CHE FISCHIETTA

...Quel mattino l'aria di Vienna saliva nebbiosa fino ai finestrini del treno, e mentre la gente andava al lavoro ignara, un assassino fischiettava il suo allegro motivetto.

Comprò il biglietto. Salutò educatamente i compagni di viaggio e il macchinista. Cedette persino il posto

a un'anziana signora, e conversò cortesemente con uno scommettitore che parlava di cavalli americani. Dopo tutto, all’uomo che fischietta piaceva parlare. Parlava con le persone e le ingannava, inducendole a trovarlo simpatico, a fidarsi di lui.

Parlava con le persone mentre le uccideva, le torturava e rigirava il coltello nella loro carne. Solo quando non c'era nessuno con cui parlare fischiettava, ecco perché lo faceva sempre dopo un delitto...

«Dunque lei pensa che la pista favorisca il numero sette?» «Sicuro», sogghignò il giocatore. Già si fidava di lui. «Arriverà da dietro e li farà fuori tutti!» Gridava per contrastare il rumore del treno. «Se lo dice lei», commentò con un sorrisetto L’uomo che fischietta, pensando a quando avrebbero trovato il cadavere dell'ispettore in quella BMW nuova di zecca.

«Gesù, Giuseppe e Maria.» Hans non riuscì a controllare un tono di incredulità. «E 'sta roba te l'avrebbe data una suora?» La baciò sulla fronte, poi uscì. «Ciao, Liesel, Knoller mi aspetta.»

«Ciao, Papà.»

«Liesel!»

Una voce la richiamava.

Fece finta di non avere sentito.

«Vieni a mangiare qualcosa!» insistette la voce.

Questa volta rispose: «Arrivo, Mamma». In realtà disse quelle parole a Max, mentre si avvicinava e posava il libro sul comodino, assieme alle altre cose. Quando si chinò su di lui, non poté impedirsi di sussurrare: «Coraggio, Max», e neppure il rumore dei passi di Mamma alle sue spalle la trattenne dallo scoppiare a piangere silenziosamente.

Non le impedì di raccogliere in una mano una goccia di acqua salata, per lasciarla cadere sul viso di Max Vandenburg.

Mamma l'abbracciò. Le sue braccia l'avvolsero completa mente.

«Lo so», disse soltanto.

Sapeva.

Aria fresca, un vecchio incubo e

cosa fare di un cadavere ebreo

Sulla riva dell'Amper Liesel aveva appena confessato a Rudy che aveva intenzione di procurarsi un altro libro in casa del sindaco. Al posto dell ’uomo che fischietta aveva riletto parecchie volte L’uomo che sovrasta al capezzale di Max. Una lettura che durava solo qualche minuto. Aveva provato anche Un’alzata di spalle, persino il Manuale del necroforo, ma nessuno sembrava quello giusto. Ci voleva qualcosa di nuovo, pensava.

«Hai letto anche l'ultimo?»

«Sicuro che l'ho letto.»

Rudy lanciò un sasso nell'acqua. «Era bello?» «Certo che lo era.»

«Sicuro, certo...» Rudy cercò di cavare fuori un altro sasso dal terreno, ma si tagliò un dito. «Così impari.» « Saumensch

Quando l'ultima replica di qualcuno era Saumensch o Saukerl o Arschloch, capivi di averlo sconfitto.

In termini di furto, le condizioni erano perfette. Era un triste pomeriggio dei primi di marzo, con una temperatura di appena qualche grado sopra lo zero, sempre meno spiacevole che dieci sotto. Nelle strade c'erano pochissime persone. Pioggia come trucioli di matita grigia. «Andiamo?»

«Le biciclette», disse Rudy. «Puoi usare una delle nostre.»

In quella circostanza Rudy fu molto più disponibile a essere (quello che entrava. «Oggi tocca a me», disse, mentre le loro dita si gelavano sul manubrio della bicicletta.

Liesel rifletté alla svelta. «Forse no, Rudy. Lì dentro c'è roba dappertutto, ed è buio. Un cretino come te è capace di inciamparsi o andare a sbattere contro qualcosa.»

«Tante grazie.» Di quell'umore, era difficile tenere a bada Rudy.

