LEALI TRADITORI
Anno
dell’Acqua Grigia – 603° dall’Inizio dell’Assedio
Drith si accucciò nella gabbia, riparando la testa alla meglio mentre il fragore faceva vacillare la collina e i depositi, quasi la terra si fosse appena aperta per ingoiarli. Un violento colpo di aria incandescente schiacciò come un fuscello la gabbia a terra, piegando le sbarre, e poi la scaraventò di lato, staccandola dalla catena e scagliandola contro casse e cumuli di lamine di metallo. Il colpo la stordì, le sbarre si piegarono con un gemito, i polmoni di Drith si svuotarono e lei annaspò, costretta a lottare in un inferno di fumo bollente, detriti e terra. Pensò che sarebbe morta, e che la fiammata avrebbe incenerito anche Woos, ma poi la nube incandescente passò e, lottando contro lo stordimento, Drith si rese conto che era ancora viva.
Una parte del soffitto era crollata, sventrando il deposito e soffocando ciò che ne restava in un fumo acre e un orrendo fetore. Sconvolta, stordita e livida, si mosse, sputò un grumo di sangue e, tossendo, cercò di nuovo aria tenendo la manica lacera davanti a naso e bocca. E in quel mondo innaturale, nel bagliore rosseggiante delle lingue di fiamma che lambivano ancora il centro dell’esplosione, qualcosa vicino a lei si mosse e Drith vide un’ombra cercare di rialzarsi da terra.
Tutto era fallito. L’esplosione aveva ucciso i Dragoni, aveva ucciso ogni speranza di salvezza, e non aveva travolto lui. Non Woos, pensò con gli occhi che lacrimavano e il viso che bruciava là dove aveva cozzato contro le sbarre e il calore l’aveva strinato. Con la sola forza della disperazione tastò le sbarre con le dita doloranti e si aggrappò a quelle piegate e spezzate, cercando di forzarle. Cercò di fare leva con i piedi ma erano scalzi, così si allungò finché non riuscì ad afferrare uno dei pezzi di metallo contro cui la gabbia era stata scaraventata.
La forma coperta di polvere si scrollò di dosso i detriti e a malapena riuscì a trascinarsi sulle ginocchia; Drith gli vide sputare fiele e sangue fremendo di rabbia e dolore, ma solo quando alzò il viso si rese conto che non era Woos.
Aric di Ooterham era sopravvissuto e il sollievo che provò in quel momento la sbalordì. Il loro sguardo s’intrecciò per un istante brevissimo e, nel volto cereo, vide correre un lampo di spaventosa consapevolezza. La stessa che fece tremare lei. Woos era fuggito. E lei doveva inseguirlo.
Lasciò cadere la lamina di metallo per afferrare di nuovo le sbarre e tentare di piegarle con la poca forza che le aveva lasciato restare immobile e malnutrita per giorni, mentre il corpo scoordinato di Aric trovò la forza di alzarsi per accennare a un inseguimento in direzione di ciò che restava dell’ingresso del deposito, solo per ricadere sulle ginocchia, la protesi piegata in modo innaturale. Mosse le labbra, ma le orecchie di Drith rombavano ancora e non capì cosa avesse detto.
Lo vide aggiustarsi la gamba e tirarsi di nuovo in piedi. Era disarmato, nero di fuliggine, lividi e sangue perché era stato investito in pieno dalle pietre.
«Avevo ordinato a quegli idioti di spostare la polvere! Li ho visti spostarla!» ringhiò, come se servisse a qualcosa. Questo Drith riuscì a sentirlo, anche se come un bisbiglio lontanissimo. «State bene?» le chiese poi, tossendo. E Drith fu meravigliata da lui, come lo era stata quando aveva visto la freccia sbalzare indietro Woos dalla sua gabbia, e come lo era stata del proprio sollievo, pochi istanti prima.
Ricordò la sensazione dello stiletto di Woos che le trafiggeva la mano. Abbassò lo sguardo e finalmente sentì il dolore della ferita che si era procurata tentando di proteggersi. Il suo dito indice sembrava innaturalmente lungo, perché la lama lo aveva separato dal resto delle dita e il sangue che le era colato lungo il polso era nero di fuliggine. «Deve aver annullato il vostro ordine... per coprirsi la fuga. O il mio assassinio...» disse, afferrando il palmo quasi cercasse di riparare il danno. «Può sembrare pazzo, ma è astuto. E pericoloso. Fatemi uscire di qui» disse, e anche la sua voce le sembrò lontana.
