otto, dieci manici. Altro?»
«A posto così, grazie.»
La farmacista sorrise di nuovo e si mise alla cassa a fare il conto. Non fu una cifra da poco, ma di rado avevo pensato di aver speso così bene i miei soldi.
Una volta a casa, scappai immediatamente in camera e diedi istruzioni di non disturbarmi per alcun motivo. Appoggiai il sacchetto della farmacia sul tavolo da lavoro e mi voltai a fissare il grande vecchio armadio di legno scuro che da sempre copriva l’intero muro accanto all’entrata. Era dal momento stesso in cui avevo poggiato le membra sul sedile posteriore dell’auto che pensavo agli anfratti di quell’armadio, e al luogo dove poteva nascondersi un lontano e improvvisamente indispensabile oggetto della mia infanzia. Ero convinto di averlo rivisto nel corso degli anni, ma riflettendoci bene non potevo giurare che non fosse semplice suggestione.
Pensai che potesse essere in uno degli scatoloni in cima all’armadio, dove via via col passare del tempo avevo fatto sistemare parecchie mie chincaglierie. Chiamai Maria e dissi di farmi portare una scala. Quando Riccardo si presentò alla porta mi domandò se avessi bisogno di una mano, ma dissi che non c’era bisogno, e appena tirata la scala in camera richiusi la porta.
Dentro le scatole in cima all’armadio c’erano vecchi balocchi di latta, inviti di prime comunioni, coltelli spuntati, rulli di film, calcolatori meccanici, orologi, penne sporche, brandelli di stoffa, lettere, occhiali da sole rotti, batterie ossidate, radioline, torce, guanti spaiati... Ma di lui nessuna traccia.
Frugai in ogni angolo dell’armadio: dietro i vestiti ormai smessi, dentro e in mezzo alle vecchie scarpe, sotto i calzini bucati e i fogli e le fotografie. Stavo già disperando, quando improvvisamente mi parve di scorgerlo nell’angolo del secondo cassetto all’estrema destra dell’armadio, pieno anch’esso di vecchie cianfrusaglie e dei prodotti con cui un tempo mi ero convinto di voler stampare le fotografie, prima di scoprire che l’unica cosa che mi eccitava era il lento comparire dell’immagine e comprarmi dunque una Polaroid. Se ne stava lì, nell’angolo, di taglio, incastrato dietro una bottiglia opaca di fissante: quell’astuccio di pelle che a undici anni mio padre mi aveva regalato per Natale. Ricordavo con grande esattezza il senso di frustrata rassegnazione con cui anche quell’anno mi ero trovato a dire «Grazie, babbo, è molto bello». Per l’ennesima volta mi ero intestardito a voler fare per Natale una precisa richiesta: quell’anno era stato un microscopio. Due anni prima era stato il piccolo chimico, l’anno precedente un complesso girarrosto e un mappamondo, con cui volevo costruire un sistema planetario semovente, e il successivo un telescopio da camera. Ne avevo ricevuto un prezioso coltello a serramanico, un paio di sci con cui in appena due ore avrei reso evidente a tutti che ero ben lontano da qualunque genere di ideale atletico, e infine, al posto del telescopio, un pesante fucile ad aria compressa. «Il tuo primo fucile» aveva detto il babbo mentre lo scartavo, dopo essermi per un attimo illuso che quella lunga scatola potesse davvero nascondere ciò che avevo richiesto. Mentre quella volta osservavo nelle mie mani l’astuccio di pelle nera, pur già rimpiangendo il microscopio che avevo chiesto, mi ero per un attimo detto che forse all’interno si trovava comunque qualcosa in grado di interessarmi. Avevo schiacciato la piccola apertura a scatto e mentre speravo di vedere, che ne so, delle penne e delle matite e delle squadrette con cui se non altro potermi dedicare a qualche disegno geometrico, era apparsa una serie di piccoli cacciavite e chiavi regolabili e brugole.
«La tua prima cassetta degli attrezzi» aveva detto il babbo con malcelata soddisfazione.
Adesso, mentre seduto al tavolo sfilavo dai piccoli elastici i vari attrezzi e vi inserivo dentro i bisturi e due o tre esemplari di ogni lama, ripensando a quel profondo, infantile scoraggiamento, fui colto a sorprendermi di quanto, nella prospettiva del tempo, insormontabili differenze non si trasformino in ridicole sfumature, banali giochi d’ombra di una luce spostata appena di qualche scheggia di grado. D’un tratto mio padre sembrava poter non essere quel misterioso individuo che ogni anno mi regalava stupidi oggetti di cui non avrei saputo che fare, ma un signore abbastanza saggio da sapere che l’unica cosa che davvero lega due uomini è il groviglio di meccanismi e strumenti con cui si mettono in relazione con il mondo che li circonda. Nella mia puerile ingenuità avevo dato per scontato che fosse il contenuto che contava, senza accorgermi che invece era l’involucro. Improvvisamente, davanti all’astuccio aperto sul tavolo e ai sei bisturi inseriti dentro a brillare sotto la lampada da lavoro, era evidente che, con quasi trent’anni di anticipo, il babbo mi aveva davvero regalato la mia prima cassetta degli attrezzi.