III
Falkayn decise ch'era meglio mostrarsi gentile, accogliendo rinviato-istruttore imperiale all'ingresso della camera di equilibrio. Comunque, conservò ostentatamente il fulminatore appeso al fianco.
Mentre aspettava, diede un'occhiata alle mura di pietra che coronavano la collina. Erano muri a secco; l'acqua era troppo preziosa per usarla a impastare della malta. I bastioni e le snelle torri agli angoli racchiudevano alcune dozzine di case di fibre intrecciate. Haijakata era soltanto un centro di scambio per gli agricoltori locali e le carovane che attraversavano il territorio. Vi prestava servizio una guarnigione alquanto ridotta. Gujgengi aveva ammesso che le alture settentrionali erano state ormai completamente liberate dai barbari predoni che infestavano quasi tutti i deserti. Falkayn sospettava che le truppe fossero acquartierate lì soltanto come precauzione contro una rivolta. Da quel poco che aveva scoperto, la storia ikranankana era assai turbolenta.
Il che è una preoccupazione in più, disse tra sé, irritato. Il vecchio Nick si guarderà bene dall'investire un capitale in costose attrezzature, a meno che l'ordinamento sociale non sia ragionevolmente stabile, consentendo di mantenere aperte le rotte commerciali. E l'Impero di Katandara sembra l'unica zona possibile in tutto il pianeta... Niente stazione commerciale su Ikrananka, niente commissione per me. Che bella vita allegra, spavalda e spensierata facciamo, noi esploratori!
Si voltò a guardare il gruppo che si stava avvicinando. C'erano due dozzine di soldati con i loro pettorali di cuoio, armati fino ai denti (che non avevano) di spade, pugnali, archi e grosse alabarde dall'aspetto sgradevole. Portavano tutti l'insegna spiraleggiante della «fratria» Tirut; l'intera guarnigione la portava. Alla testa del gruppo avanzava Gujgengi, con passo maestoso. Per essere un ikranahkano, era di alta statura, scarno, la pelliccia nero-azzurra brizzolata, un paio di occhiali cerchiati d'oro appollaiati precariamente sul becco. Una tunica scarlatta gli scendeva fino ai piedi, blasonata con lo stemma della fratria Deodakh, quella imperiale. Dalla sua cintura decorata pendeva un lungo coltello. Falkayn non aveva ancora visto un solo maschio indigeno senza un'arma.
Piegò un ginocchio e incrociò la braccia sul petto, nel rituale gesto di omaggio. — Al nobilissimo Gujgengi e ai suoi fratelli, salute, — intonò. Non sarebbe mai stato capace di pronunciare correttamente quella lingua gutturale. Il suo apparato vocale non era stato progettato per farlo. E la sua grammatica era ancora pietosa. Comunque, parlava già con sufficiente speditezza.
Gujgengi non usò la formula, «Pace fra i nostri simili», ma disse: — Parliamo. — Ciò implicava che c'era una faccenda grave in ballo, e che lui sperava che fosse possibile risolverla senza spargimento di sangue. E fece dei gesti di scongiuro, dai quali negli ultimi tempi si era astenuto.
— Onora la mia casa, — lo invitò Falkayn, dal momento che la lingua nativa non aveva alcuna parola per definire una nave, e «carro» suonava ridicolo.
Gujgengi lasciò il suo seguito ai piedi della rampa, di guardia, e si arrampicò sussiegoso. — Vorrei che metteste un'illuminazione decente, — si lamentò. Poiché non percepiva la lunghezza d'onda al di là del giallo, anche se il suo spettro visivo comprendeva il vicino infrarosso, per lui le lampade fluorescenti baluginavano appena, e i suoi occhi a pupilla orizzontale si adattavano assai poco all'oscurità, cosa questa niente affatto necessaria per un abitante dell'emisfero sempre rivolto al sole.
Falkayn lo scortò fino al soggiorno. Gujgengi brontolò per tutto il tragitto. Quel posto era troppo caldo, tanto valeva trovarsi nella fascia equatoriale col sole a picco; l'aria puzzava ed era troppo umida. Falkayn, per favore, poteva smettere di alitargli tutto quel vapor acqueo addosso? Gli ikranankani non esalavano umidità. L'acqua prodotta dal loro metabolismo entrava direttamente nel flusso sanguigno.
