II

 

Un giovane e robusto fastiga — un po' più grande di un cavallo, naso lungo, orecchie lunghe, una pelliccia piumosa e un penetrante odore di pino — lo salutò al centro del cortile a forma di croce con un barrito. Una cavalcatura di ricambio e un animale da soma erano legati dietro ad esso. Una guardia stringeva le briglie di cuoio; indossava una corazza di cuoio, rinforzata; una rete pure di cuoio, con borchie di ferro, gli avvolgeva la criniera a guisa di elmetto. Portava a tracolla un'alabarda. Dietro di lui, gente di grado inferiore si affaccendava su e giù sull'acciottolato: servitori in livrea nera e calzoncini gialli, contadini vestiti di sacco, una femmina senza criniera avvolta in un'ampia tunica. Ai quattro lati del cortile si ergevano, massicci, i quattro tozzi edifici di pietra che ospitavano i membri e i servitori della casata; erano collegati da robuste mura esterne nelle quali si aprivano le porte. A ogni angolo del quadrato una torretta di guardia si ergeva con i suoi merli verso il cielo verde cupo.

— Davvero non vuole una scorta? — gli chiese Rebo.

— Non c'è pericolo a viaggiare da soli, non è vero? — replicò Falkayn.

Grmmm... no, suppongo di no. Faccio ben pattugliare questa regione. Dio sia con lei, allora.

Falkayn gli strinse la mano, ch'era anche un'usanza larsana. Le tre lunghe dita del marchese e il pollice invertito si adattavano goffamente a una stretta umana. Rimasero a fissarsi per un po'.

Gli abbondanti indumenti che proteggevano Falkayn dal gelo nascondevano la sua snella figura giovanile. Aveva una chioma stopposa, occhi azzurri, un viso rotondo con un naso all'insù e lentigginoso che gli causava non pochi, segreti tormenti. Il figlio di un barone di Hermes era sempre magro e slanciato. E, in effetti, lui era il figlio cadetto, quello che si era fatto espellere dall'accademia militecnica ducale. Il motivo era abbastanza insignificante, una burla, che era stata fatta risalire a lui per puro caso. Suo padre, comunque, aveva deciso che avrebbe fatto assai meglio a cercar fortuna altrove. Così, era andato sulla Terra, e Martin Schuster, della Lega Polesotecnica, lo aveva assunto come novizio. Invece della presunta vita affascinante e avventurosa dei mercanti interstellari, Falkayn si era trovato a dover affrontare un duro lavoro e degli studi ancora più duri. Era andato in visibilio quando il Maestro gli aveva ordinato di recarsi fin lì da solo, a sistemare le cose affinché i nativi li aiutassero. Era molto deluso di non potersi fermare.

— Grazie di tutto, — esclamò. Balzò in sella cori meno grazia di quanto avesse sperato, a causa della gravità di un quindici per cento superiore a quella terrestre. La guardia mollò le briglie ed egli uscì dalla porta orientale.

Un villaggio si annidava ai piedi delle mura del castello, casette di legno a incastro, con tetti di zolle erbose. Oltre l'abitato la strada maestra, detta altrimenti la Via del Sole, si precipitava giù lungo il pendio verso la lontana Valle Trammina. Non valeva gran che, come strada. Era a fondo naturale, accidentata, con ciuffi d'erba, cosparsa di sassi trascinati a valle, anno dopo anno, dalle nevi dei pendii superiori. Non molto lontano, la pista serpeggiava intorno a un picco e riprendeva a salire, ripida.

Falkayn diede un'occhiata a sud. Su un crinale biancheggiava il deposito, come la porta del Paradiso agli occhi di Lucifero. A parte quello, egli era l'unica testimonianza della razza umana. Un'erba grigia e coriacea e alberi spinosi rivestivano le colline; qua e là un gregge brucava, sorvegliato da un mandriano in sella. Dietro di lui, s'innalzavano i monti Kasuniani, con le loro aspre vette ammantate di neve, un autentico muro che tagliava in due il continente. Una luna gigantesca si librava, spettrale, sopra i monti. Il sole color ambra era appena spuntato all'orizzonte, verso il quale egli cavalcava.

