XXX

Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta […].

Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.

GENESI 4, 4-8

Le sfumature rosee dell’alba impallidivano e gli uomini di Horemheb stavano già provvedendo al carico della chiatta reale per essere pronti a salpare. Mered si affrettò verso la villa, spinto dal pensiero del racconto che aveva fatto Miriam sull’incubo che l’aveva terrorizzata durante la notte. La fanciulla si era goduta due giornate meravigliose con la sua famiglia nel villaggio degli artigiani, ma il sogno della notte precedente l’aveva fatta urlare tanto da svegliare tutti gli abitanti delle due abitazioni che componevano la casa bassa e lunga.

La luna aveva superato lo zenit quando Amram e Jochebed avevano scostato la tenda divisoria, tenendo abbracciata una Miriam tremante. Aronne si era affacciato furtivamente alle spalle di Amram, gli occhi sgranati: «Mia sorella ha fatto un brutto sogno!».

Puah si era alzata dalla stuoia. «Adesso scaldo del latte di capra per i bambini.» Quella sera una delle mogli dei ramessidi le aveva dato una brocca di latte per ringraziarla del suo aiuto nel farla partorire.

Amram e Jochebed avevano fatto sedere Miriam sull’unica sedia della stanza, mentre il resto della famiglia si radunava intorno a lei per ascoltare il racconto del sogno.

«Ho visto un bell’orto. Niente erbacce, soltanto fiori e alberi da frutta e file e file di ortaggi. Greggi di pecore e di capre pascolavano nei prati che si stendevano fino all’orizzonte. Un ragazzo della mia età badava alle pecore. Suonava un flauto. Una bella melodia. Un altro più grande, forse di diciotto, venti anni, gli si avvicinava da dietro e lo colpiva alla testa con una pietra.» Miriam aveva gli occhi lucidi, le labbra tremanti. «Il ragazzo più grande stava sopra quello morto e rideva, e poi…» Scuotendo la testa, Miriam aveva serrato le palpebre.

«Su, racconta a Mered, figliola.» Amram le aveva battuto la mano sulla spalla. «Non è cosa da poco essere scelta per un messaggio di El-Shaddai.»

Mered aveva lanciato un’occhiata all’amico: un messaggio di El-Shaddai? Era stato tentato di mettersi a ridere, finché non aveva visto negli occhi di Amram una paura quasi pari a quella della figlia. «Dimmi, Miriam, nel tuo sogno che cosa è successo al ragazzo che rideva?»

Miriam aveva alzato su di lui gli occhi castani chiari pieni di lacrime: «Cambiava… e diventava Ankhe».

A quelle parole Mered era rimasto senza fiato, riuscendo quasi a vedere la scena, la figura del ragazzo che si decomponeva, si contorceva, trasformandosi alla fine nella terribile sorella di Anippe. Un’immagine terrificante. Ma El-Shaddai aveva davvero parlato a Miriam, oppure quell’incubo era stato causato dai pettegolezzi degli schiavi sul banchetto cruento di Horemheb?

Mered non aveva affrontato direttamente Miriam, ma aveva espresso i suoi dubbi al padre della ragazza: «Che cosa ti fa credere che il sogno sia un messaggio di El-Shaddai?».

Miriam lo aveva tirato per la manica: «È per via della voce che parlava, un canto anzi. Diceva: “Se la speranza muore, il fratello diventa la sorella”. E io non riesco a togliermi dalla mente quella melodia e quelle parole. Continuano a girare, girare dentro di me».

Mentre Puah offriva a Miriam il latte di capra tiepido, Mered aveva guardato Amram, che aveva ricambiato il suo sguardo inarcando un sopracciglio grigio e folto: «Ti avevo detto che era un messaggio di El-Shaddai».

Avevano provato tutti a tornare a dormire, ma chi sarebbe riuscito a riposare ora che El-Shaddai aveva visitato la loro casa? El-Shaddai non aveva più parlato dal tempo di Giuseppe, sembrava che si fosse dimenticato del suo popolo.

Mered era rimasto sveglio fino a quando l’orizzonte non si era tinto di rosso e a quel punto era saltato su dalla stuoia per accompagnare Miriam dall’amira.

Non si era mai presentato negli appartamenti di Anippe senza essere stato invitato, ma il sogno della notte appena trascorsa era sufficiente a indurlo a bussare alla sua porta.

«Miriam, rallenta!»