Giunto in fondo al corridoio, si fermò sulla soglia del soggiorno, annusò nuovamente l'aria e si aggiustò gli occhiali. — Così, è vero che le avete dato rifugio! — gracchiò.
Stepha allungò di scatto la mano verso la sciabola. — Suvvia, suvvia, — si affrettò a esclamare Adzel, appoggiando le sue dita robuste sul braccio della ragazza. — Ti pare bello?
— Siediti, nobilissimo, — disse Falkyan. — Bevi qualcosa. Gujgengi accettò un po' di scotch con malcelata avidità. Sotto quell'aspetto, gli ikranankani erano molto simili agli uomini. — Mi era parso di capire che siete venuti qui in amicizia, — riprese. — Confido che questo incidente potrà essere soddisfacentemente chiarito.
— Diamine, sicuro, — si affrettò a rispondere Falkayn, con molta più cordialità di quanta ne provasse. — Abbiamo visto questa femmina della mia razza braccata da guerrieri i quali, per quanto potevamo sapere, erano predoni. Abbiamo subito pensato, naturalmente, che ella provenisse dai nostri mondi.
Chee soffiò un anello di fumo e aggiunse con la sua voce più insinuante: — A maggior ragione, in quanto tu, nobilissimo, non hai ritenuto opportuno informarci che qui esisteva un'antica colonia umana.
— Ak-krrr, — tossicchiò Gujgengi. — Avevo una tale quantità di cose da insegnarvi...
— Ma certamente sapevi quanto ci avrebbe interessato la notizia, — Chee insistette.
— ... come voi stessi mi avevate chiesto...
— Nobilissimo, noi siamo sconvolti e addolorati.
— Essi formano, semplicemente, una fratria di soldati fra le tante...
— Di grande importanza per l'Impero con cui stavamo negoziando in buona fede.
— Ha infranto l'espresso ordine dell'Imperatore...
— Quale ordine? Che noi restassimo isolati? Questo, nobilissimo, è stata un'altra amara scoperta. Cominciamo a chiederci quanta sia la vostra buona fede nei nostri confronti. Forse non siamo benvenuti quaggiù? Possiamo andar via, sapete. Non abbiamo alcuna intenzione d'imporre la nostra presenza o le nostre merci a nessuno.
— No, no, no! — Gujgengi aveva avuto modo di apprezzare l'intero campionario dell'astronave, dai tessuti sintetici alle armi da fuoco chimiche. Quando ripensava a ciò che aveva visto, il suo respiro si faceva affannoso. — Era soltanto che...
— Anche se, ad esser franchi, — precisò Chee, — la nostra ritirata non potrà essere definitiva. Le nostre genti, a casa, saranno informate di questi ershok, e verranno qui a organizzare il loro trasferimento su un mondo più adatto. I Signori della Terra non saranno contenti di sapere che i Katandara tenevano nascosti questi infelici. Li avete forse maltrattati? Temo che questa faccenda sarà considerata con molta severità.
Falkayn era preso troppo alla sprovvista per godersi le angustie di Gujgengi. Non aveva pensato alle implicazioni. Riportare a casa gli ershok... Altro che segreto, perdinci! Lo avrebbero saputo fino ad Andromeda! E lui, invece, il cui compito consisteva nel garantire il silenzio assoluto sulle sue scoperte!...
Forse... No. Guardò Stepha, seduta orgogliosamente, agile come una gatta, sull'orlo della sedia, la luce che risplendeva fra le sue trecce, gli occhi grigi, le bianche curve del suo corpo... e seppe che non poteva tradirla col suo silenzio. A ogni modo, sarebbe stato inutile. Quando i mercanti avessero cominciato a fioccare laggiù, avrebbero saputo ben presto la verità, e qualche coscienzioso bastardo avrebbe cominciato a parlare.
Gujgengi sollevò il bicchiere con mano tremante, inclinò la testa all'indietro e si versò destramente il liquido giù per il becco aperto. — Dovrei conferire con l'Imperatore, — disse. — Dovrei farlo davvero. Ma, viste le circostanze... forse potremo giungere a un accordo.
