VIII

 

Essendo inclini a comportarsi sregolatamente, come la maggior parte delle razze, gli ikranankani avevano bisogno di prigioni. Quella di Haijakata era costituita da una capanna a un solo vano, che sorgeva vicino alla piazza del mercato. All'interno, una fitta grata di robusti steli legati proteggeva le pareti perimetrali, intessute, dalle violenze di qualsiasi occupante. Se un prigioniero voleva luce, poteva scostare la tenda, alla porta; ma la porta stessa, col suo traliccio di robuste sbarre di legno, sarebbe rimasta chiusa. Il mobilio era costituito soltanto da un pagliericcio e da alcuni utensili di argilla. Chee ne aveva rotto uno, cercando di segare le sbarre con le schegge, ma queste le si erano sbriciolate tra le mani, dimostrando che i suoi catturatori erano forse pazzi, ma non stupidi..

Il clicchettio e un tintinnio la strapparono bruscamente da un piacevole fantasticare. La porta si aprì, scricchiolando, la tenda fu scostata lasciando entrare una lama di luce purpurea, e gli occhiali di Gujgengi scintillarono nella penombra. — Stavo proprio pensando a te, — disse Chee.

— Oh, davvero? — Il mandarino parve lusingato. — Posso chiedere a che proposito?

— Oh, qualcosa di comico, ma che durava a lungo, con olio bollente o piombo fuso. Che cosa vuoi?

— Io... uk-k-k... posso entrare? — Scostò ancora di più la tenda. Chee, dietro la sua figura ammantata, vide un paio di guardie armate e pronte, e più oltre alcuni civili che stavano mercanteggiando sui prezzi davanti alle baracche del mercato. La quarantena aveva ridotto al minimo il commercio. — Voglio accertarmi che tu sia trattata in modo soddisfacente.

— Be', almeno qui non piove dentro.

— Ma ti ho detto che la pioggia è sconosciuta a occidente di Sundhadarta.

— Appunto. — Chee lanciò un'occhiata piena di desiderio alla sciabola che pendeva dal fianco di Gujgengi. Sarebbe riuscita ad attirarlo dentro da sola e a strappargli quella...? No. Gli sarebbe bastato respingere il primo attacco e urlare. — E perché non posso avere le mie sigarette? Cioè, quei pìccoli tubi di fuoco che mi hai visto mettere in bocca?

— Sono dentro la tua nave, nobilissima, e pur non risentendosi per il fatto di essere sorvegliata, essa si rifiuta di aprirci la porta. Gliel'ho chiesto molte volte.

— Portami laggiù, e le darò io l'ordine.

Gujgengi scosse la testa. — No, mi dispiace. Questo coinvolge troppi poteri sconosciuti che potresti scatenare. Quando il presente... ak-krrr... deplorevole equivoco sarà chiarito, sì, allora sì, nobilissima. Ho inviato dei corrieri in gran fretta a Katandara, e fra non molto dovremmo ricevere notizie. — Convinto che l'avrebbe comunque invitato ad entrare, valicò la soglia. I soldati chiusero dietro di lui il grossolano lucchetto.

— Nel frattempo il povero Adzel arriva e si fa ammazzare dalle vostre teste bollenti, — esclamò Chee. — Tira quella tenda, imbecille. Non voglio che quei bifolchi mi guardino a bocca spalancata. Gujgengi obbedì. — Adesso ci si vede appena, — si lamentò.

— E forse colpa mia? Siediti. Sì, su quel letto, chiamiamolo così. Vuoi qualcosa da bere? Me ne hanno dato un vaso pieno.

Ek-k-k... Non dovrei.

— Suvvia, — l'incitò Chee. — Almeno, fin quando berremo insieme non saremo nemici mortali. — Gliene versò un po' in una tazza d'argilla.

Gujgengi ingollò la dose, e ne accettò un'altra. — Tu... non stai bevendo, — disse, nel maldestro tentativo di fare dell'umorismo. — Stai forse cercando di ubriacarmi?