Ormai tredicenne, Miriam era diventata una giovinetta alta e snella dagli occhi grandi e dai magnifici riccioli. Era in età da sposarsi, ma per lei non ci sarebbe stato nessun matrimonio fino a quando l’amira non le avesse scelto un marito, perché, in quanto ancella personale di Anippe, Miriam era sotto la sua autorità. E la sua protezione. Mentre si avvicinavano all’ingresso principale della villa, Mered guardò in direzione del molo e pregò dentro di sé che l’amira prendesse precauzioni per proteggerla dalle guardie e dai rematori durante il lungo viaggio.

I preparativi fervevano in tutta la proprietà. Gli uomini di Horemheb stavano terminando il carico della chiatta reale e di altre tre navi per la navigazione che sarebbe durata dieci giorni fino a Tebe, e Mered pensò che forse Miriam sarebbe stata al sicuro con i membri della famiglia reale. Si passò una mano sulla faccia, senza riuscire a liberarsi dalla sensazione di angoscia che provava dopo il sogno di quella notte.

Una volta entrati nella villa, trovarono all’interno la stessa frenesia, con gli schiavi che correvano avanti e indietro dalle cucine alle camere, dai magazzini al molo.

Per poco Mered e Miriam non furono investiti dalla cuoca, che in genere non lasciava mai la sua cucina: «Non so perché devo portare panieri di grano su navi puzzolenti!» brontolò la vecchia mentre passava accanto a Mered, ansimando e sbuffando.

Miriam si sistemò sulle spalle la piccola sacca con le sue cose personali e si affrettò lungo il porticato, presa a quanto pareva da grande energia, pronta ad affrontare il dovere al quale l’aveva chiamata El-Shaddai. Era forse una profetessa quella bella tredicenne, oppure Dio richiedeva più di un sogno per considerare qualcuno suo servo? A quel pensiero Mered sorrise… fino a quando vide Nassor davanti alla porta della camera di Anippe.

Di pessimo umore, il capitano delle guardie incenerì con lo sguardo i due ebrei: «Era ora che arrivassi!» ringhiò a Miriam, prendendola per un braccio e spingendola con forza nella stanza, dopo aver socchiuso la porta.

«Aspetta! Devo parlare con l’amira» gli disse Mered avvicinandosi.

Nassor gli sbarrò il passo. «È occupata, capo filanda.»

«Ma io…»

«Avremo dei guai noi due quando l’amira sarà partita?» Nassor lo sollevò da terra afferrandolo per le veste.

La porta della camera si spalancò. «No, Nassor, non avrai nessun guaio con Mered dopo che me ne sarò andata… né con nessuno degli altri schiavi.»

Nassor lasciò andare Mered e si inchinò all’amira: «Come tu desideri, Amira».

Dopo il ritorno da Sile, Mered era stato molto occupato con i preparativi per il banchetto e non aveva più visto insieme il ramesside e Anippe, ma il tono sarcastico del capo delle guardie gli fece capire che l’accordo non era più perfetto tra loro.

L’amira gli fece cenno di entrare. «Vieni, Mered. Abbiamo molte cose da discutere prima della mia partenza.» Si rivolse si nuovo a Nassor, molto arrabbiata: «Potrai anche aver impressionato Abbi Horem con la tua brutalità, ma se farai qualcosa per compromettere il commercio del lino di Avaris, compreso trattare male il mio capo filanda, ti assicuro che il faraone Horemheb troverà un sovrintendente migliore di te per la proprietà. Tu ti accerterai che i nostri ebrei siano ben pagati, ben nutriti e trattati bene. Tornerò l’anno prossimo per controllare i conti».

Richiuse la porta sbattendola e si girò di scatto verso Mered, Miriam, Ankhe e il piccolo Mehy che l’aspettavano nella camera, fissandola attoniti. «Che cosa avete da guardare?»

Ankhe inarcò un sopracciglio: «Spiegami di nuovo perché Horemheb sceglie il sovrintendente per la tua proprietà quando Avaris non gli appartiene affatto. Ah, già, è vero, lo fa perché né lui né sua figlia rispettano quel che appartiene agli altri».

La gelosia di Caino, ecco che cos’era. Mered non aveva bisogno di conoscere i motivi del risentimento di Ankhe per rendersi conto dell’importanza del sogno di Miriam.

«Ankhe, io non ho preso nulla che fosse tuo.»

«Tu mi hai preso tutto e ora mi mandi a Menfi per liberarti di me!» Ankhe cercò la mano di Mehy: «Hai raccolto tutti i tuoi tesori dalla camera di ummi?».