«E poi c'è anche il salto, più alto di quanto credi.» «Stai dicendo che secondo te io non ne sarei capace?» Liesel si alzò sui pedali. «Niente affatto.» Attraversarono il ponte e zigzagarono su per la collina, verso la Grandestrasse. La finestra era aperta.

Scrutarono la casa, come l'ultima volta. Riuscivano a guardarvi confusamente dentro: c'era un po' di luce al piano terreno, dove era probabile che si trovasse la cucina. Un'ombra si muoveva avanti e indietro.

«Faremo qualche giro dell'isolato», disse Rudy. «Che fortuna essere venuti in bici, eh?»

«Purché ti ricordi di riportare a casa la tua.»

«Fa proprio ridere, Saumensch. È un po' più grossa delle tue scarpe sporche.»

Pedalarono per forse una quindicina di minuti, ma la moglie del sindaco era sempre al pian terreno, un po' troppo vicina per i loro gusti.

Come osava occupare, così vigile, la cucina? Di certo per Rudy era la cucina il vero obiettivo: se ci fosse arrivato, avrebbe rubato tutte le cibarie che gli fosse riuscito; poi, se (e soltanto se) gli fosse rimasto un ultimo momento libero, si sarebbe cacciato un libro nei calzoni, mentre se la filava. Uno qualsiasi sarebbe andato bene.

Il punto debole di Rudy, però, era l'impazienza. «Si fa tardi», disse, e rallentò. «Vieni?»

Liesel non veniva.

Non c'erano decisioni da prendere. Aveva trascinato fin lì quella bicicletta rugginosa, e non intendeva tornarsene via senza un libro. Posò il manubrio in un fosso, guardò in giro che non ci fossero vicini in vista e si diresse verso la finestra, svelta ma senza fretta. Stavolta si sfilò le scarpe con i piedi, schiacciandosi i talloni con le dita.

Le sue dita s'irrigidirono sul legno mentre si spingeva all'interno.

Ora si sentiva più a suo agio. Per qualche prezioso istante si aggirò nella stanza, in cerca di un titolo che la colpisse. In tre o quattro occasioni fece per allungare un braccio. Pensò persino di prenderne più d'uno, ma decise di non modificare ciò che era diventato una sorta di metodo: per ora, le occorreva un libro solo. Esaminò gli scaffali e attese.

L'oscurità saliva dalla finestra dietro di lei. L'odore di polvere e di furto aleggiava in sottofondo, quando lo vide.

Il libro era rosso, con una scritta nera sul dorso: Der Traumträger, Colui che porta i sogni. Pensò a Max Vandenburg e ai suoi sogni di colpa, di sopravvivenza, di abbandonare la propria famiglia, di battersi con il Führer. Pensò anche al proprio sogno, a suo fratello morto sul treno, e alla sua comparsa sui gradini dietro l'angolo di quella medesima stanza. La ladra di libri gli guardava il ginocchio insanguinato a causa di una spinta datagli da lei...

Estrasse il libro dallo scaffale, se lo infilò sotto un braccio, salì sul davanzale della finestra e saltò giù, con un unico movimento.

Stavolta Rudy aveva le sue scarpe, e teneva pronta la bicicletta.

Infilate le scarpe, partirono.

«Gesù, Giuseppe e Maria, Meminger.» Non l'aveva mai chiamata Meminger prima di allora. «Sei matta da legare, lo sai?»

Liesel ne convenne, mentre pedalava furiosamente. «Lo so.»

Al ponte, Rudy ricapitolò i risultati conseguiti quel pomeriggio.

«Pure quelli sono matti da legare», disse, «oppure gli piace stare al fresco.»

***UN'IPOTESI ***

Oppure nella Grandestrasse c'era una donna che teneva aperta la finestra della biblioteca per un altro motivo... ma sono solo cinica, o fiduciosa, o tutt'e due le cose.

Liesel si mise Colui che porta i sogni sotto la giacca, mettendosi a leggerlo nel medesimo istante in cui tornò a casa. Sulla sedia di legno accanto al letto, aprì il volume e mormorò: «Ce n'è uno nuovo, Max.

Apposta per te». Lo aprì e cominciò: «Capitolo Primo: fu giustissimo che l'intera città dormisse quando nacque Colui che porta i sogni ...»