Be', pensò Chee con un sospiro, valeva la pena tentare.

Per un attimo s'irrigidì. Poi la scossa passò, il cervello ronzò in ripresa, lei si rilassò e commentò: — Non mi resta altra alternativa, no? — Prese la sua coppa e trangugiò il liquido. Gujgengi non potè vedere le sue smorfie. Puah!

— Ci giudicate male, sai? — lei disse. — Noi abbiamo soltanto le più amichevoli intenzioni nei vostri confronti. Tuttavia, se il mio compagno dovesse restare ucciso, quando arriverà qui, dovrete aspettarvi una vendetta.

Err-ek, non sarà ucciso se non diventerà violento. Contrastando i desideri del comandante Lalnakh, ho appostato degli urlatori che gli grideranno l'avvertimento di tenersi lontano. Confido che sia un tipo giudizioso.

— E poi, che cosa hai in mente di fare, con lui? Dovrà pur mangiare. — Gujgengi trasalì. — Suvvia, bevine ancora un po', — l'in vitò Chee.

— Noi, ak-krrr, possiamo cercare di trovare un accomodamento Tutto dipende dal messaggio che riceverò dalla capitale.

— Ma se Adzel è diretto da questa parte, arriverà molto prima I del messaggio. Suvvia, bevi, e io ti riempirò ancora la tazza.

— No, no, davvero. Questo è più che sufficiente per un anziano come me.

— Non mi piace bere da sola, — lo punzecchiò Chee.

— Non ne hai bevuto molto, — le fece notare Gujgengi.

— Sono più piccola di te. — Chee vuotò la coppa, quindi si versò dell'altra bevanda. — Anche se rimarresti sbalordito davanti alla mia capacità, — aggiunse.

Gujgengi si protese in avanti. — D'accordo. Come prova del mio grande desiderio di amicizia, mi unirò a te. — Chee lesse i suoi pensieri come in un libro aperto: Falla ubriacare e ti rivelerà qualcosa. Lei lo incoraggiò con un leggero singhiozzo. Gujgengi mantenne al minimo le sue sorsate, mentre lei tracannava a ritmo sempre crescente. Nondimeno, un'ora dopo, cominciò a parlare con voce impastata.

Lui, al contrario di Chee, restò lucido. Cercò abilmente d'intrappolarla facendole ammettere che era stato Falkayn a ordire tutto l'intrigo di Katandara. Quando i dinieghi di Chee rivelarono una furia crescente, egli abbandonò l'argomento. — Discutiamo di qualcos'altro, — disse. — Le tue doti personali, ad esempio.

— S...sono ca...capace quannnto teee, — disse Chee.

— Sì, sì, naturalmente.

— Anche ddippiùuuu.

— Be', me l'hai dimostrato.

— E anche più graziosa...

Uk-k-k, i gusti variano, sai, i gusti variano. Ma devo ammettere che hai un intrinseco...

— Così, non sarei bella, uh? — I baffi di Chee cominciarono a vibrare.

— Al contrario, nobilissima. Ma ti prego...

— So anche cantare meravigliosamente. Aaascoltaaa... — Chee si alzò in piedi, sempre stringendo in mano la coppa, e cominciò a vacillare su e giù facendo ondeggiare la coda e miagolando. Gujgengi ripiegò le orecchie.

Ching, chang, guli, guli, passa, ching, chang, guli, guli bum.

— Estremamente melodioso! Bellissimo. Temo proprio di dover andare. — Gujgengi accennò ad alzarsi dal pagliericcio.

— Non and...dar via, vec...chio amie...o, — l'implorò Chee. — Non lasciarmi sooola.

— Tornerò, io...

— Ooòps! — Chee barcollando andò a sbattergli addosso. La sua coppa si scontrò con gli occhiali di lui, facendoli cadere. Chee cercò di afferrarli e ci fini sopra con la coppa. Si udì un rumore di vetro infranto.