— Lo spero bene, — disse Adzel.
— Il fatto è, — confessò Gujgengi, — che poco prima del vostro arrivo si è verificata una situazione assai spiacevole. L'Impero era sul punto di conquistare Sundhadarta. — Niente parole melliflue come «liberazione», in quella lingua. — La chiave dell'intera regione è la città di Rangakora. Poiché è massicciamente fortificata, la sua conquista è assai difficile, per cui l'Imperatore inviò un contingente delle sue truppe scelte, gli ershok, per dar maggior forza all'assalto, agli ordini del più alto ufficiale della Guardia.... Uk-k-k...
— Bobert Thorn, — l'interruppe Stepha, asciutta, fornendogli le labiali di cui aveva bisogno.
— Conquistarono la città...
— Potresti anche dire «grazie», — osservò Chee.
Gujgengi sembrò confuso ed ebbe bisogno di un altro bicchierino. — Conquistarono la città, — riuscì a proseguire, — ma poi... uk... Obertorn decise che quello avrebbe potuto essere un ottimo inizio per un regno tutto suo. Lui e i suoi uomini... insomma, cacciarono fuori le nostre truppe e s'impossessarono di Rangakora. E da quel giorno ci sono rimasti. Noi abbiamo... uk... non siamo ancora riusciti a sloggiarli. Nel frattempo, gli ershok rimasti nella capitale hanno cominciato a mostrarsi irrequieti. E poi, sei comparso tu, della stessa fratria! Ti stupisci che l'Imperatore desideri, ak-krrr, procedere con, diciamo, circospezione?
— Giuda su una stampella! — bofonchiò Falkayn.
Stepha tacque per un attimo, nel silenzio reso ancora più profondo dal fruscio dell'aria nei ventilatori, dall'impaziente picchiettare del bocchino di Chee sul tavolo, e dal rauco ansimare di Gujgengi. Fissò, torva, il ponte e si grattò il mento. Improvvisamente raggiunse una decisione, si raddrizzò e disse:
— Sì, è vero. Questo ha danneggiato gli ershok a Katandara. Essi sanno di essere sospettati. Se l'Imperatore dovesse inquietarsi ancora di più, potrebbe perfino tentare di massacrarli. Non credo che sarebbe molto saggio da parte sua... C'è qualcuno disposto a scommettere su chi uscirebbe vivo dal macello? Ma noi non vogliamo lacerare l'Impero. D'altra parte, dovevamo stare in guardia. Così, abbiamo sentito delle voci su questi stranieri arrivati da poco. Sapete, era inevitabile che succedesse. Gli haijakatani avevano naturalmente sparso la notizia, prima che venisse tolto il bando. Di tanto in tanto un piantatore riesce a superare di nascosto i posti di guardia. Dovevamo scoprire, là nella Casa di Ferro, che cosa volevano dire queste storie. Altrimenti saremmo stati come ciechi sull'orlo di un precipizio. Io ho pensato di raggiungere questo posto. È stata un'idea mia, vi garantisco. Nessun altro lo sapeva. Ma una pattuglia mi ha intercettato.
Gujgengi non ne approfittò per mettersi a sbraitare in nome della lealtà e della subordinazione. O forse non avrebbe potuto. Durante quelle settimane, Falkayn aveva avuto sempre di più l'impressione che gli ikranankani fossero fedeli a quelli del loro stesso sangue, e tutto il resto fosse un semplice legame di convenienza.
Ma... un momento!
In preda all'eccitazione, balzò in piedi. Gujgengi portò la mano alla spada, ma l'uomo si limitò a passeggiare su e giù, facendo scricchiolare le suole delle scarpe sul ponte, mentre snocciolava:
— Ehi, tutta questa storia è un tocco di bacchetta magica per noi. — Una parola che significasse «fortuna» non esisteva. — Il vostro Imperatore si è sbagliato, a sospettarci. Noi siamo mercanti. Il nostro interesse consiste in un paese solidamente unito e pacifico con cui poter commerciare. Le armi a bordo di questa nave possono spazzar via qualunque muro sia mai stato costruito. Prenderemo Rangakora per lui.
