Qualche definizione, dal dizionario della lingua italiana degli esimii professori Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli.

Omicidio, s. m. (pl. –di): la soppressione di una o più vite umane, dal punto di vista morale o giuridico.

Corpo, s. m.: 1. Quantità di materia limitata da una superficie e definita da una o più proprietà che le conferiscono una individualità.

Era questo, pare, il luogo del contendere: dove fosse finito il corpo. Dopo la perquisizione e la traduzione in centrale, e anche dopo molte discussioni tra il sostituto procuratore e il mio avvocato, un cordiale giudice aveva acconsentito a non condurmi in carcere. Ne fui molto grato. Mi guardò negli occhi e mi informò che ero in stato di fermo domestico e mi chiese se ne capivo il significato. Mi consultai un istante con l’avvocato V. e risposi affermativamente.

A casa, Maria e Riccardo mi salutarono con più affetto del solito, eppure avevano nello sguardo qualcosa di nuovo e distante. Andai subito nella mia stanza e chiesi di cambiarmi le lenzuola.

«Ma sono fresche di stamani, signore» disse Maria.

«Non importa, ne desidero di pulite. Anzi, vada per favore con Riccardo a comprarne di nuove, almeno una decina di cambi, e getti via tutte quelle che abbiamo.»

«Come desidera, signore.»

Vennero a trovarmi a casa diversi medici. Mi fecero un sacco di domande sul mio passato e sul mondo e mi mostravano delle macchie su dei pezzi di carta come si vedeva nei film e in un paio di occasioni mi fecero pure fare dei ridicoli giochi di associazione con pezzi di legno e disegni geometrici. Sembravano sempre molto soddisfatti. Uno aveva una strana pettinatura tutta scombinata e una moltitudine di spessi capelli grigi. Non avevo mai visto nessuno con così tanti capelli. Mi domandai se quei capelli nascondessero qualche segreto e gliene chiesi uno. La mia richiesta parve sorprenderlo: mi interrogò a questo proposito per diversi minuti. All’inizio le sue domande mi incuriosirono, poi presi a trovarle ridicole.

«Dottore, non si preoccupi: se le dispiace darmi un suo capello basta dirlo, non serve tirarla tanto per le lunghe.»

Lui mi guardò di nuovo sorpreso.

«No, no, nessun problema, faccia pure.»

Pensavo che se lo sarebbe strappato lui, invece allungò la testa verso di me invitandomi a prenderlo con le mie mani. Non ero convinto di essere entusiasta di quella soluzione. Avrei desiderato dei guanti sterili ma in giro non ce n’erano. Infine mi risolsi, allungai una mano e strappai un capello dalla testa del dottore. Oppose non poca resistenza.

L’avvocato mi spiegò che avrei dovuto continuare per un po’ a incontrare il medico con i folti e molto resistenti capelli. Al microscopio, che andai a riesumare dall’armadio, a un ingrandimento di cinquanta volte, il capello pareva molto ruvido ma tutto sommato uniforme.

Ci incontravamo in un suo studio, poco fuori dal centro. Era una stanza piuttosto grande e bruttina. Alle pareti erano appese stampe di poco valore rappresentanti panorami di campagna, e mi faceva sedere su una poltrona di pelle malmessa. Affettava grande giovialità, ma non mi convinceva del tutto. Era molto interessato a sapere se capivo i motivi per cui ero in stato di fermo.

«Certo, dottore.»

«Me lo saprebbe spiegare?»

«Sono indagato per omicidio.»

«E capisce cosa questo significhi?»

«Ma certo.»

«Me lo saprebbe dire?»

«Preferirei usare la definizione degli esimi professori Devoto e Oli, mi pare come sempre calzante: “La soppressione di una o più vite umane, dal punto di vista morale o giuridico”.»

Il dottore annuì.

«E lei ritiene di aver ucciso la signorina T.?»

«Non direi.»

«Perché dice “non direi”?»

«Non vedo in che modo le avrei potuto sopprimere la vita.»

Il dottore in questi casi mi fissava sempre qualche secondo.

«Capisco» diceva.