Ogni giorno Liesel leggeva due capitoli del libro. Uno al mattino prima di andare a scuola, l'altro appena tornava a casa. Certe notti, quando non riusciva a dormire, leggeva metà o un terzo di capitolo. A volte cascava addormentata, china sulla sponda del letto.

Divenne la sua missione.

Offriva Colui che porta i sogni a Max come se solo le parole potessero nutrirlo. Un martedì pensò che ci fosse un movimento: avrebbe giurato che aveva aperto gli occhi. Se sì, fu per un istante appena, e più probabilmente fu solo una sua fantasia, un pio desiderio.

A metà marzo le cose si erano fatte serie.

Un pomeriggio, in cucina, Rosa Hubermann - la donna che ci voleva nei momenti critici - era al punto di rottura. Alzò la voce, poi l'abbassò nuovamente. Nondimeno, Liesel smise di leggere ed entrò silenziosa in salotto. Facendosi più vicina, riusciva a malapena a udire la voce di sua madre. Quando fu in grado di distinguerne le parole, volle non averlo fatto, perché ciò che sentì era orribile. Era la realtà.

*** LE PAROLE DI MAMMA ***

E se non si sveglia? E se ci muore qui, Hansie? Dimmi. In nome di Dio, che cosa ne facciamo del corpo? Mica possiamo lasciarlo qui, l'odore ci farebbe impazzire...

E non possiamo nemmeno portarlo fuori e trascinarlo per la strada.

Non possiamo certo andare in giro a dire: «Non indovinereste mai che cosa abbiamo trovato stamattina in cantina...» Ci porterebbero via per sempre.

Aveva assolutamente ragione.

Un cadavere ebreo era un grosso problema. Gli Hubermann avevano bisogno di rianimare Max Vandenburg non solo per il suo bene, ma anche per il proprio. Persino Papà, il cui influsso era sempre assolutamente tranquillizzante, si sentiva sotto pressione.

Era taciturno e grave. «Dovesse succedere... se muore... dovremo trovare una soluzione.» Liesel avrebbe giurato di udirlo inghiottire. Un singhiozzo simile a un colpo sulla trachea. «Il carretto delle vernici, qualche telone...»

Liesel entrò in cucina.

«Non ora, Liesel.» Era stato Papà a parlare, ma senza guardarla.

Contemplava il proprio viso riflettersi deformato nella convessità di un cucchiaio. Teneva i gomiti piantati sul tavolo.

La ladra di libri non si ritirò; anzi, fece qualche altro passo avanti e si sedette. Le sue mani fredde cercavano a tentoni le maniche, e una frase si trascinò fuori delle labbra: «Non è ancora morto». Le sue parole andarono a cadere in mezzo al tavolo, dove tutti e tre rimasero a fissarle. Mezze speranze che non avevano il coraggio di levarsi più in alto. Non è ancora morto. Non è ancora morto. Fu Rosa a parlare:

«Qualcuno ha fame?»

Probabilmente il solo momento in cui la malattia di Max non destava preoccupazioni era l'ora di cena. Nessuno rifiutò la proposta di Rosa.

Tutti e tre sedevano al tavolo della cucina con un altro po' di pane, di minestra o di patate. Tutti pensavano alla stessa cosa, ma nessuno lo disse.

Poche ore dopo, quella notte, Liesel si destò, riflettendo «al colmo del cuore». (Aveva imparato quell'espressione da Colui che porta i sogni, che in sostanza era l'esatto contrario dell’ uomo che fischietta: un libro su un bambino abbandonato che voleva divenire sacerdote.) Si levò a sedere, aspirando profondamente l'aria notturna.

Papà si rigirò. «Liesel? Che c'è?»

«Niente, Papà, va tutto bene», ma nel medesimo istante in cui terminava la frase seppe con precisione che cosa era avvenuto nel suo sogno.

*** UNA BREVE VISIONE ***

Più o meno è sempre la stessa storia. Il treno viaggia alla stessa velocità. Suo fratello tossisce forte. Stavolta, però, Liesel non riesce a vedere il suo viso rivolto verso il pavimento. Si china lentamente.

Gli solleva con delicatezza la testa, e di fronte a lei ecco che appaiono occhi sbarrati di Max Vandenburg, che la fissano.