— No! — urlò Stepha. Scattò in piedi come una furia, la sciabola sprizzò scintille, già sguainata. — Sudicio...
Falkayn lasciò che i suoi furori sbollissero, fra le grinfie di Adzel, prima di chiederle: — Ebbene, che cosa c'è di sbagliato? Voialtri non siete dalla parte dell'Imperatore?
— Prima di lasciarti sterminare mille ershok, — lei gli sibilò tra i denti, — io... — E si dilungò in una lunga descrizione anatomica di tutto quello che avrebbe fatto a David Falkayn.
— Ma, zuccherino mio, — lui protestò, — tu non capisci. Non ho intenzione di uccidere nessuno. Soltanto di abbattere un muro o due, e di intimorire la guarnigione.
— Poi ci penseranno i soldati di Jadhadi, — lei aggiunse cupamente.
— U-uhm, li proteggeremo. Prenderemo accordi.
— Ehi, un momento, — obiettò Gujgengi. — Le prerogative dell'Imperatore...
Falkayn gli disse, rudemente, dove l'Imperatore poteva cacciarsi le prerogative, ma in latino. In katandarano replicò: — Il nostro prezzo per aiutarvi è un'amnistia generale. Con le dovute garanzie. Non penso che sia un prezzo esoso. Ma spetta all'Imperatore decidere. Voleremo fin da lui, e discuteremo la faccenda.
— No, aspettate! — esclamò Gujgengi. — Non potete...
— E in qual modo ci fermerai, ragazzo mio? — gli chiese, in tono maligno, Chee.
Gujgengi risfoderò diverse argomentazioni. All'Imperatore sarebbe molto dispiaciuto se si fossero fatti beffe dei suoi ordini. Non c'era un posto adatto, a Katandara, dove far discendere la nave. Il popolo era così inquieto che la sua sola vista avrebbe provocato un tumulto. Eccetera eccetera.
— Meglio raggiungere un compromesso, — sussurrò Adzel. — L'arroganza provoca la resistenza.
Dopo aver cavillato considerevolmente, Gujgengi fu d'accordo che, viste le circostanze, l'ornitottero poteva andar bene. Era piccolo, e abbastanza veloce per poter sfrecciare senza che troppa gente lo vedesse, e adagiarsi nei giardini del palazzo. E, in verità, un messaggio spedito a mano a Katandara, poteva richiedere un tempo troppo lungo e imbarazzante.
— Tanto vale, stando così le cose, tenere qui la nave, — osservò Chee. — Come riserva, nel caso che voi incontriate dei guai.
— Nel caso che «noi» incontriamo guai? — interloquì violentemente Adzel.
— Non penserai che io intenda andare a immergermi in quel secchio di polvere che è l'atmosfera, là fuori? No, certamente, se posso evitarlo. E potrò suonare in pace i miei nastri mentre tu e le tue orecchie di ferro ve ne sarete andati.
— Se hai l'intenzione di suonare quella che, in mancanza di una parola puzzolente molto più adatta, si chiama musica cynthiana, allora è più che certo che io non sarò qui.
— Ti riporteremo a casa, — disse Falkayn, rivolto a Stepha.
Lei in quegli ultimi minuti aveva mantenuto un atteggiamento altero e distaccato, osservandoli come se avesse nuovamente infilato una maschera. Ora, esitò. — Non avrai dei guai, vero? — egli le chiese.
— N...no, — lei disse in anglico, per non farsi capire da Gujgengi. — I miei compagni di caserma avranno nascosto la mia scomparsa, anche se non ne sapevano la ragione. Non è difficile farlo, dal momento che per questi stupidi ikranankani tutti gli ershok sono uguali. Ma d'altra parte... voglio dire, poiché ora noi siamo confinati in città... Non posso attraversare, così, le porte. E se arrivassi apertamente con te, poi mi sorveglierebbero. — Rifletté. — Tu atterrerai velocemente davanti alla Casa di Ferro, e io entrerò di corsa. Se dopo ti chiederanno il perché, potrai sempre dire che l'hai scambiata per il palazzo.
— Perché ti preoccupa il fatto di essere sorvegliata?