Aric la guardò con il riflesso delle fiammelle negli occhi. «Dobbiamo andarcene o finiremo...» cominciò a dire, poi trasalì e, come ricordando solo allora il resto, impallidì sotto lo strato di nerofumo e balzò verso la parte crollata. «Lord Odar!» gridò. «Signore!»
«Dobbiamo inseguire Woos! O sarà tutto inutile!» cercò di trattenerlo lei, ma il Dragone le aveva già voltato le spalle, gettandosi sulle macerie bollenti, per ribaltarle con la gamba finta.
Cercare di fermarlo era inutile, ma lo capiva. Così Drith afferrò la manica, la strappò e la legò intorno al palmo, stringendo il nodo con i denti. Poi agguantò con entrambe le mani un’estremità delle sbarre spezzate dall’urto e con i piedi cercò di forzarla. Era sola, come sempre. Non poteva contare su nessun aiuto. Woos era una questione personale, che doveva risolvere come Pugno. I Dragoni ora sapevano, Aric di Ooterham sapeva. Woos spettava a lei.
Aric si avventò in quel calore asfissiante e tra le sottili colonne di fumo nero, riuscendo a vedere i brandelli di cielo notturno nella cavità che si era aperta quando il soffitto era crollato. «Signore!» chiamò di nuovo, costretto a coprirsi la bocca con la manica per poter respirare.
Non c’erano molte possibilità, ma se Odar era morto e la spia ancora viva, allora ogni speranza era morta con lui. Nessuno, men che meno la Mano, avrebbe creduto a un artigliere pazzo che, avrebbero detto, si era fatto manipolare da una donna come un burattino. Odar invece sapeva. E aveva sentito quel viscido bastardo parlare, minacciare...
«Signore!» gridò di nuovo. Poi vide una manica sporgere da sotto un cumulo di detriti, sotto una tavola di legno.
«All’inferno!» tossì la voce dell’uomo, lontana e spezzata. «Mi pareva di avervi detto di non chiamarmi “signore”...» ansò.
Una grossa sbarra di metallo lo schiacciava e Aric si avvicinò per eliminare parte delle macerie. «Avreste dovuto ordinarmelo» disse, cercando di sollevarla. Odar però emise un ringhio rauco e lui fu costretto a fermarsi. Era bruciacchiato, sporco e ansante, ma quel che era peggio, un grosso frammento di legno scheggiato gli aveva perforato la tenuta da battaglia, e gli si era conficcato nel ventre, trapassandolo da parte a parte. Non vedeva sangue, ma solo perché tutto era nero di fuliggine e terra, e baluginante di fiammelle che si tendevano spasmodiche verso il cielo, abbeverandosi d’aria e tingendo di rosso ciò che restava del deposito. «Devo portarvi via di qui!» esclamò tossendo.
«Non siate sciocco» lo apostrofò Odar con una smorfia.
«Se restiamo moriremo soffocati. O peggio. Venite» insisté lui, riprovando a muoverlo, mentre una piccola esplosione si riverberava in alto, oltre lo squarcio fumante.
Odar però mosse la mano con l’anello che indicava il suo grado di comando, per fermarlo. Era coperta di sangue e appiccicaticcia. «È tardi...» rantolò. Poi tirò l’aria tra i denti, facendo ammiccare sul volto sudicio i denti bianchissimi. «L’avete preso?»
«Non ancora» ammise Aric.
«Dovete prenderlo, consegnarlo alla Mano, giudicarlo davanti a tutti» ringhiò Odar. «...e farlo giustiziare! Io... ve lo ordino» ringhiò, in un gorgoglio rosso sangue.
Aric si chinò verso di lui quanto bastava per vedere la ferita e imprecò. «E chi mi crederà? Sapete meglio di me in che posizione sono. Mi ci avete messo voi...» tuonò. «La Mano non crederà mai a un’accusa lanciata da me... dovete sopravvivere» tossì. Ma entrambi avevano visto abbastanza ferite da sapere che non sarebbe accaduto.