Una piuma cade al suolo.

Adesso il corpo è cresciuto, proporzionato alla testa.

Il treno fischia.

«Liesel?»

«Ti ho già detto che va tutto bene.»

Rabbrividendo, la ragazza si alzò dal giaciglio. Istupidita dalla paura, percorse il corridoio fin da Max. Dopo essere rimasta parecchi minuti al suo fianco, quando ogni cosa fu calma tentò di interpretare il suo sogno.

Era una premonizione della morte di Max? Oppure una semplice reazione ai discorsi di quel pomeriggio in cucina? Ora Max aveva sostituito suo fratello? Se sì, come poteva avere rigettato da sé in quel modo la sua stessa carne, il suo stesso sangue? Forse c'era persino un desiderio profondo che Max morisse. Dopo tutto, se era andato bene per Werner, suo fratello, poteva andare bene anche per quell'ebreo.

«È questo che pensi?» sussurrò, in piedi accanto al letto. «No.» Non ci poteva credere. La sua risposta ebbe conferma quando l'incertezza dell'oscurità diminuì, delineando sul comodino svariate forme grandi e piccole: i suoi regali.

«Sveglia», gli disse.

Max non si svegliò per altri otto giorni.

A scuola, s'udì un rumore di nocche sulla porta. «Avanti», disse Frau Olendrich.

La porta si aprì e l'intera classe di ragazzi squadrò stupita Rosa Hubermann, in piedi sull'uscio. A tale vista un paio di loro boccheggiò: un piccolo armadio di donna con un ghigno di rossetto e occhi acidi.

Una leggenda. Indossava gli abiti migliori, ma i suoi capelli erano un disastro, un cencio di stecchi grigi ed elastici.

L'insegnante, si capisce, si spaventò. «Frau Hubermann...» I suoi movimenti erano impacciati. «Liesel?»

Liesel guardò Rudy, si alzò e uscì in fretta per mettere fine il più presto possibile all'imbarazzo. Il battente si chiuse dietro di lei, e ora era sola in corridoio, di fronte a Rosa.

«Che cosa c'è, Mamma?»

La donna si volse. «Non mi dire 'Che cosa c'è, Mamma', piccola Saumensch!» Liesel rimase attonita dalla rapidità. «La mia spazzola!»

Uno scroscio di risate eruppe da dietro la porla, ma venne subito represso.

«Mamma?»

Rosa faceva una faccia severa, ma sorrideva. «Che diavolo hai combinato con la mia spazzola, stupida Saumensch, ladruncola? Ti avrò detto cento volte di lasciarla stare, ma tu ascolti? No di certo!»

La sgridata si prolungò per forse un altro minuto, con un paio di disperati tentativi di Liesel di suggerire la possibile ubicazione della suddetta spazzola; poi d'un tratto finì, quando, per pochi istanti, Rosa si tirò accanto Liesel. Anche da tanto vicino, quasi inudibile fu il suo bisbiglio: «Mi avevi detto di sgridarti. Avevi detto che ci avrebbero creduto tutti». Guardò a destra e a sinistra, con una voce come ago e filo. «Si è svegliato, Liesel. È sveglio.» Tirò fuori di tasca il soldatino tutto scrostato. «Ha detto di darti questo. Era il suo preferito.» Glielo porse, le strinse forte le braccia e sorrise. Prima che Liesel potesse rispondere, terminò la sua sfuriata. «E allora? Rispondi! Hai qualche altra idea di dove potresti averla lasciata?»

È vivo, pensò Liesel. «No, Mamma, io...»

«E allora a che cosa servi?» La lasciò andare e se ne andò.

Liesel rimase immobile per qualche istante. Il corridoio era enorme.

Studiò il soldatino che teneva nel palmo della mano: l'istinto le diceva di correre immediatamente a casa, ma il buon senso non glielo consentì.

Si mise in tasca il soldatino malridotto e tornò in classe.

Tutti la guardarono.

«Stupida vacca», mormorò fra i denti.

I ragazzi risero di nuovo; Frau Olendrich no.

«Che cosa hai detto?»

Liesel era talmente su di giri da sentirsi invincibile. Rispose: «Ho detto stupida vacca», e non dovette attendere un solo istante perché le arrivasse uno schiaffo sulla faccia.