— Aiuto! — gridò Gujgengi. — I miei occhiali!

— Mooolto sc-piacente, mooolto sc-piacente. — Chee cercò i pezzi per terra, a tastoni.

Le guardie si precipitarono dentro, affannate. Chee si ritrasse. Gujgengi ammiccò alla luce improvvisa. — Che cosa succede, nobilissimo? — chiese un soldato, con la spada sguainata.

— Un pic-colooo inc.. xidenteee, — farfugliò Chee. — Molto se-piacente. Ti metto a posto iiio.

— Stai indietro! — La sciabola puntò nella sua direzione. L'altra guardia si curvò e raccolse i frammenti.

— E stato indubbiamente involontario, — disse Gujgengi, tracciando scongiuri contro i demoni. — Penso che sarebbe bene ti facessi un sonnellino.

— Ti metterò a poss-to io. Noi abbiamo dottori che ti metteranno a poss-to gli occhi, e non avrrrrai più bisogno di occhiali. — Chee fu sorpresa dalla propria sincerità. L'inviato imperiale non era poi così cattivo, e senza dubbio avrebbe incontrato delle difficoltà infernali a procurarsene un altro paio. L'optometria katandarana doveva ancora trovarsi al rozzo stadio del «taglia e prova».

— Ne ho un altro paio, — annunciò Gujgengi. — Conducetemi nella mia residenza. — Salutò Chee e uscì fuori strascicando i piedi. Lei si acciambellò sul pagliericcio e chiuse gli occhi.

— Troooppa luce, — si lamentò. — T-tirate queeeella t-tenda. Obbedirono, prima di chiudere un'altra volta la porta. Chee aspettò alcuni minuti prima di agire, continuando realisticamente a russare.

La bevanda le aveva sconvolto lo stomaco, ma non aveva intaccato la sua mente. L'alcool etilico è un prodotto normale del metabolismo cynthiano. E... senza farsi vedere, in quella che per i deboli occhi di Gujgengi era una fitta penombra, era riuscita a trafugare due grossi frammenti di vetro, facendoli scivolare sotto il giaciglio.

Lacerò il pagliericcio con i denti, per farne degli stracci con cui proteggere le mani, e si mise all'opera all'estremità opposta della capanna.

Il vetro non era molto duro. Man mano gli orli si consumavano, segavano con efficienza sempre minore i legacci della grata protettiva. Li riaffilò scheggiandoli, sfruttando le superfici di sfaldatura: l'accademia della Lega fornisce un'ampia esperienza pratica; ma i frammenti, in tal modo, diventarono sempre più piccoli e difficili da maneggiare. — Inferno e dannazione! — urlò, quando uno di essi si sbriciolò completamente.

— Che cosa succede? — chiamò una voce da fuori.

Z-zzz, ronfò Chee.

Un essere umano avrebbe sudato freddo per tutta quella lentissima ora, ma lei aveva filosoficamente accettato la possibilità di fallire. Inoltre, a lei serviva praticare un foro molto più piccolo di quello che sarebbe stato necessario per un uomo. Cionondimeno riuscì a finire il lavoro un attimo prima che i suoi utensili diventassero del tutto inutili a causa del logorio.

Ora... arcua la tua spina dorsale, scarica nelle tue braccia e nelle tue gambe tutta la forza che hanno acquistato saltando da un ramo all'altro nelle foreste di casa... uhg! Le canne s'incurvarono, lei vi sgusciò attraverso, le canne ripresero la loro posizione con un colpo secco e Chee si trovò schiacciata contro la parete esterna. Il fine intreccio era ruvido contro il suo naso. Ansando e rabbrividendo in quella gelida oscurità, attaccò il tessuto coi denti e le unghie. A una a una le fibre cedettero.

Presto, prima che qualcuno se ne accorga!