Il vento ruggiva cavernosamente, sferzandogli il viso. Rabbrividì. A Ivanhoe non faceva terribilmente freddo, di primavera, alle latitudini intermedie dell'emisfero nord; la densa atmosfera creava un considerevole effetto-serra. Ma quella luce sanguigna gli dava una continua impressione di gelo. E il rumore degli zoccoli fessi del fastiga sulle pietre era desolato.

Dimenticando di essere Falkayn di Hermes, principe mercante, cavò di tasca la ricetrasmittente e fece scattare l'interruttore. A centinaia di chilometri di distanza ronzò un intercom. — Pronto, —chiamò Falkayn, con voce alquanto fioca. — Pronto, What Cheer. C'è nessuno in casa?

— Sì, — disse dalla scatola la voce del macchinista Romulo Pasqual. — Sei tu, Davy muchacho?

Falkayn fu così lieto di quel po' di compagnia, che una volta tanto non si risenti di essere trattato con condiscendenza. — Sì, sono io. Come vanno le cose?

— Come prima. Kirsh è nero. Martin è tornato al tempio. Ha detto che probabilmente non servirà a niente cercare di convincerli ad annullare la proibizione della ruota di cui ci hai informato ieri sera. E io? — A Falkayn sembrò quasi di vedere la scrollata di spalle tutta latina. — Io me ne sto qui, seduto, cercando d'immaginare come sia possibile spostare senza ruote un generatore da due tonnellate. Una specie di gigantesca slitta da cavatori, quizà?

— No, anch'io ci ho pensato, e ne ho discusso con Rebo, col quale abbiamo passato buona parte del periodo di oscurità a caccia d'idee. Su una strada come questa, impossibile.

— Ne sei proprio sicuro? Se attaccassimo abbastanza contadini e bestie a un simile ordigno...

— Non possiamo averli. Anche impiegando tutta la gente e le bestie disponibili (e non dobbiamo dimenticare che questa è la stagione della semina in un'economia di sussistenza e che occorre anche montare la guardia contro i barbari), lo stesso Rebo dubita che basterebbero a trascinare un carico del genere sulle salite più ripide.

— Hai detto che molti caballeros sono scontenti dei preti. Se anche loro contribuissero a...

— Una cosa simile richiederebbe molto tempo, probabilmente troppo. Inoltre, Rebo è convinto che pochissimi sarebbero disposti a spingersi innanzi quanto lui per aiutarci. Con tutta probabilità, non trovano affatto piacevole esser legati mani e piedi alla politica dei Consacrati, con un intero mondo a disposizione dove potrebbero sfogare le proprie energie; ma, anche prescindendo del tutto dal rispetto verso la religione, essi dipendono materialmente dai Consacrati che forniscono molti servizi tecnici e amministrativi... e i Consacrati sarebbero in grado di scatenare la plebe contro i conti, se si arrivasse a un'aperta rottura tra le caste.

— Sì. Martin la pensa allo stesso modo. Anche noi ne abbiamo discusso sotto tutti gli aspetti ieri sera... Tuttavia, Davy, dovremmo in ogni caso avere almeno qualche decina di nativi e duecento fastiga a nostra disposizione, se Rebo è disposto ad aiutarci rispettando alla lettera quella dannata legge. Giuro che potrebbero trascinare una slitta da cavatori su qualunque percorso. Usando degli argani...

— Anche gli argani sono ruote, — gli ricordò Falkayn.

Ay de mi, hai ragione. Be', leve e terrapieni, allora. I Maya hanno eretto gigantesche piramidi senza far uso di ruote. E l'impresa di far slittare il generatore da Gilrigor ad Aesca non è così grande.

— Oh, certo, si potrebbe fare. Ma quanto tempo ci vorrà? Perché non vieni a dare un'occhiata a questa cosiddetta strada? Saremo defunti da molti mesi, prima che il generatore giunga a destinazione. — Falkayn deglutì. — Quanto durerà il cibo se razioniamo le provviste? Cento giorni?

— All'incirca. Naturalmente, potremmo vivere per un altro mese o due senza mangiare. Almeno credo.

— Anche così, non ci sarebbe abbastanza tempo per far percorrere a quella tua slitta l'intera distanza. Ti garantisco... non può bastare.

— Be'... hai senz'altro ragione. Tu hai ispezionato il terreno. Era soltanto un'idea disperata.