«Non parlare così di tua madre», disse, ma le sue parole non sortirono l'effetto desiderato: la ragazza si limitò a un tentativo di soffocare il riso. Il ceffone non l'aveva smossa di un centimetro. «E adesso torna al tuo posto.»

«Sì, Frau Olendrich.»

«Gesù, Giuseppe e Maria», sussurrò Rudy, «si vede l'impronta della mano sulla faccia: un grossa mano rossa. Cinque dita!»

«Molto bene», rispose Liesel, perché Max era vivo.

Quando tornò a casa quel pomeriggio, Max era seduto sul letto, con in grembo il pallone sgonfio. La barba gli prudeva, e i suoi occhi liquidi lottavano per rimanere aperti. Accanto ai regali, una scodella di minestra vuota.

Non si dissero ciao.

La porta cigolò, la ragazza entrò e si fermò davanti a lui, guardando la scodella. «Mamma te la caccia in gola a forza?» Lui annuì stancamente, soddisfatto. «Però era buonissima.» «La minestra di Mamma? Sul serio?»

«Grazie per i regali.» Non fu un sorriso ciò che le fece Max: piuttosto una lieve fessura tra le labbra. «Grazie per la nuvola. Tuo papà me l'ha spiegato un po' di più.»

Dopo un'ora, anche Liesel fece un tentativo di verità. «Non sapevamo che fare se fossi morto, Max. Noi...»

A lui non occorse molto. «Vuoi dire come liberarvi di me...» «Mi dispiace.»

«No, avevate ragione.» Non si era offeso. Giocherellava svogliatamente con il pallone. «Avevate ragione a pensarla così. Nella vostra situazione, un ebreo morto è pericoloso quanto uno vivo, forse peggio.»

«Ho anche sognato.» Gli spiegò nei particolari il suo sogno, con il soldatino stretto nel pugno. Era sul punto di scusarsi, quando Max intervenne.

«Liesel», disse, inducendola a guardarlo. «Non devi neppure chiedermi scusa.» Guardò tutte le cose che gli aveva portato. «Guarda tutto ciò. Questi regali.» Teneva in mano il bottone. «Rosa ha detto che leggevi per me due volte al giorno, certuni di più.» Guardò poi le tende come se potesse vedervi attraverso. Si tirò un po' più su, rimanendo in silenzio per il tempo di una dozzina di frasi. Sul suo viso comparve la trepidazione, e confessò alla ragazza: «Ho paura di addormentarmi di nuovo».

Liesel fu risoluta. «Allora leggerò per te, e se ricominci a pisolare ti piglierò a schiaffi in faccia. Chiuderò il libro e ti scuoterò finché non ti sveglierai.»

Quel pomeriggio, e per un bel pezzo nella serata, Liesel lesse per Max Vandenburg. Lui sedette sul letto ad assorbire le sue parole, stavolta sveglio, fino alle dieci passate. Quando Liesel fece un attimo di pausa, sollevò lo sguardo al di sopra del volume, e Max si era addormentato. Lo toccò nervosamente con il libro, e si svegliò.

Si assopì altre tre volte, e per due Liesel lo ridestò.

Nei quattro giorni successivi Max si svegliò ogni mattina nel letto di Liesel, poi presso il caminetto e finalmente, verso la metà di aprile, in cantina. La sua salute era migliorata, si era tagliato la barba ed era tornato a mettere su qualche briciolo di peso.

In quel periodo, Liesel provava un grande sollievo nel suo mondo interiore; all'esterno, invece, le cose incominciavano a complicarsi. Alla fine di marzo un posto chiamato Lubecca subì una pioggia di bombe.

La successiva della lista sarebbe stata Colonia, e ben presto molte altre città tedesche, compresa Monaco.

Già, il capo mi teneva il fiato sul collo.

«Lavora, lavora.»

Erano in arrivo le bombe... e io con loro.

Diario della Morte: Colonia

Ultime ore del 30 maggio.

Sono certa che Liesel Meminger dormisse sodo quando oltre Un migliaio di bombardieri volarono su un luogo noto come Colonia. Per me il risultato furono più o meno cinquecento persone; altre 50.000 vagabondavano senza tetto intorno a spettrali cumuli di macerie tentando di capirci qualcosa, e a chi appartenessero le rovine delle case distrutte.