Comparve una lacerazione, la luce rossigna del sole e una parete intrecciata senza finestre sul lato opposto di un viottolo deserto. Chee uscì divincolandosi e si allontanò di corsa.

Poteva darsi che le porte della città fossero severamente sorvegliate, oppure no. Ma in entrambi i casi la distanza era troppa, e prima di aver raggiunto le mura si sarebbe tirata dietro mezza città.

Qualcuno l'avrebbe intercettata; oppure un arco avrebbe lanciato un dardo. Chee girò come un lampo intorno alla prigione e raggiunse la piazza.

Un nativo strillò. Una moglie intenta a vendere cibarie si acquattò dietro alle mercanzie. Un fabbro cacciò fuori la testa dalla bottega, col martello in pugno. Le guardie si lanciarono al suo inseguimento. Davanti a lei c'era un chiosco, proprio al centro della piazza. Chee balzò dentro l'ingresso. Dei gradini rozzamente intagliati scendevano a chiocciola verso le viscere della collina. Una ventata d'aria umida la investi. L'ingresso scomparve alle sue spalle, e Chee si trovò in una galleria scavata nel terriccio e nella roccia, illuminata a rari intervalli da lampade sistemate in nicchie. Chee si fermò a pizzicare gli stoppini delle prime due. Anche se poi fu costretta a rallentare, andando a tentoni fino a quando non raggiunse il successivo punto illuminato, gli ikranankani furono costretti a perdere tempo. Le loro grida giunsero fino a lei, aspre e distorte dagli echi. Non osando affrontare l'ignoto al buio, furono costretti a tornare indietro a prendere delle torce.

Intanto, Chee raggiunse l'uscita alla base della collina. Un breve corridoio di pietra conduceva a una cavità con in mezzo un pozzo. Una femmina lasciò andare l'impugnatura del verricello e saltò con un urlo sullo spiovente. Chee la ignorò. Laggiù, quando la città non si trovava a dover affrontare minacce immediate, l'uscita era spalancata e sguarnita. Lei l'aveva notato un giorno quando Gujgengi l'aveva accompagnata, insieme ai suoi compagni, in un ampio giro turistico intorno alla città. Chee balzò fuori, dunque, e si lanciò di corsa sulla distesa sabbiosa, tra gli sterpi.

Lanciò una rapida occhiata alle spalle e vide che alle porte di Haijakata c'era molta animazione. Intravide anche il muso del Muddlin' Through che svettava scintillante nel cielo. Per un attimo rifletté se dovesse tentare di penetrare dentro lo scafo. Una volta a bordo sarebbe stata invincibile. Avrebbe potuto anche gridare a gran voce un ordine alla nave e questa si sarebbe alzata in volo e sarebbe venuta a prenderla...

No. Lance e scudi circondavano lo scafo. E minacciose alabarde erano acquattate tutto intorno. Non sarebbe mai riuscita ad arrivare a portata di «orecchio» senza farsi vedere, né avrebbe terminato una frase completa come segnale senza che una freccia la trafiggesse. E il Confusionario non era stato programmato per agire senza ordini diretti, indipendentemente da ciò che potevano osservare i suoi rivelatori.

Oh, be', Adzel avrebbe sistemato la cosa. Chee si mise in cammino. Non molto tempo dopo avanzava parallelamente alla strada di Haijakata, tenendosi nascosta tra la folta vegetazione dei campi coltivati. Aveva abbondantemente staccato tutti i suoi inseguitori.

L'aria era asciutta come la polvere di una mummia, una polvere di mummia molto sottile, e a ogni minuto che passava sentiva aumentarle la sete. Riuscì a ignorare la maggior parte di questi sintomi, concentrandosi su quale fosse il modo migliore di confutare un lungo articolo che aveva letto sulla «Rivista d'immunobiologia», prima di lasciare la Terra. L'autore, ovviamente, aveva carne tritata al posto del cervello, e uova fritte invece degli occhi.