— Il trasporto su un carro sarebbe già abbastanza brutto, — riprese Falkayn. — Non credo che riuscirebbe a percorrere più di venti chilometri al giorno, su un terreno così accidentato. Naturalmente andrebbe più veloce, una volta raggiunti i bassopiani; ma, anche così, calcolo che ci vorrebbe un mese.

— Così lento? Be', sì, immagino che tu abbia ragione. Un cavaliere c'impiega più di una settimana. Ma questo non fa altro che aumentare i nostri guai. Martin ha paura che, se anche riuscissimo a escogitare qualcosa che non sia proibito dalla loro legge, i preti avranno sempre il tempo d'inventare qualche altra scusa per fermarci.

Falkayn strinse le labbra: — Non mi sorprenderebbe. — La sua voce fu quasi un lamento terrorizzato: — Ma perché ci odiano tanto?

— Dovresti saperlo. Martin ha parlato spesso con te, mentre cavalcavi verso occidente.

— Sì. M...ma sono partito soltanto due giorni dopo l'atterraggio. Voi tre siete rimasti sul posto, avete avuto la possibilità di parlare con i nativi, di studiarli... — Falkayn riuscì a controllare la sua autocommiserazione appena in tempo per non scoppiare in singhiozzi.

— La ragione è evidente, — prosegui Pasqua!. — I Consacrati sono la crosta superiore di questa civiltà pietrificata. Per loro, un cambiamento può essere soltanto in peggio, per quanto possa migliorare la sorte delle altre classi. Poi, oltre all'interesse personale, c'è un naturale conservatorismo. Martin afferma che le teocrazie sono sempre bigotte. I Consacrati sono abbastanza svegli da vedere il pericolo che noi, nuovi venuti, rappresentiamo per loro. Le nostri merci, le nostre idee, sconvolgerebbero l'equilibrio della loro società. Così, essi fanno inevitabilmente tutto il possibile per scoraggiare qualunque extramondano dal visitarli.

— Non potete minacciare una vendetta? Perché non dite che una nave da battaglia verrà a scatenare l'inferno sopra di loro, se ci lasceranno morire?

— Temo che la prima spedizione abbia rivelato un po' troppo della vera situazione. Tuttavia, Martin potrebbe tentare oggi stesso questo bluff. Non so che cosa abbia intenzione di fare. Ma, da quando sei partito, è riuscito ad allacciare relazioni... be', almeno non troppo ostili con alcuni dei Consacrati più giovani. Ti ha detto che tiene loro delle lezioni? Non arrenderti ancora, muchacho.

Falkayn arrossi, indignato: — Io non mi sono arreso, — sbottò. — Tu, piuttosto!

Pasqual peggiorò le cose scoppiando in una risata. Falkayn interruppe la comunicazione.

Passarono le ore e la sua rabbia svanì davanti alla solitudine. Non gli era dispiaciuto quel viaggio al castello di Gilrigor. Era stato un tragitto pieno di speranza, e cavalcare strani animali acquistati a peso d'oro da un ricco aescano, attraverso una landa esotica, era proprio quello che si addiceva a un mercante avventuriero. Ma Rebo aveva infranto ogni sua speranza, e ora il paesaggio gli appariva tetro e sinistro. La mente di Falkayn turbinava di progetti, uno più assurdo dell'altro: ricaricare gli accumulatori con un generatore azionato a mano, un trasporto aereo con un pallone, fabbricare tanti fulminatori che quattro uomini avrebbero potuto tener testa a un milione di larsani... E ogni volta che scartava un progetto, la dimora di suo padre e il volto di sua madre comparivano nella sua immaginazione, facendogli bruciare gli occhi, e allora si aggrappava freneticamente a un'altra idea.

Doveva ben esserci un modo, per spostare un grosso carico senza ruote! Per che cosa mai era andato a scuola? Fisica, chimica, biologia, matematica, sociotecnica... Maledizione a tutto, eccolo li, adesso, figlio di una civiltà che disintegrava l'atomo e viaggiava tra le stelle, e uno stupido tabù stava per costargli la vita! Ma no, era impossibile. Lui, David Falkayn, aveva ancora un'intera esistenza da vivere! Come poteva capitargli questa assurdità... morire?

Il sole purpureo scalava lentamente il cielo. Ivanhoe aveva un periodo di rotazione di circa sessanta ore. Falkayn si fermò a mezzogiorno per mangiare qualcosa e dormire, poi fece altrettanto un po' prima del tramonto. Il paesaggio era diventato ancora più desolante: colline e burroni si stendevano a vista d'occhio, inframmezzati qua e là da torrenti impetuosi e pascoli selvatici cosparsi di macchie d'alberi dalle foglie seghettate; nessuna traccia di abitazioni.