Cinquecento.

Le portavo tra le dita come valige, oppure me le gettavo sulle spalle; solo i bambini li reggevo fra le braccia.

Quando terminai, il cielo era giallo come un giornale che brucia. A guardarlo attentamente, potevo scorgere titoli, commenti sull'andamento della guerra e così via. Quanto mi sarebbe piaciuto tirare giù tutto, stracciare quel cielo di giornale e gettarlo via. Mi facevano male le braccia, però, e non potevo permettermi di scottarmi le dita, poiché avevo ancora molto lavoro da fare. Come immaginerai, alcuni morirono subito; altri ci misero un po' di più. Avevo molti altri luoghi da visitare, cieli da incontrare e anime da raccogliere, e quando tornai a Colonia, poco dopo il passaggio degli ultimi aerei, notai una cosa singolare, anzi unica.

Ero intenta a raccogliere l'anima malconcia di una ragazza, quando ho alzato lo sguardo verso l'orizzonte sulfureo. C'era un gruppo di ragazzine di circa dieci anni. Una chiese: «E quello che cos'è?»

Tese un braccio, indicando un oggetto nero e lento che cadeva dal cielo. Assomigliava a una piuma nera che veniva giù piano, svolazzando e volteggiando; o a un fiocco di cenere. Poi si fece più grande. La medesima bambina - con i capelli rossi e le lentiggini - domandò di nuovo, con più enfasi: «Che cos'è?»

«È un corpo», suggerì un'altra bambina, con capelli scuri e le trecce.

«È un'altra bomba!»

Troppo lenta per essere una bomba.

Con quell'anima che ancora bruciava un poco fra le mie mani, percorsi qualche centinaio di metri assieme a loro, gli occhi fissi al cielo: l'ultima cosa che desideravo era abbassare lo sguardo sul viso irrigidito dell'adolescente che portavo in braccio. Una ragazza carina.

La morte ormai era davanti a lei.

Mi colse alla sprovvista una voce levatasi di colpo: un padre irritato, che ordinava ai figli di rientrare. La testolina rossa reagì, e le sue lentiggini si allargarono come virgole. «Ma papà, guarda lassù.»

L'uomo fece qualche passo, e presto capì di che cosa si trattasse. «È benzina», disse. «Come?»

«Benzina», ripeté lui. «Un serbatoio.» Era un uomo calvo, con il vestito sdrucito. «Hanno consumato tutto il carburante e sganciano il serbatoio vuoto. Guarda, là ce n'è un altro.»

«E anche qui!»

Dato che i bambini sono pur sempre bambini, si misero tutte a cercare freneticamente, per individuare un altro serbatoio di carburante esaurito che volteggiava verso terra.

Il primo piombò al suolo producendo il rumore di un bidone vuoto.

«Papà, possiamo tenerlo?» domandò la bambina dai capelli rossi.

«No», rispose scocciato il padre. «Non si può prendere.» «Perché no?»

«Io chiedo al mio papà se posso tenerlo», disse un'altra bambina.

«Anch'io.»

Fra le rovine di Colonia, c'era un gruppo di bambine che raccoglieva serbatoi di carburante vuoti, sganciati dal nemico.

E c'ero io, che come sempre raccoglievo esseri umani. Ero stanca, e l'anno non era ancora neppure a metà.

Il visitatore

I ragazzi avevano trovato un nuovo pallone per giocare a calcio, e questa era la buona notizia. Quella cattiva era che stava arrivando una delegazione del Partito Nazista.

Passavano Molching al setaccio, strada per strada, casa per casa. Si fermarono un momento al negozio di Frau Diller, a fumare una sigaretta prima di proseguire il loro lavoro.

A Molching c'era già qualche rifugio antiaereo, ma, poco dopo il bombardamento di Colonia, si decise che qualche altro non avrebbe certo fatto male. Il NSDAP ispezionava una per una le case, per individuare gli scantinati adatti.

I bambini guardavano da lontano, osservando il fumo levarsi dal gruppo.

Liesel era appena uscita e si dirigeva verso Rudy e Tommy.