Era molto interessato anche a discutere con me questioni filosofiche, ma i suoi contributi alla conversazione mi parevano perlopiù di scarsa efficacia. Mi faceva molte domande sul concetto di corpo, e di esistenza, ed era interessato a capire in che relazione fossero queste mie riflessioni con i miei intagli. Mi interrogava anche molto sui miei genitori. Mi fece ricordare che il babbo, quando camminavano, teneva sempre la mamma a braccetto e si afferrava la punta dell’indice. Mi chiese come avevo preso la loro morte.

«Come l’ho presa?»

«Sì.»

«In che senso, mi scusi?»

«Che sentimenti le ha provocato.»

Era forse la domanda più precisa che il medico mi avesse mai fatto.

«Mancanza» risposi.

«E cosa faceva?»

«Non ricordo bene. Pare che stessi molto a letto.»

«Ci pensa spesso?»

«A cosa?»

«A quel periodo.»

«Sì.»

«In che modo?»

«Quel periodo di posture sbagliate mi provoca tutt’ora accessi di mal di schiena.»

Il dottore mi fissò nuovamente.

«Capisco» aveva ripetuto.

Dopo un paio di incontri il dottore mi chiese di vederci in un suo secondo studio. Era meno vicino al centro, ma tutto sommato più fresco e grazioso, più luminoso. La cosa tuttavia mi parve molto sconveniente e mi insospettì. Non avevo alcuna voglia, quel giorno, di parlare con il dottore e le sue domande avevano un’aria sinistra. Era parecchio interessato a questa mia improvvisa reticenza. Mi domandò dell’altro studio ed era incuriosito dal fatto che ne ricordassi tanti dettagli.

Ritornammo poi al suo studio originario, e un giorno mi disse che non ci saremmo più dovuti vedere, se io non lo desideravo, e mi augurò buona fortuna.

Iniziò dunque il processo. In un primo momento pensai che fosse educato presentarmi alle udienze. L’aula era molto spaziosa e piena di legno. Da una parte c’erano pure delle celle. Sentivano testimoni, dibattevano, e all’inizio lo trovai divertente. Il giudice era un tipo buffo. Era sempre molto sgarrupato, e ossessionato dal tempo. Diceva continuamente di non perderne. Appallottolava anche continuamente dei pezzetti di carta e di tanto in tanto mi gettava delle lunghe occhiate, ma come sovrappensiero. Sentirono anche me e i medici che mi avevano visitato e interrogato. Uno di loro usò parole molto complesse e parlò della morte dei miei genitori e citava di continuo una scatola in cui mi sarei rinchiuso per difendermi dal mondo. Era una teoria molto affascinante e l’immagine di me chiuso in una scatola con un elmetto militare in testa mi fece scappare una risata. Mi era pure capitato durante una delle udienze, proprio mentre veniva ascoltato il dottore. Il giudice interruppe l’udienza e mi domandò cosa avessi da ridere. Quando glielo raccontai, anche lui si mise a ridere, poi si fece di nuovo serio e disse di andare avanti, che non c’era tempo da perdere.

D’un tratto mi stancai di andare alle udienze. Continuavano a soffermarsi su questioni prive di alcun interesse. Tutto sembrava ruotare, appunto, intorno al corpo. Sostenevano che il corpo non risultasse. L’espressione mi pareva eccezionale. Che altro volevano, per dare individualità a quella porzione di superficie? L’avvocato V. sosteneva che senza corpo non c’era omicidio, il pubblico ministero che anche senza corpo le prove erano più che sufficienti per dimostrare la mia colpevolezza. Trovavo tutto molto noioso. Chiesi dunque il permesso al giudice di poter restare a casa e lui me l’accordò.

Venni richiamato solo una volta. Il giudice, più cortese del solito, si scusò per avermi convocato nuovamente lì in aula e mi chiese se fossi in grado di riprodurre ciò che avevo fatto con la signorina T.

«Mi perdoni, non capisco cosa intende» risposi.

«La sera di ciò che lei definisce una “incisione”, signor P.»

«Sì, mi dica.»

«È in grado di ripetere ciò che ha fatto?»

«Ma l’ho già ripetuto più volte.»