— Non mi garba l'idea. — Lei gli afferrò le mani e gli si fece più vicina. — Per favore, David, sei stato un così buon amico fino a questo momento...
— Be'...
Lei batté le ciglia: — Spero che potremo diventare amici ancora migliori.
— D'accordo, dannazione!
Tutto fu combinato rapidamente. Falkayn si cambiò, e indossò una giubba pesante, calzoni e stivali, un mantello bianco e un berretto ingioiellato messo disinvoltamente di traverso sulla fronte per aggiungere un tocco di classe. Due pistole gli premevano contro la cintura, un fulminatore e uno storditore. Infilò una ricetrasmittente in un taschino all'altezza del petto; il pianeta aveva sufficiente ionosfera per consentire che le onde radio viaggiassero tra lì e Katandara. Riempi una borsa di altri stumenti e di doni per l'Imperatore. Adzel prese soltanto un comunicatore, che si appese al collo.
— Chiameremo regolarmente, Chee, — disse Falkayn. — Se non avrai notizie da uno di noi due, entrò otto ore, accendi i gravitatori e vieni di corsa.
— Non so ancora perché vi diate tanto da fare, — brontolò la cynthiana. — Quella disgraziata d'una femmina ha già rovinato l'intera missione.
— Per quanto riguarda la segretezza? In qualche modo possiamo ancora combinare. Nella peggiore delle ipotesi, perfino quando la concorrenza sciamerà quaggiù, il vecchio Nick tirerà fuori qualcosa di buono da un Impero stabilizzato. E... uh... in ogni caso non possiamo permettere che continui lo spargimento di sangue.
— Perché no? — Chee si arrese. — Va bene, partite pure. Io continuerò le lezioni con Gujgengi. Più informazioni avremo, meglio sarà.
L'agente imperiale se n'era già tornato in città con la sua scorta. Ma le mura di Haijakata erano una nera massa brulicante di nativi che volevano assistere al decollo.
— Oh-h-h-h! — Ansimò Stepha, e si avvinghiò al braccio di Falkayn. Lui resistette alla tentazione di eseguire una serie di acrobazie e puntò direttamente su Katandara, in direzione nord-ovest. L'esplorazione preliminare aveva fornito eccellenti carte topografiche, e Gujgengi aveva indicato i punti di maggior interesse per loro.
Chilometro dopo chilometro il Chakora fuggi sotto di loro. Passarono, nella bolla ronzante, sopra interminabili campi rosso-verdi, piccoli borghi, e incrociarono anche una carovana di karikut a quattro zampe, carichi di mercanzie, sorvegliati da guerrieri in groppa a zandara. — Quelli devono essere shekhej, — osservò Stepha. — La loro fratria si occupa di quasi tutti i trasporti, da queste parti.
Adzel, la cui massa li costringeva a restare schiacciati gli uni contro gli altri (ma a Falkayn questo non dispiaceva affatto) chiese: — Ogni mestiere è una faccenda di famiglia?
— Certo, — confermò Stepha. — Se si nasce shekhej, si è carovanieri. Tutti i deodakh erano cacciatori fino a quando non conquistarono Karandara; ora sono funzionari. I tirut e altri, come noi ershok, sono soldati. I rahinji sono scrivani. E così di seguito.
— Ma supponiamo che uno nasca col talento sbagliato?
— Oh, ci sono molte cose da fare in ogni fratria. Il lavoro principale è quello più onorevole. Ma qualcuno deve pur sempre occuparsi della casa, tenere i conti, far andare avanti la fattoria, se il gruppo ne possiede una... tutte queste cose, insomma. Voi non affidereste queste cose a degli estranei, no?
«Inoltre, un giovane, quando raggiunge l'età in cui comincia a imparare i segreti della fratria, può essere adottato da una fratria diversa, se lo desidera, e se loro sono disposti a prenderlo. Questa è una delle ragioni per cui noi ershok siamo così isolati. Non potremmo sposare nessuno degli ikranankani. — Stepha ridacchiò, e disse qualcosa di estremamente volgare. — Perciò dobbiamo restare nei corpi militari. D'altro canto, per l'identica ragione, sappiamo di poterci fidare dei nostri giovanotti. Non hanno nessun altro posto dove andare. Perciò li iniziamo molto presto.