Harald Mollenhauer era andato a recuperare il pallone. «Che succede qui?»

Rudy in cacciò le mani in tasca. «Il Partito.» Seguiva con lo sguardo l'amico passare con la palla davanti alla siepe di Frau Holtzapfel.

«Controllano tutte le case e i fabbricati.»

La bocca di Liesel si fece immediatamente secca. «Perché?»

«Ma non sai niente? Diglielo, Tommy.»

Tommy sembrò perplesso. «Be', io non lo so.»

«Siete proprio una frana, voi due. C'è bisogno di più rifugi antiaerei.»

«Che cosa... le cantine?»

«No, i solai. Certo che sono le cantine. Gesù, Liesel, sei proprio una zuccona, sai?» La palla era arrivata. «Rudy!»

Si gettò sul pallone, ma Liesel rimaneva immobile. Come poteva rientrare in casa senza destare troppi sospetti? Il fumo da Frau Diller era scomparso, e il gruppetto di uomini incominciava a sciogliersi. Il panico si creava in quel modo orribile: gola e bocca. Il respiro come sabbia.

Rifletti, pensò. Forza, Liesel, rifletti, rifletti.

Rudy fece un goal.

Voci che si complimentavano con lui, lontano lontano. Pensa, Liesel... Ebbe un'idea.

Trovato, decise. Però devo metterla in pratica.

Mentre i nazisti procedevano lungo la strada, dipingendo su alcune porte le lettere LSR, il pallone fu passato al volo a uno dei ragazzi più grossi, Klaus Behrig.

*** LSR ***

Luftschutzraum: rifugio antiaereo.

Il ragazzo si girò con la palla proprio mentre arrivava Liesel, e i due si scontrarono con tale violenza che dovettero interrompere il gioco. I giocatori accorsero, mentre la palla rotolava via. Liesel si stringeva con una mano il ginocchio sbucciato, con l'altra la testa. Klaus Behrig si comprimeva solo lo stinco destro, tra smorfie e imprecazioni. «Dov'è quella?...» sbuffava. «Io la ammazzo!»

Non c'era nessuno da ammazzare: peggio.

Un cortese membro del Partito aveva assistito all'incidente e trotterellò premuroso verso il gruppo. «Che cos'è successo?» domandò.

«Quella lì è matta.» Klaus additò Liesel, invitando l'uomo ad aiutarla. Il suo alito, che sapeva di tabacco, era come una nuvola davanti al viso della ragazza.

«Non credo che tu sia in grado di continuare a giocare, ragazza mia», disse l'uomo. «Dove abiti?»

«Sto bene», rispose lei. «Sul serio. Posso fare da sola.» Basta che mi stai lontano, che giri al largo.

Fu allora che si fece avanti Rudy, l'eterno impiccione. Perché, una volta tanto, non si faceva i fatti propri?

«Davvero, continua pure a giocare, Rudy», disse Liesel. «Ce la faccio.»

«No, no.» Non l'avrebbe spostato: che testa dura! «Mi ci vorrà solo un minuto o due.»

Liesel fu di nuovo costretta a riflettere, e di nuovo ebbe un'idea. Con Rudy che la sosteneva, si lasciò ricadere a terra, sulla schiena. «Papà», disse. Il cielo, notò, era assolutamente azzurro, senza la minima traccia di nuvole. «Puoi andare a chiamarlo, Rudy?»

«Non ti muovere.» Gridò alla sua destra: «Bada a lei, Tommy. Non lasciarla muovere».

Tommy si affrettò a entrare in azione. «A lei ci penso io, Rudy.»

Incombeva su di lei sorridendo e facendo smorfie, mentre Liesel teneva d'occhio l'uomo del Partito.

Un minuto dopo, Hans Hubermann era accanto a lei, tranquillo.

«Ehi, Papà.»

Sulle sue labbra un sorriso un po' contrariato si mescolò al fumo della sigaretta. «Mi chiedevo quando sarebbe successo.»

La sollevò, aiutandola ad andare a casa. La partita riprese, e il nazista era già sulla soglia di un appartamento a qualche porta di distanza.

Nessuno rispose. Rudy gridò di nuovo: «Ha bisogno di aiuto, Herr Hubermann?»

«No, no, continui pure a giocare, Herr Steiner.» Herr Steiner.