Si svegliò dopo alcune ore, strisciò fuori, rabbrividendo, dal suo sacco a pelo, accese il fuoco e aprì un pacchetto di cibo. Il fumo gli irritò le narici. Gli antiallergici lo proteggevano da ogni casuale contatto con le proteine di quel mondo, mortalmente aliene dopo miliardi di anni di evoluzione divergente. Poteva perfino bere l'acqua del luogo. Ma niente avrebbe potuto salvarlo se avesse mangiato qualcosa d'indigeno. Dopo aver inghiottito le sue razioni, preparò i fastiga per il viaggio. Poiché faceva ancora freddo, accostò al fuoco, accovacciato e impastoiato, l'animale che avrebbe cavalcato, per fargli assorbire un po' di calore.

I suoi occhi, istintivamente, guardarono in alto. La Terra e Hermes si trovavano là, lontano, a più di quattrocento anni-luce di distanza.

Stava spuntando la seconda luna, un disco di rame screziato sopra gli scoscendimenti orientali. Anche senza quell'aiuto era possibile viaggiare di notte. Le stelle, infatti, scintillavano a sciami: le sette gigantesche Sorelle, così brillanti, nella loro foschia nebulare, da gettare ombre, e i membri minori di quell'ammasso stellare che, insieme con i più distanti soli della galassia, riempivano il cielo d'un fitto spolverio invernale. Una grigia luce crepuscolare avvolgeva il pianeta. In lontananza, a occidente, le nevi dei monti Kasuniani sembravano fosforescenti.

Era difficile convincersi che potesse esserci qualcosa di pericoloso in tanta bellezza. E in verità, non c'erano grandi rischi. Tuttavia, quando un'astronave procedeva in ipervelocità attraverso una zona dello spazio in cui la materia interstellare era più densa del normale, c'era una probabilità, piccola ma precisa, che uno dei suoi microbalzi la portasse a contatto con qualche grumo di materia solida. Se la differenza delle velocità intrinseche era grande, ciò poteva causare danni considerevoli. Se, per di più, l'urto del grumo avveniva in corrispondenza dello spazio dov'era l'unità a fusione nucleare... be', ecco quanto era capitato al What Cheer.

Immagino di aver avuto fortuna, perfino, rabbrividì Falkayn. Quel sasso avrebbe potuto squarciare il mio corpo. Naturalmente, per gli altri sarebbe stata la salvezza, perché avrebbero dovuto limitarsi a rabberciare lo scafo. Ma alla sua età era difficile, per Falkayn, convincersi di che cosa fosse preferibile.

Rifletté nuovamente, ammirato, al modo in cui il capitano Mukerji era riuscito a portarli fin li. Spremendo energia da ogni accumulatore carico a bordo della nave era riuscito a far funzionare i motori fino a Ivanhoe. Toccar terra con l'ultima stilla d'energia, a occhio, mio Dio!, sfruttando la spinta aerodinamica, richiedeva un'abilità non comune. Naturalmente la cosa più pratica era stata quella di dirigere su Aesca, la capitale, piuttosto che puntare direttamente su Gilrigor. Normalmente, si stava bene attenti a non scavalcare le autorità locali, che potevano irritarsi e provocare guai. Chi poteva immaginare che i guai erano già ad aspettarli?

Ora, l'astronave era li, ad Aesca, con i serbatoi d'energia svuotati al punto che non avrebbe potuto sollevare una sola piccola delle sue slitte gravitazionali. Gli accumulatori di riserva del deposito erano insufficienti a compiere il trasporto; inoltre erano indispensabili per le macchine utensili di riparazione. Il generatore di ricambio non poteva ricaricare niente fino a quando non fosse stato installato nella nave, poiché funzionava soltanto come parte integrante dei motori e dei comandi. E un migliaio di chilometri senza ruote separavano l'uno dall'altra...

Qualcosa si mosse. Uno dei fastiga ragliò. A Falkayn balzò il cuore in gola. Saltò in piedi, con la mano sul fulminatore.