«Portate prove...» sibilò rantolando Odar, gli occhi che iniziavano a velarsi.
«Quali? Le parole della prigioniera?» ribadì lui. Poi tentò di muovere la sbarra e Odar ebbe un ansito atroce. Deglutendo e ansando a denti stretti, si aggrappò con le dita forti alla sua manica, tirandolo verso di sé, e disse: «Date questo alla Mano. Dateglielo e dite... ditegli...» ritentò. Ma non riuscì a finire la frase.
Emise un sospiro più forte e la presa sul braccio di Aric si allentò. Lui lo fissò nel calore opprimente, i capelli bianchi, scarruffati, insudiciati di sangue e fuliggine, gli occhi vuoti che fissavano il nulla, e si sentì travolgere dalla collera.
Si alzò in piedi e si voltò, cercando con la mano la spada per gettarsi all’inseguimento della maledetta spia, ma invece, ombra nell’ombra, vide comparire alla luce delle fiamme il volto indecifrabile di Drith Acuto, macchiato, sanguinante, livido e scarno, gli occhi che sembravano assorbire la luce delle fiammelle e guardargli attraverso, o fissare qualcosa oltre lui. Libera.
Lei lo fissò per una frazione di secondo come se dovesse decidere cosa fare di lui, poi disse: «Date il suo sigillo alla Mano. E ditegli che il debito è stato ripagato. Ora è nelle sue mani».
Lo spirito di Odar era lì. Nonostante tutto ancora incredulo, Aric si voltò, cercandolo con gli occhi. «Quale debito?» le chiese.
«Un debito di sangue» replicò la donna, facendo spallucce come a dire che non importava. «La Mano capirà.»
«Sempre che il vostro amico non la uccida prima...» ringhiò lui tornando a scrutarla, chiedendosi se gli avesse detto la verità. Drith si avvicinò, si chinò sul morto, gli prese l’anello dalle dita forti incrostate di sangue e glielo tese.
Drith lanciò ad Aric i lembi di stoffa che aveva strappato da uno dei corpi dilaniati sparsi intorno al deposito perché legasse la parte danneggiata della sua gamba di legno e metallo. Lui li afferrò e sedette su un moncone di pietra, con l’aria di sapere esattamente quello che faceva, così Drith si voltò per guardare l’estremità devastata del campo e si allontanò di qualche passo.
L’esplosione aveva sfregiato la falsa collina e spazzato via le poche tende innalzate lì vicino, all’esterno del Quartiere vero e proprio, producendo un grosso foro nel terreno; ora restavano solo monconi di pali bruciacchiati, stoffa penzolante e corpi dilaniati, gettati a casaccio come pupazzi in mezzo al denso fumo nero. Tutto era stato inutile. I suoi ragazzi non avevano nemmeno demolito la spingarda... non era quella l’ala dell’accampamento in cui si trovava. Almeno, però, l’area del disastro era stata abbandonata in fretta e gli attacchi si erano spostati a est, lasciando loro il tempo di muoversi.
Tra gli spettri intontiti che ancora non si erano resi conto di quel che era accaduto, Drith vide il corpo di un Dragone con una scheggia di metallo nella schiena, simile a quelle nel deposito. Il corpo sembrava in buone condizioni, così lo raggiunse scrollando la testa per escludere il ronzio Occlum che ondeggiava al margine della sua coscienza, come un occhio che restava alle sue spalle, osservando ogni suo movimento.
Lo frugò e trovò una borraccia alla cintura. Desiderava solo bere, aveva la gola riarsa e gli occhi le facevano male, così la staccò, dette un sorso, poi guardò i propri piedi nudi e gli stivali del cadavere. Si chinò per liberarli dei resti e sedette a terra per indossarli.
Era stufa. Degli spettri. Dell’odore di morte che appestava tutto. Di ciò che stava facendo. Eppure non era ancora finita.
«Hai ucciso il tuo ultimo Dragone, schifosa cagna» proruppe una voce alle sue spalle. Drith non faticò a riconoscerla come quella di Crentar, il Secondo sdentato di Aric, voltò la testa e vide l’imponente arco e la freccia incoccata.