Bisognava proprio volere bene al papà di Liesel.

Una volta in casa, Liesel lo informò di ciò che accadeva, sforzandosi di trovare una via di mezzo tra silenzio e disperazione.

«Papà.»

«Non parlare.»

«Il Partito», bisbigliò. Papà si arrestò, soffocando l'impulso di aprire la porta per guardare in strada. «Ispezionano le cantine per farne rifugi.»

Hans la tirò su. «Brava ragazza», disse; poi chiamò Rosa.

Avevano un minuto di tempo per fare un piano. Un guazzabuglio di pensieri.

«Be', possiamo metterlo nella stanza di Liesel, sotto il letto», concluse Mamma.

«Che cosa? E se quelli decidono di frugare anche le stanze?»

«Hai un'idea migliore?»

Rettifica: non avevano un minuto di tempo.

Bussarono alla porta del numero 33 della Himmelstrasse, sette colpi, e fu troppo tardi per spostare qualcuno.

La voce.

«Aprite!»

Il battito dei loro cuori era una lotta, una confusione di ritmi fuori controllo. Liesel tentava di ingoiarsi il proprio. Il gusto del cuore non era dei più esaltanti.

Rosa sussurrò: «Gesù, Giuseppe...»

Stavolta fu Papà ad agire. Si precipitò in cantina, gridando un avvertimento mentre scendeva i gradini. Quando risalì, disse in fretta e furia: «Non c'è tempo per trucchi. Potremmo distrarlo in cento modi, ma la soluzione è una sola». Guardò la porta e riassunse: «Nessuna».

Non era la risposta che Rosa voleva. Sgranò gli occhi. «Niente? Sei matto?» Bussarono di nuovo.

Papà fu esplicito. «Niente. Non dobbiamo neppure scendere. .. non avere un solo pensiero al mondo.» Tutto si muoveva con lentezza.

Rosa si rassegnò. Oppressa dall'angoscia, scosse il capo e andò ad aprire la porta.

«Resta calma, Liesel, Verstehst?» La voce di Papà era tagliente.

«Sì, Papà.»

Si sforzò di concentrarsi sul ginocchio sanguinante.

«Aha!»

Sull'uscio, Rosa stava ancora chiedendo il motivo di quella visita, quando il cortese membro del Partito notò Liesel.

«La fanatica del pallone! Come va il ginocchio?» Di solito non t'immagini che i nazisti fossero troppo allegri, ma quell'uomo di sicuro lo era. Entrò, facendo come se volesse abbassarsi a esaminare la ferita.

Lo sa? pensò Liesel. Riesce a fiutare che nascondiamo un ebreo?

Papà venne dal lavandino con un panno inzuppato, servendosene per bagnare il ginocchio di Liesel. «Fa male?» I suoi occhi d'argento erano calmi e premurosi. La paura poteva essere facilmente scambiata per preoccupazione per la ferita.

«Non può farle tanto male», disse Rosa attraverso la cucina. «Forse le servirà di lezione.»

L'uomo del Partito si raddrizzò e rise. «Non credo che questa ragazza impari lezioni, Frau?...»

«Hubermann.» La faccia di cartone si contrasse.

«...Frau Hubermann. Credo che ne insegni lei, di lezioni.» Rivolse un sorriso a Liesel. «A tutti quei maschi. Non ho ragione, ragazzina.?»

Papà premette il panno sul graffio e Liesel trasalì, anziché rispondere. Fu Hans a parlare, scusandosi pacatamente con la ragazza.

Poi ci un silenzio imbarazzato, e l'uomo del Partito ricordò il motivo per cui era venuto. «Se non vi dispiace», spiegò, «ho bisogno di ispezionare la vostra cantina, solo un paio di minuti, per vedere se può servire da rifugio.»

Papà tamponò un'ultima volta il ginocchio di Liesel. «Qui ti sei fatta anche un bel livido, Liesel.» Accidentalmente, si avvide dell'uomo accanto a lui. «Ma certo. Prima porta a destra. Scusi il disordine.»

«Non si preoccupi... non sarà peggio di certi posti che ho visto oggi...

Questa porta?»

«Quella.»

*** I TRE MINUTI PIÙ LUNGHI ***