«Mi perdoni: non a voce, intendevo. Concretamente.»

«E come?»

«Non so, me lo dica lei.»

«Mi sta chiedendo di incidere qualcosa?»

«Sì, esatto.»

«Ma dove?»

«Qui, davanti a noi.»

«Certamente, ma non ho i miei strumenti.»

«Li abbiamo qui per lei» disse il giudice mostrando un tavolino sulla destra su cui erano stati posati dei bisturi e qualche paio di guanti.»

«Certamente, signor giudice. Cosa desidera che incida?»

Lui parve sorpreso. Un brusio attraversò le poche persone presenti in aula.

«Non saprei, signor P. Ciò che vuole, immagino» disse il giudice titubante.

Mi guardai intorno. Sul tavolo del pubblico ministero era posata una bella penna stilografica.

«Quella sarebbe interessante da incidere» dissi.

Tutti osservarono il tavolo del pubblico ministero. Qualcuno da dietro si alzò e cercò di scorgere meglio facendo grattare la sedia sul pavimento.

«La penna?» domandò il giudice.

«Sì, la penna.»

Il giudice si rivolse quindi al pubblico ministero.

«Le dispiace?»

Il pubblico ministero incastrò la testa nelle spalle e allargò leggermente le braccia.

«Vabbè» disse. Non pareva molto contento.

Mi avvicinai al tavolo, raccolsi la penna e ringraziai il pubblico ministero.

«Posso lavorare su quel tavolino?»

«Prego» mi disse il giudice indicando il tavolino su cui erano posati i bisturi e i guanti. Sembrava avere un’aria molto divertita.

Mi avvicinai al tavolino, posai la penna sul piano e calzai un paio di guanti. Non ero convinto che servissero, ma non volevo essere scortese con chi li aveva procurati e in ogni caso mi divertiva ripetere tutto da capo. Chiesi se potevano portarmi una sedia e me ne fu avvicinata una da ufficio, di cui riuscii a regolare bene l’altezza. Avrei gradito molto una luce da tavolo, ma tutto sommato si vedeva piuttosto bene. Erano ormai diversi mesi che non incidevo più niente e per un attimo ne sentii la mancanza. Sistemai la penna in una posizione che mi aggradasse, di sbieco, raccolsi il bisturi con la lama stretta, la numero 15, la stessa che avevo usato per combattere la verruca, e la affondai in prossimità del bordo della penna. Il lavoro fu rapido e semplice e dopo appena un paio di minuti appoggiai l’intaglio sul piano. Improvvisamente, la penna non stava bene sul finto legno della formica. Mi voltai e chiesi se qualcuno aveva un foglio di carta bianco, o tutt’al più color panna. Un addetto me ne allungò uno bianco. Lo adagiai sul piano e ci posai sopra l’intaglio della penna.

«Ecco qui» dissi infine, voltandomi e alzandomi e togliendomi con uno schiocco i guanti.

Il giudice e il pubblico ministero e l’avvocato e gli assistenti e i cancellieri e le segretarie si avvicinarono tutti al tavolino. Si piegarono in avanti uno sull’altro.

«Bello» disse qualcuno.

«Sì, affascinante.»

«E quella traccia nera sul tavolo che cos’è?»

«Non saprei» dissi. «Ciò che c’è dietro, credo.»

«Interessante» disse qualcun altro.

Poi restarono tutti in silenzio per diversi minuti, con gli occhi presi da quella fessura nera e sfrigolante sulla superficie del tavolo. Quando si ripresero, molti scossero la testa e si passarono le mani sugli occhi. Il giudice tornò al suo posto. Pareva un po’ stordito e perplesso. Anche il pubblico ministero e l’avvocato V. impiegarono qualche altro istante a riprendere un filo logico e dire qualcosa che avesse senso compiuto. Sospiravano molto e si guardavano l’un l’altro e producevano solo parole come “bah”, o “certo”, o “sì”. Infine, il giudice parve ritrovare lucidità, mi ringraziò e mi disse che se volevo potevo andare.

Ringraziai a mia volta, strinsi la mano all’avvocato e al pubblico ministero e mi avviai verso il fondo della sala.