«Se il botto non è bastato ci penso io, io ti ho trovata e io avrò il premio. Io soltanto» ridacchiò, con il volto per metà rigato di sangue. «Ha detto che basterà la tua testa» disse poi, leccandosi le labbra. «Solo la tua testa» scandì.
«La sua testa per una misera ricompensa? Non è uno scambio equo» sibilò Nortigaar, materializzandosi dalla nebbia e dal fumo come una voluta grigia.
Drith gli vide affondare l’arma spettrale nel fianco di Crentar e la mano che teneva l’arco tremò. Lei ne approfittò per gettarsi di lato e la freccia partì.
Dall’oscurità, Aric scattò e scaraventò a terra il suo Secondo. Lottarono un istante e lo colpì così violentemente al viso che si sentirono le ossa scricchiolare.
Il suo spettro si sollevò quasi subito dal corpo, con uno strillo acuto di furore; fece per avventarsi sul Dragone, ma afferrò solo il vento e rimase interdetto abbastanza perché Nortigaar affondasse il pugnale in ciò che restava di lui. Un lampo di luce saettò nel nulla e poi ci fu di nuovo silenzio.
Nortigaar guardò Aric con espressione ostile, poi scosse la testa, e scomparve così com’era apparso, in un’ondata di fumo sotto gli occhi spettrali di Odar, che li fissava dalla collina sventrata. Drith sussultò, poi si trascinò in piedi, con la mano stretta sull’elsa della spada presa al Dragone morto.
Il Dragone la scrutava, ansante e con il viso contratto, chiedendosi se dovesse affrontare anche quella lama dalla punta a falce, lei però la voltò e gliela porse dalla parte dell’elsa.
«Potrebbe esservi utile» disse.
Lui guardò i suoi stivali e poi il cadavere con uno scintillio negli occhi. Sembrava esausto come Drith.
«E... grazie» gli disse lei, indicando il suo Secondo.
Aric fece una specie di sorriso dolorante. «Non mi era mai piaciuto» bofonchiò, rialzandosi con nella voce un tono di disgusto e poi scoppiando a tossire.
Drith si guardò intorno finché non ebbe trovato la borraccia, la raccolse e gliela lanciò.
Si sentivano fioche grida e lontani scoppi provenire da dove ancora si combatteva. Drith sapeva che Woos si era rifugiato laggiù, in mezzo alle truppe della Landa, e che per lei, in quello stato, non sarebbe stato possibile raggiungerlo viva, eppure doveva trovare il modo.
Come se sapesse esattamente cosa pensava, il Dragone le disse: «Non potete farcela».
«Devo.»
«Non così. Non ora» ribatté lui.
«E quando? Quando sarò di nuovo così vicina?» tossì Drith, cercando di evitare di respirare la folata di fumo nero e caldo che li investiva. Gli acuti occhi di Aric la scrutavano con disapprovazione e dolore.
«Sarete anche un soldato, ma non mangiate come si deve da giorni, siete ferita, non avete nemmeno una corazza, e pretendereste di penetrare nel Quartiere, tra uomini all’erta, e uccidere la vostra preda? Vi farete solo ammazzare.»
Ci fu uno sventolio sopra di loro e Drith guardò in alto, riconoscendo un Pipistrello che li aveva appena sorvolati, in cerca di aria calda per risalire di quota. Fu sul punto di piangere; avrebbe voluto volare; era sempre tutto così chiaro dall’alto. Così evidente.
Lui riprese: «E, anche se riusciste a ucciderlo, la vostra città finirebbe comunque per cadere. Sareste morta per nulla».
Drith abbassò gli occhi a terra, cercando di pensare con calma. La testa le doleva, respirava a fatica e sentiva la mano ferita in fiamme; sapeva che il Dragone diceva la verità, ma aveva anche un dovere e non era necessario che le piacesse; era solo un dovere. «Non per niente! Voi sapete!» gli rammentò.
«Meglio ancora se tutti sapranno» sibilò lui.