Un maschio indigeno entrò nel piccolo cerchio di luce del falò. La sua pelliccia era rigonfia contro il gelo notturno, e il respiro gli usciva come uno sbuffo di vapore dai lati delle mascelle. Falkayn vide che portava uno stocco e... sì, per Giuda! c'era un cerchio blasonato sulla sua corazza! Le fiamme trasformavano i suoi occhi in due chiazze scarlatte turbinanti.

— Che cosa vuoi? — La voce di Falkayn suonò stridula, e nel medesimo istante si diede dell'imbecille, poiché le mani dell'ivanhoano erano tese verso di lui, vuote, in un gesto di pace.

— Dio ti conceda la buona sera, — rispose il nativo, con voce profonda. — Ho visto il tuo fuoco da lontano. Non mi aspettavo di trovare un forestiero.

— N...né io una guardia del Santuario.

— Le nostre squadre viaggiano dappertutto per adempiere alle missioni dei Consacrati. Io son chiamato Vedolo figlio di Pario.

— Io, io... David, uh, David figlio di Falkayn.

— Sei andato a trovare il marchese, vero?

— Sì. Come se tu non lo sapessi! — sbottò Falkayn. No, aspetta, stai attento a come parli. Forse c'è ancora una possibilità dì convincere i Consacrati a concederci una speciale dispensa a proposito delle mote. — Vuoi unirti a me?

Vadolo si accovacciò a terra, arrotolando la coda intorno ai piedi. Quando Falkayn tornò a sedersi, il profilo dell'aborigeno gli apparve indistinto sull'altro lato del falò, la sua criniera si stagliava come una montagna ricoperta di foreste sullo sfondo della Via Lattea. — Sì, — ammise Vedolo. — Tutti ad Aesca sapevano che eri diretto laggiù, per controllare se quanto i tuoi compagni hanno lasciato in quell'edificio è ancora intatto. Era questo il motivo?

Falkayn annui. Nessuno, la cui civiltà fosse all'età della pietra, avrebbe potuto penetrare in un magazzino rivestito di inertium, e munito di una serratura Nakamura. — E il marchese Rebo è stato molto gentile, — commentò.

— Questo non mi stupisce, da quello che sappiamo di lui. A quanto ho capito, voi avete bisogno di certe parti di ricambio che si trovano in quell'edificio, per riparare la vostra nave. Rebo vi aiuterà a trasportarle ad Aesca?

— Lo farebbe se potesse. Ma la cosa di cui abbiamo bisogno è troppo pesante per qualunque mezzo di trasporto a sua disposizione.

— I miei Maestri Consacrati sono pieni di meraviglia, — annui Vedolo. — Hanno chiesto di visitare la vostra nave, e la sezione danneggiata sembrava molto grande.

Questo dev'essere stato dopo la mia partenza, pensò Falkayn. Probabilmente Schuster stava cercando d'ingraziarseli. E scommetto che è stato un fiasco solenne, quando quelli hanno visto tanti oggetti circolari, i quadranti sul quadro dei comandi, ad esempio; ciò deve irrigidire ancora di più la loro ostilità contro di noi, anche se al momento non avranno parlato.

Ma come può saperlo questo tizio, a meno che non mi abbia seguito fin qui? E perché mai l'avrà fatto? Qual è la sua missione?

— I tuoi compagni di equipaggio mi hanno spiegato che disponete di mezzi di trasporto, — riprese Vedolo. — Mi chiedo perciò per quale ragione tu sia tornato così presto, e da solo.

— Be'... avevamo in mente un certo congegno, ma sembra che ci sia qualche difficoltà...

Vedolo scrollò le spalle: — Non dubito che la gente istruita come voi sia in grado di risolvere qualunque problema. Avete poteri che noi pensavamo appartenessero soltanto agli angeli... o all'Anti-Dio... — S'interruppe e allungò una mano: — Le vostre armi a fiamma, ad esempio. I primi visitatori ci hanno fatto vedere come funzionano. Io non ero presente ad Aesca, allora, e mi è rimasta una grande curiosità. Quella che hai alla cintura è un'arma? Posso vederla?

Falkayn s'irrigidì. Non era in grado d'interpretare ogni sfumatura nella voce di un larsano, così sorda per la mancanza di una cassa di risonanza nasale; ma... — No! — esclamò, bruscamente.

Le labbra delicate di Vedolo si arricciarono, scoprendo una fila di denti acuminati. — Tu sei men che cortese verso un servo di Dio, — dichiarò.