Anche così, alla fine sentì che avrebbe dovuto bere e riposarsi un po'. Attraversò obliquamente i campi verso un ciuffo di canne che indicava la presenza di una sorgente. Giunta nelle vicinanze, avanzò strisciando con mille cautele, ombra fra le ombre, fino a quando, nascosta fra le canne, non ebbe modo di scrutare il cascinale che sorgeva nel folto.

Li c'era Adzel. Era ritto in tutta la sua altezza e stringeva un animale grosso come un porcello, prelevato da un recinto dov'erano rinchiuse molte altre bestie dello stesso tipo. L'animale squittiva tra le sue braccia, e Adzel stava dicendo, in tono lamentoso, rivolto alla costruzione, le cui porte e finestre erano state sbarrate: — Ma, mio buon amico, lei deve dirmi il suo nome.

— Perché tu possa lanciarmi contro il malocchio? — chiocciò una voce dall'interno.

— No. Te lo prometto. Voglio soltanto darti una ricevuta. O, per lo meno, sapere chi dovrò rimborsare quando potrò. Ho bisogno di cibo, ma non intendo rubarlo.

Si udì il sibilo lamentoso di un dardo uscito da una feritoia. Adzel sospirò: — Se la prendi così...

Chee si fece avanti: — Dov'è l'acqua? — chiese, tossendo.

Adzel sobbalzò: — Tu? Cara amica, per l'universo, che cosa ti è successo?

— Non chiamarmi cara amica, citrullo. Non vedi che sto cadendo in polvere e il vento potrebbe soffiarmi via?

Adzel cercò di rizzare i peli, ma poiché non ne aveva, non ci riuscì. — Potresti usare un linguaggio meno incivile, lì nella tua testa. Non hai idea di quanto sei detestabile. Eccomi qui, ho viaggiato giorno e notte, e tu...

— Che cosa, hai fatto il giro completo del pianeta? — lo canzonò Chee. Adzel si arrese e la portò alla sorgente. L'acqua era scarsa e fangosa ma lei la trangugiò lo stesso, e afferrò, sia pure in parte, l'idea di Falkayn, quando parlava di champagne di annata. Poi si sedette e si strigliò. — Aggiorniamo le nostre notizie? — propose.

Adzel squartò l'animale mentre lei parlava. Non disponeva di nessuno strumento per compiere il lavoro, ma se la cavava ugualmente bene. Alla fine del discorso, egli, con aria sconsolata, disse: — E adesso che cosa possiamo fare?

— Chiamare la nave, naturalmente.

— E come?

Chee notò per la prima volta che anche la sua ricetrasmittente era rotta.

Gujgengi si aggiustò gli occhiali di ricambio sul naso. Non si adattavano alla sua vista bene come gli altri. Vedeva tutto offuscato. Meglio così, pensò. Quella cosa è talmente gigantesca. E così piena di stregonerìe. Sì, viste le attuali circostanze, penso di essere molto soddisfatto di non vederla molto chiaramente.

Deglutì, radunò tutto il suo coraggio, e traballando avanzò di un altro passo. Dietro di lui, i soldati lo osservavano con aria spaventata. Questo lo innervosì alquanto. Ora mi tocca dimostrare che noi deodakh siamo coraggiosi, anzi, temerati, eccetera, eccetera... Non sarebbe mai venuto fin qui, se non fosse stato per Lalnakh. Il comandante si era comportato peggio di un selvaggio del deserto. Si sapeva bene che i tirut non erano uguali a lui e ai suoi (chi mai lo era?); ma almeno si pensava che fossero una fratria civile. Invece Lalnakh aveva sbraitato e si era infuriato a tal punto per la fuga della prigioniera, che... Be', anche da un punto di vista concreto, non avrebbe giovato alla reputazione di Gujgengi. Ma soprattutto per l'onore della stirpe bisognava rispondere alle folli invettive del tirut con altera dignità, offrendosi, per di più, di andare a consultare la casa volante. Il comandante voleva andare con lui? No? Benissimo. Era meglio non dirglielo subito, poiché in tal caso, forse, avrebbe cambiato idea; ma, quando fosse ritornato, avrebbe potuto lasciar cadere due parole qua e là sul fatto che il nobilissimo Lalnakh non aveva osato venire. Sì, era urgente mantenere un'adeguata superiorità morale, anche a rischio della propria vita.