Drith lo osservò con un brivido gelato. «E come?» chiese. «Come finché non vedranno una Coracca? Il vostro Odar è morto, e nessuno persuaderà la Mano! Men che meno un artigliere pazzo» si sfogò.
Gli occhi di Aric sfavillarono beffardi. «Ma gli ho salvato la vita. Inoltre ho questo» disse, sollevando il sigillo e guardandola fisso «e le parole di Odar.»
«Già, perché voi credete a quello che vi ho detto? No. È tutto... tutto troppo facile» fece Drith, caustica.
Ma Aric non rise. «Ha messo in pericolo il Quartiere con un’esplosione di cui non conosceva gli effetti. Ha ucciso Lord Odar. Non è più solo una questione vostra. È anche mia» sibilò con aria vendicativa.
Drith lo scrutò stringendo gli occhi, inquieta. «Non potrò fare nulla da dentro una gabbia! E non diventerò un prodigio da sfruttare per battere i nemici, la strega che riferisce i messaggi dei defunti al vostro Darlingar!» disse a denti stretti.
In quell’istante il vento cadde, l’aria divenne stranamente immobile e Drith finalmente capì che era per questo che non aveva mai voluto rivelarsi.
Il Dragone sollevò la testa, le si avvicinò zoppicando e le sue spalle larghe divennero una barriera tra lei e il mondo mentre la fissava negli occhi. «Non mi serve una strega, e non mi servireste a nulla in gabbia» dichiarò. «Da sola, adesso, non potete farcela e lo sapete. Ma non siete più sola. Non era quello che volevate?»
C’era un che di accusatorio nei suoi occhi, che sembravano carboni accesi, e lei aggrottò la fronte, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quello del Dragone. Con il cuore che le tremava, nemmeno lei sapeva se di terrore o di speranza, chiese: «Cosa avete in mente?».
«Una cosa molto semplice. L’unico problema sarà trovare il modo di farvi tornare dai vostri...» mugugnò lui.
«Quanto è brutta la situazione nel resto della Landa?» chiese la donna. Sembrava oppressa e probabilmente nutriva dei dubbi sull’intero piano, ma ne nutriva anche Aric e non si sentiva in grado di scacciarli, tuttavia doveva almeno fare in modo che non tentasse di ucciderlo adesso, quindi si limitò a rispondere senza nemmeno guardarla.
«Di certo non migliorerà se ciò che dite è vero.»
«E credete che la vostra Mano ci concederà il beneficio del dubbio...? Perché vuole il poco certes che abbiamo o il Morso Vermiglio?»
«E le vostre macchine volanti, magari» sbuffò Aric. «Ma non conosco la Mano. Non chiedetemi di dirvi cosa pensa.»
«Gli avete salvato la vita, però.»
Aric lesse tra le righe: e aveva ucciso il suo commilitone. L’amico. «Come ho salvato la vostra» ribatté secco. «Sembra che il caso giochi con noi come il gatto con il topo.»
Un fragile sorriso lampeggiò sul viso di lei. «Già» convenne, guardando indietro. L’attacco dall’alto si era placato e numerose guardie della Mano, adesso, stavano perlustrando il punto dell’esplosione, muovendosi a raggiera. Erano visibili anche da dove si trovavano perché l’aria densa e fuligginosa sopra lo squarcio cominciava a essere dissolta da un vento leggero e irregolare.
Una squadra in particolare procedeva con sicurezza nella loro direzione e c’era già una promessa di luce in cielo. Cosa che avrebbe complicato la fuga. Come se il resto non bastasse. Aric attese che il gruppo fosse sparito dietro una delle colline e fece un cenno a Drith, che si mosse con esausta sicurezza tra la vegetazione, continuando ad allontanarsi dal Quartiere con la forza della disperazione. Lui sperò che sapesse davvero dove stava andando perché, a quel che aveva appena sentito portare dal vento, avevano fatto arrivare i cani-volpe. «Sa da che parte sto andando e ci lancerà dietro i suoi...» aveva detto lei poco prima e, se anche non le avesse creduto, i ganniti di quelle bestie dal fiuto fino e dalle mascelle robuste significavano che li avrebbero trovati presto.