— Io... uh... quest'arma è pericolosa. Potresti farti male.

Vedolo sollevò un braccio, poi lo riabbassò. — Guardami, — disse. — Ascoltami attentamente. Vi sono molte cose che voi non capite, presuntuosi invasori che non siete altro. Ho qualcosa da dirti...

Nell'aria densa di Ivanhoe, l'udito di un essere umano era eccezionalmente acuto. O forse ciò era dovuto al fatto che Falkayn era tremendamente sotto tensione, e tremava e sudava, disperatamente solo di fronte a un nemico implacabile. Udi il fruscio tra i cespugli e si gettò di lato nel medesimo istante in cui la corda dell'arco vibrava. La freccia si conficcò con la sua asticella ottagonale nel punto del terreno dove egli era seduto un attimo prima.

Vedolo balzò in piedi, sguainando la spada. Falkayn rotolò al suolo; un cespuglio spinoso gli scorticò la guancia. — Uccidetelo! — vociò Vedolo, scagliandosi contro l'umano. Falkayn si rizzò in piedi. La lama dell'avversario praticò un taglio sul suo mantello mentre la schivava. Estrasse il fulminatore e sparò a bruciapelo.

Un guizzo di luce infernale lampeggiò per un istante. Vedolo crollò a terra in una nuvola di fumo, con un urlo atroce. Immagini residue fluttuarono a brandelli davanti agli occhi di Falkayn, il quale si lanciò di corsa verso i suoi animali che scalpitavano e ragliavano in preda al panico. Nel buio sentì gridare: — Non vedo, non riesco a vedere, sono cieco! — Il lampo doveva essere stato molto più abbagliante per gli ivanhoani che per lui. Ma si sarebbero ripresi in meno di un minuto, e la loro visione notturna sarebbe stata assai migliore della sua.

— Uccidete i suoi fastiga! — gridò un'altra voce.

Falkayn sparò parecchi colpi. Avrebbero imbrogliato la loro mira per qualche istante ancora, pensò confusamente. Il suo fastiga personale s'impennò e cercò di scalciarlo, roteando le orbite, d'un vivido color cremisi sullo sfondo delle ombre nere create dai fiotti di luce. Falkayn evitò gli zoccoli, agguantò la briglia e colpi il lungo naso dell'animale col calcio della pistola. — Stai ferma, brutta bestia, — singhiozzò. — Vogliono ammazzare anche te.

Udi il trepestio di numerosi piedi tra i cespugli. Una testa leonina si mostrò alla sua vista. Non appena vide l'umano, il guerriero gridò e gli scagliò addosso una lancia. L'arma lo sfiorò, sibilando, un'asta piatta e una punta di ferro. Falkayn era troppo occupato a montare in sella per rendergli la pariglia.

In qualche modo riuscì a sistemarsi in groppa. Il fastiga di ricambio squittì quando due frecce gli si conficcarono nel ventre. Falkayn troncò la corda che legava insieme i due animali con un colpo del fulminatore.

— Vai! — urlò. Piantò i calcagni nei fianchi della bestia. Il fastiga si lanciò al galoppo, l'animale da soma lo segui, legato al primo per le redini. Un'ascia fendette l'aria, mancandolo per un soffio. Una freccia gli ronzò sopra la spalla. Poi, finalmente, fu fuori tiro, lontano dagli assassini, ancora sulla Via del Sole e nuovamente diretto a occidente.

Quanti saranno? La domanda gli turbinava nella mente. Mezza dozzina? Devono aver lasciato i loro fastiga a una certa distanza, per potermi cogliere di sorpresa. Se non altro ho questo vantaggio. Ma niente più ricambio. E loro certamente ne avranno.

Sono stati mandati a tendermi un agguato, è chiaro. Per provocare un ritardo che avrebbe potuto rivelarsi fatale, mentre, gli altri si sarebbero chiesti che cosa mai mi fosse capitato, e si sarebbero messi a cercarmi. Questi non sanno che ho una radio. Non che faccia molta differenza, adesso. Per loro, è indispensabile catturarmi prima che riesca a mettermi sotto la protezione di Rebo.

Mi chiedo se riuscirò ad arrivare lassù prima di loro.

Sogghignò istericamente: A ogni modo, possiamo dimenticarci quella dispensa speciale.