Gujgengi deglutì un'altra volta. — Nobilissima, — chiamò. La sua voce gli risuonò strana alle orecchie.

— Parli con me? — chiese qualcuno con voce piatta, da un punto sopra la sua testa.

Ak-krrr, sì. — Gujgengi aveva già avuto la dimostrazione, prima di questo disgraziato contrattempo, che la casa volante (no, la parola era nav, con qualche impronunciabile vocale alla fine) poteva parlare e pensare. A meno che, naturalmente, gli stranieri non lo avessero ingannato, e non ci fosse qualcuno dentro che rispondeva. Se le cose stavano così, però, quel qualcuno aveva una personalità molto strana, con una volontà propria equivalente, o quasi, a zero.

— Be'? — Chiese Gujgengi, quando il silenzio si prolungò eccessivamente.

— Sto aspettando che tu continui, — disse la nav.

— Vorrei conoscere, nobilissima, le tue intenzioni.

— Non mi è stato ancora detto che intenzioni debbo avere.

— E fino allora non farai niente?

— Immagazzinerò qualunque fatto mi capiterà di osservare, nel caso in cui ce ne sia bisogno più tardi.

Gujgengi respirò di sollievo. Aveva sperato qualcosa del genere. Osò parecchio, e chiese: — Immaginiamo che tu veda uno del tuo equipaggio in difficoltà. Che cosa faresti?

— Quel che mi è stato ordinato di fare, nei limiti delle mie capacità.

— Nient'altro? Voglio dire, non agiresti di tua iniziativa?

— No, senza ordini verbali o in codice. Altrimenti vi sarebbero troppe possibilità di errore.

Sempre più sollevato, Gujgengi provò un'improvvisa bramosia d'indagare. Una persona ha diritto d'avere la propria curiosità intellettuale. E, naturalmente, qualunque cosa avesse appreso, poteva, con tutta probabilità, trovare una sua applicazione pratica.

Se l'ershok nuovo arrivato e i due suoi mostruosi compagni fossero stati uccisi, be', la nav non se ne sarebbe più andata da lì. Gujgengi si rivolse all'ufficiale più vicino: — Fai allontanare tutte le guardie, — gli ordinò. — Devo discure di affari segreti.

Il tirut lo squadrò sospettoso, ma obbedì. Gujgengi si rivolse nuovamente alla nav: — Tu non sei totalmente passiva, — osservò. — Tu mi rispondi, e mi dai anche particolari.

— Sono stata costruita così. E necessaria la facoltà di giudicare secondo logica.

Ak-krrr, non ti... Diciamo, non ti annoi, a star lì?

— Non sono stata costruita per sentire la noia. La mia facoltà razionalizzante è sempre automaticamente attiva, e analizza i dati. Quando non ho disponibili dati freschi, ripasso le implicazioni logiche delle regole del poker.

— Che cosa?

— Il poker è un gioco che si fa a bordo del mio scafo.

— Capisco. Uk-k-k, la tua cortesia nei miei confronti è confortante.

— Sono stata «istruita» a non essere ostile verso il tuo popolo. «Istruita» è la parola più vicina che posso trovare nel vocabolario katandarano. Non sono stata istruita a non rispondere alle domande e alle affermazioni. Di conseguenza posso rispondere.

Un'ondata di eccitazione serpeggiò nelle vene di Gujgengi. — Vuoi dire, se ho ben capito, nobilissima, che tu risponderai a qualunque domanda io ti farò?