«Siete certa che la direzione sia questa?» le chiese, mentre si muovevano rapidi quanto la sua maledetta gamba consentiva tra i cespugli. Aveva da anni sviluppato un’andatura a balzi, che gli permetteva di essere abbastanza veloce, ma la protesi aveva preso un colpo e non avrebbe retto a lungo.
«Come voi lo siete di ciò che state facendo» gli rispose aspra.
Aric si sentì sogghignare. «Questo non è consolante» borbottò e Drith gli indirizzò uno sguardo esausto.
«L’esperto era Nortigaar...» rispose alla fine. Tacquero entrambi per qualche istante, come se stessero pensando alla stessa cosa, ma il latrare dei cani tormentava entrambi.
«Come siete riuscita ad atterrare in questo labirinto di dannati cespugli e colline?» domandò lui per spezzare quel suono agghiacciante. Ma Drith Acuto non rispose.
«Brugo, lamino, lauro e mirto» borbottò invece, con il fiato grosso «erano perfetti per nasconderci... forse ora confonderanno un po’ i vostri cani.» C’era un tono di sconforto e di spietata caparbietà in lei. Come se solo questo la tenesse ancora in piedi.
Aric ghignò. «Non contateci troppo.»
«Non è di me che mi preoccupo...» obiettò sbrigativa lei. Poi sollevò un braccio nel sudicio camicione, gli occhi che splendevano dei bagliori grigi dei primi segni dell’alba. «Laggiù c’è una cresta che nasconde parte di quella che doveva essere una strada lastricata. Non manca molto, ormai.»
«Non avremmo mai cercato così lontano...» riconobbe Aric.
«Il che rendeva il posto perfetto per noi.»
Lui scosse la testa. «Ho visto atterrare un paio di Pipistrelli durante le battaglie... come ci siete riuscita, senza distruggerlo e uccidervi entrambi?» insisté.
Lei rispose senza nemmeno voltarsi. «Mio padre.»
«Vostro padre?»
«Ha inventato lui questa macchina: si chiama Vespertillo. Io sono solo la pilota, lui l’ha reso possibile.»
Visto che fingeva di non capire, Aric tenne duro. «Ho visto una delle vostre macchine annientare un’intera squadra di cavalleria prima di essere distrutta dall’impatto con la terra, ma...»
La donna si fermò di scatto e si voltò a guardarlo, costringendolo a fermarsi di scatto per non travolgerla. «Eravate voi con la spingarda da spalla?» chiese, gelida.
Lui aggrottò la fronte. «Narram. Ma ero con lui. Voleva sperimentare una nuova modifica del sistema di tiro. Non funzionò» disse. Poi capì. «Eravate voi?»
Lei piegò le labbra in una smorfia, e fu come se qualcosa in lei cambiasse improvvisamente. «Quello che avete visto allora non era atterrare. Era precipitare» disse con l’espressione grave di un mare in tempesta. «Ma funzionò, eccome» aggiunse a denti stretti. «Quel giorno persi il mio balestriere di volo. Con un foro in mezzo al petto. Un piccolo foro nero» aggiunse posandogli l’indice sul petto in corrispondenza di quel punto esatto e alzando gli occhi per premere con rabbia.
Lui rimase in silenzio, turbato da quel contatto, dal suo sguardo colmo di risentimento e di coraggiosa follia, e improvvisamente anche conscio che il sistema studiato da Narram in quell’occasione aveva funzionato perfettamente. Forando una struttura di legno e trapassando un corpo. Quindi le migliorie che aveva cercato di apportare aumentando la carica, le stesse che lo avevano ucciso in seguito, erano state inutili. Vide improvvisamente le possibilità di quell’arma sul fronte e, quando tornò a guardarla, lei si allontanò bruscamente.
«Avremo bisogno di armi così, per gli Occlumsaac» disse poi, meravigliandolo.
Fece per ribattere, ma un gannito più vicino li spinse a smettere di parlare e a riprendere a muoversi. L’aurora fece sollevare una leggera nebbia tra i cespugli a coprire il loro passaggio. Lei cercò di accelerare ma non aveva più fiato e gli stivali troppo larghi grattavano nella terra secca e s’impigliavano nelle radici. Fortunatamente poco dopo gli fece un cenno, oltrepassò una macchia verde scuro e Aric si aggrappò al ramo resinoso e la seguì solo per vederla cadere oltre un costone.