— Da quanto capisco, le fratrie sono molto antiche.
— Sì. I regni vanno e vengono, nessuno dura più di qualche generazione. Ma la linea del sangue dura per sempre.
Le sue parole confermavano quel che Falkayn aveva intuito. Indicavano un radicato spirito di parte che lo preoccupava. Se quell'atteggiamento era istintivo, allora Ikrananka era un ben povero mondo sul quale fondare delle operazioni commerciali. Ma se fosse stato possibile cambiarlo, se si fosse riusciti a far si che gli ikranankani provassero lealtà verso qualcosa di più di un groviglio di famiglie...
Katandara comparve alla loro vista. La città sorgeva a non più di duecento chilometri da Haijakata, la quale a sua volta era a metà strada per Rangakora. L'Impero si stendeva in gran parte a sud-ovest, attraverso il fertile Chakora.
Da nord-est scendeva serpeggiando il fiume Yanjeh, un luccichio argentato avvolto da una cintura di vegetazione che si stagliava tra le desolate colline orientali e i pascoli giallobruni dell'occidente. Là dove il fiume scendeva giù dall'antico zoccolo continentale per svuotarsi nell'ampio e fangoso lago Urshi, si ergeva Katandara. Era una città imponente, che doveva ospitare almeno mezzo milione di abitanti. Intere civiltà l'avevano posseduta, una dopo l'altra, come Roma e Costantinopoli, Pechino e Città del Messico erano state possedute: ognuna vi aveva aggiunto mura e torri e nuovi edifici, e ora i bastioni racchiudevano una metropoli quasi completamente di pietra. Era una pietra antica, che si sbriciolava già sui bordi, ed erano antiche anche le stradine anguste che serpeggiavano tra le facciate grige, quadrate, taciturne. Soltanto all'estremità opposta rispetto al lago, dove il terreno si alzava ripido, c'era qualcosa che non era ancora corroso dalla millenaria sabbia del deserto: le opere dei nuovi governanti, rivestite di marmo e coronate da cupole, con tetti di rame e decorazioni astratte a mosaico. Quel quartiere, come quelli dei precedenti signori, era circondato da un alto muro, per proteggere i padroni dal popolo.
Con un rivelatore a forte ingrandimento, Stepha individuò a quella distanza numerosi particolari i quali indicavano che l'ornitottero non era stato ancora avvistato. Falkayn fece eseguire un tuffo all'apparecchio. L'aria sibilò furiosa. I controlli vibrarono tra le sue mani. All'ultimo istante innestò i contro-gravitazionali, e si arrestò con una frenata da far stridere le ossa.
—Addio, David... fino a quando non c'incontreremo di nuovo. — Stepha si piegò in avanti e gli sfiorò le labbra con le sue. Il sangue le pulsava con violenza sul volto. Falkayn colse l'odore aspro e selvaggio dei suoi capelli. Poi, lei uscì dalla camera di equilibrio.
Gli ershok erano acquartierati in un singolo, grande edificio accanto al palazzo imperiale. Davanti ad esso si apriva una piazza lastricata di ciottoli. Nelle immediate vicinanze sorgevano le case dei cittadini facoltosi. Ognuno di questi edifici era costruito intorno a un cortile, e rivolgeva all'esterno un ingresso anonimo. Ma alcuni ricordi della Terra sopravvivevano ancora nella casa degli ershok: il tetto di ferro, appuntito, le estremità dei cornicioni scolpite a forma di testa di mostro, perfino nelle massicce porte metalliche. Alcuni ikranankani guardarono l'ornitottero a bocca aperta. Così fecero le sentinelle all'ingresso della caserma, grossi uomini barbuti rivestiti di maglia metallica, elmetti dorati e piumati, mantelli che il vento faceva sbattere, creando un arcobaleno di strisce colorate. Ma ugualmente presentarono le armi e gridarono i comandi.
Stepha si affrettò verso di loro. Falkayn decollò. Con un'ultima occhiata vide che la stavano scortando all'interno.
— E ora, dal Vecchio Signore, — esclamò. — Speriamo che ci faccia delle domande, prima di sparare.