— No. Dal momento che sono stata istruita per servire gli interessi del mio equipaggio, e dal momento che le truppe armate intorno a me implicano che esso può essere entrato in conflitto con i vostri interessi, non rilascerò nessuna informazione che possa accrescere la vostra forza.

La sua calma era agghiacciante. E Gujgengi provò disappunto per il fatto che la nav non aveva alcuna intenzione d'insegnargli come si fabbricavano i fulminatori. Tuttavia un abile inquisitore poteva apprendere qualcosa.

— Allora, puoi consigliarmi su questioni innocue?

Il vento sibilò con maggior forza, sollevando turbini di sabbia impalpabile e agitando i cespugli, mentre il «nascosto» ponderava. Finalmente, si riscosse: — Questo è un problema ai limiti della mia capacità di giudicare. Non vedo alcuna ragione di non farlo. Allo stesso tempo, questa spedizione è progettata per accumulare ricchezza. La miglior conclusione che ne posso trarre è che devo farti pagare i miei consigli.

— Ma... ma come?

— Puoi portarmi pellicce, droghe e altre cose di valore, e infilarle dentro quel portello, che certamente vedi davanti a te. Che cosa vuoi che calcoli?

Preso in contropiede, Gujgengi balbettò. Era fin troppo consapevole che gli si presentava la possibilità di realizzare una fortuna, se soltanto fosse riuscito a pensare... Un momento. Ricordò un'osservazione che Chee Lan aveva fatto nella casa di Lalnakh prima del suo arresto. — Noi abbiamo un gioco chiamato akritel, — disse lentamente. — Puoi insegnarmi come vincere?

— Spiegami le regole.

Gujgengi gliele spiegò. — Sì, — rispose la nav, — è semplice. Non c'è alcun modo di vincere sempre senza barare. Ma conoscendo le probabilità di ogni configurazione, puoi riuscirci. Puoi scommettere in base alle probabilità e perciò aumentare alla lunga le vincite, sempre che i tuoi avversari non facciano lo stesso. Ma è evidente che non lo fanno, dato che mi rivolgi la domanda, e dato che il sistema del «passo dell'ubriaco» richiede calcoli alquanto trascendentali. Porta dunque il necessario per scrivere, e io ti detterò le tabelle delle probabilità.

Gujgengi si trattenne dal mostrarsi troppo bramoso. — Che cosa vuoi in cambio di questo, nobilissima?

— Così all'improvviso non saprei. Lasciami soppesare le informazioni che ho, per valutare che cosa l'affare possa sopportare. — La nav ponderò per un bel pezzo, poi elencò quella che a suo giudizio era la giusta quantità di merci di scambio. Gujgengi strillò che un simile contratto lo avrebbe ridotto in miseria. La nav gli fece notare che in tal caso lui poteva rifiutarsi di comperare l'informazione. Da parte sua, non desiderava discutere sul prezzo. Certamente, molti altri non avrebbero trovato eccessiva la tariffa.

Gujgengi cedette. Avrebbe dovuto prendere a prestito una somma per pagare tutta quella roba; tuttavia, col mercato in crisi a causa della quarantena, il costo non sarebbe stato intollerabile. Quando avesse lasciato quel miserabile borgo e fosse ritornato a Katandara dove si scommetteva davvero forte...

— Hai saputo qualcosa, nobilissimo? — gli chiese l'ufficiale, mentre Gujgengi si accingeva a risalire nuovamente la collina.

— Sì, — replicò lui, — un'informazione molto potente.

Dovrò pagare una cifra molto consistente, ma lo farò di tasca mia, nell'interesse dell'Imperatore. Ak-krrr... Assicurati che nessun altro si fermi a parlare con la nav. La magia che ciò implica potrebbe facilmente sfuggire di mano a un non iniziato.

— Lo farò, nobilissimo! — esclamò, rabbrividendo, l'ufficiale.