Per un istante rimase sorpreso, poi notò che si era solo lasciata scivolare lungo il nudo e sassoso fianco della collina. Mozza come se fosse stata tagliata con un coltello. Guardò in basso e vide una forma indistinta, poi realizzò che la macchina volante era stata coperta con una sorta di telone, così, imitandola, si lasciò scivolare fin quasi sotto le sue ali.
La creatura di legno e metallo annerito sommersa da fango, rami e foglie fu liberata dell’ampio telo e non appena Aric alzò ancora gli occhi, rimase stupefatto. Non aveva mai visto una cosa simile e libera, vicina alla sua macchina volante, Drith sembrava più sicura di sé, forte, decisa. Come se avesse ritrovato d’un tratto le forze, le speranze e la voglia di vivere.
«Volerà?» le chiese, ammirato ma anche inquieto.
Drith distolse gli occhi colmi di tenerezza dalla macchina per fissarli su di lui. Il giorno che cominciava a schiarire il cielo e la vegetazione in mille tonalità di grigio accese una scintilla su quel viso annerito. «Volerà» disse con un sorriso.
«È passato del tempo.»
«Volerà» ripeté lei. «E poi deve fare solo la metà del lavoro. L’altra metà spetta a me.»
Aric le vide aprire il portello a lato facendo scorrere un meccanismo ancora ben ingrassato e colse un’esitazione nelle lunghe dita livide e fasciate. Incredulo per quello che stava facendo, si domandò se avrebbe tentato di ucciderlo e fece scivolare la mano all’elsa della spada, ma lei sembrò aggrapparsi alla macchina e si voltò: «E tu? Ce la farai?» gli chiese con l’improvvisa familiarità dei soldati.
Aric rimase folgorato dall’espressione sul suo viso. «La mia è la parte facile» finse indifferenza. «Non rischio di piombare sulle rocce da cento piedi di altezza...»
Drith però gli posò la mano sul braccio e scosse la testa, un’ombra di sincera preoccupazione sul viso. Temeva che il piano concepito in quel breve lasso di tempo non funzionasse e aveva ragione. Era troppo complesso, troppo rischioso e dipendeva per una parte troppo grande dalla sorte. Ma non c’era scelta. Non ce n’era mai, in certi casi.
«Ti sbagli. La tua è la parte difficile» gli disse. «Quella che ha a che fare con la tua gente... legno e certes sono affidabili... ma Woos sa, ti ha visto; sarà la tua vita contro la sua, e se riuscisse a convincerli che mi hai fatto scappare, che hai ucciso Odar e che sei il traditore...»
Aric si sentì sorridere. «Sarebbe la verità. Sono un traditore. Come te» aggiunse poi, senza alcuna ipocrisia. «E anche tu avrai a che fare con la tua gente.»
L’uomo sapeva che poco dopo aver deciso il da farsi Drith aveva parlato ancora con Odar e Nortigaar, ma l’idea di ricevere collaborazione da alleati con cui non poteva parlare lo metteva a disagio.
«Per quanto sembri assurdo non siamo noi a tradire. Siamo stati traditi molto tempo fa. Accecati. Dobbiamo solo sforzarci di tornare di nuovo a vedere» mormorò lei, stringendogli le dita sul braccio come per convincerlo.
Non ce n’era bisogno, ma la stretta chiuse la gola di Aric. Drith aveva una presa ferma, calda. E lui si rese conto con incredibile intensità di quanto fosse vicina, vera e viva. Fu consapevole del suo respiro leggermente affrettato, delle ombre livide sul suo viso smagrito e annerito dalla cenere, della tensione che le correva sotto la pelle e di quanto avrebbe potuto amarla se il tempo e il mondo fossero stati diversi.
«Non devi convincermi né angosciarti per questo» fece spallucce, cercando di accantonare quel tumulto di sensazioni, insieme al pericolo che rappresentavano. «Vale la pena tentare. Se non hai ragione non accadrà nulla al tuo amico Woos, ma se hai ragione finirà come voleva far finire te. Le conseguenze, a quel punto, saranno decise dalla Mano» disse.
«E da te» disse lei con un tremolio nella voce.
Aric sentiva la stessa cruda preoccupazione, e avrebbe voluto confortarla, ma non era bravo in questo genere di cose. «Odar lo stimava» si limitò a dire. Ma Odar era morto.
I cani-volpe gannirono isterici, avvicinandosi alla cresta ed entrambi distolsero lo sguardo. Drith staccò la mano dal suo braccio e fece per voltarsi e salire sulla sua macchina volante ma era ancora vicina e le dita della sua mano parevano quasi avergli lasciato un’impronta nella carne. Pareva che se ne sarebbe andata senza dire altro, e Aric realizzò che non desiderava allontanarsi da lei in quel modo. Così, bruscamente, l’afferrò per le spalle, la tirò verso di sé e la baciò.
Fu un bacio stupido, la risposta a un impulso con cui voleva mettere alla prova se stesso per quella sorta di attrazione che provava per lei, che voleva dimostrare quanto fosse vuota quella fissazione per una prigioniera e una nemica che diceva di parlare con i morti, ma appena le loro labbra si toccarono ogni pensiero razionale fu spazzato via da una lancinante ondata di desiderio.
Drith boccheggiò e Aric sentì sorpresa e incertezza trapassarle il corpo, costringendola a lottare per allontanarsi, così la lasciò andare di scatto. E fece un traballante passo indietro, sorpreso e mortificato da se stesso.
Drith lo fissò sbigottita, gli occhi lucidi e ancor più cupi nella mattina che iniziava a colorare le cose; lo fissò per un istante che sembrò lunghissimo, poi colmò con un passo la distanza che li separava e gli restituì il bacio con incredibile abbandono, aggrappandosi alle sue spalle mentre lui la stringeva forsennatamente a sé. Fu come se entrambi si fossero svegliati dopo un lungo sonno e per un brevissimo istante Aric fu certo di lei come non lo era mai stato di se stesso. Solo la necessità di lasciarla andare lo indusse ad allontanarsi da quel contatto.
«Buona fortuna» le disse, roco.
Disorientata ma risplendente di una improvvisa, appassionata bellezza, Drith annuì in silenzio, arretrò incespicando e salì in fretta sul suo Vespertillo.
Aric si allontanò, si gettò tra i cespugli, sfilò la gamba di legno, ruppe il fermo e la scagliò via; poi lanciò un grido di richiamo per i suoi e, nella luce del primo mattino, vide delle protuberanze gonfiarsi ai lati del dorso del congegno, a formare degli strani otri che si sollevarono verso il cielo.
Solo allora, davvero, la macchina volante si levò in aria goffa, salendo per traverso come una lanterna di carta di fronte ai suoi occhi sbigottiti. Gridò, quando vide le frecce che lo prendevano di mira, le prime dalla punta metallica e poi infuocate.
Trasalì quando una quasi tranciò uno dei cavi, pensò che le fiamme avrebbero incendiato tutto, ma le lamine di metallo tinte di nero respinsero le une e le altre. Avrebbero dovuto cercare di colpire i palloni, ma quando lo capirono anche i tiratori, grazie al cielo, era ormai troppo tardi. Vide solo il Pipistrello traballare mentre saliva tanto in alto da essere irraggiungibile. L’ombra nera di un uccello nel cielo che schiariva. Poi i palloni cedettero, ci fu un ululato di gioia perché pensarono che sarebbe precipitata, e per un istante anche Aric si lasciò sfuggire un gemito.
Ma la creatura di legno e certes rimase un istante come sospesa in aria poi le ali sembrarono muoversi, tendersi in una linea slanciata ed elegante e, in un battito di ciglia, con il guizzo di un rondone, il Vespertillo prese il volo, cavalcando l’aria come le navi cavalcavano le onde. Con Drith a bordo.
La luce del sole che sorgeva disegnò i contorni della macchina volante e solo in quel momento Aric si rese conto che avevano tardato troppo e lei avrebbe dovuto attraversare quel cielo e quella luce. Ricordò lo sguardo d’orrore che le aveva letto in viso alla vista del sole. E lanciò un grido di rabbia.