Mehy fece segno di sì, stringendo il sacchetto che si era messo sulla spalla. L’evidente tristezza del bambino avvolse Mered come una nebbia, trascinandolo all’interno di quell’oscurità dolorosa. Come avrebbe fatto Mehy da solo a sopravvivere al malumore continuo di Ankhe? Durante le lezioni alla villa c’era sempre stata una sorveglianza, ma al Kap sarebbe stato possibile contenere gli effetti della cattiveria di Ankhe? O la sorella di Anippe sarebbe stata libera di inquinare la tenera anima del piccolo?

Anippe si avvicinò a Mehy e gli si inginocchiò davanti. «Ci vedremo sulla nave. Navigheremo insieme verso Tebe per l’incoronazione di tuo nonno Horem e poi ci sarà un’altra lunga navigazione prima che tu lasci ummi e Miriam al Gurob. Abbiamo molti giorni da passare insieme prima che tu vada al palazzo di Menfi con Jad Horem e Ankhe.» Gli baciò i tre cerchietti neri sul dorso della mano: «Ricordati! Tu, io e Amon-Ra: sempre insieme».

Stringendo a sé Mehy, si sforzò di ritrovare la compostezza, poi lo affidò alla sorella. «Sto facendo ciò che è meglio per ognuno di…»

«Anippe, stai facendo ciò che è meglio per te.»

«Non è vero. So che tu desideri sposarti…» Anippe s’interruppe di colpo e tutte e due le sorelle lanciarono un’occhiata a Mered, d’accordo nel non voler parlare dei desideri personali di Ankhe davanti a uno schiavo… con sollievo di Mered.

Ankhe afferrò la mano di Mehy: «Vieni, prendiamo qualcosa in camera mia e poi andiamo alla chiatta. Forse il pilota ti insegnerà a dare i comandi ai rematori».

Mehy si voltò a salutare Mered con la mano mentre la zia lo trascinava fuori dalla stanza.

El-Shaddai, proteggilo!

Anippe sospirò, fissando la porta chiusa. «È stata una mattinata difficile.» Si girò cercando di sorridere e si avviò con passo pesante verso i cuscini ricamati. «Di che cosa volevi parlarmi, Mered?»

Il capo filanda scambiò un’occhiata con Miriam, il cui senso di sicurezza si era un po’ appannato da quando erano entrati nella camera dell’amira. «Volevo dirti addio, naturalmente, ma c’è un’altra cosa che io e Miriam dovevamo riferirti.»

Mered rimase in attesa, sperando che la ragazza cominciasse a raccontare il suo sogno. Miriam tacque.

«Perché Ankhe mi incolpa di tutto ciò che non va nella sua vita?» si domandò l’amira, il gomito appoggiato al bracciolo e il mento sulla mano. «La sto mandando a Menfi in parte perché sia vicina a Mehy, è vero, ma soprattutto perché è l’unico posto dove avrà una speranza di trovare un buon marito.» Guardò Mered con aria supplichevole: «Io non le sono nemica!».

Mered aveva lo stomaco contratto: «Amira, posso raccontarti una storia?». Miriam si mise al suo fianco, facendogli capire che gli era grata di questa introduzione, l’avrebbe aiutata a parlare del sogno.

Anippe si raddrizzò sul sedile, la fronte aggrottata sostituita da un sorrisetto diffidente: «Che genere di storia?».

«Una storia vera… su quando Dio creò il mondo.»

«Vuoi dire Ra? Quando Amon-Ra ha creato tutte le cose…»

«No, Amira, io parlo di El-Shaddai. È lui l’unico Dio e lui ha creato il primo uomo, Adamo. Da Adamo ha tratto la donna, Eva.»

Dalla fronte di nuovo corrugata dell’amira, Mered capì che stava perdendo la sua attenzione e passò quindi alla parte importante: «Adamo ed Eva ebbero due figli, il maggiore Caino, il minore Abele. Tutti e due offrivano sacrifici a Dio, Caino dai campi e Abele dalle greggi, ma El-Shaddai gradiva l’offerta di Abele, e non quella di Caino».

Anippe incrociò le braccia sul petto e sospirò: «Mered, ho molto da fare prima che la nave salpi. Perché mi vuoi raccontare questa storia?».

«Perché Caino era geloso di Abele, proprio come Ankhe è gelosa di te.»

L’amira scrutò attentamente il suo capo filanda per lunghi istanti. «Perché?» domandò alla fine. «Perché gli dei fanno delle preferenze?»

Incoraggiato dalla domanda che rivelava una riflessione, Mered si spinse più avanti: «El-Shaddai era dispiaciuto di ciò che aveva nel cuore Caino, del modo in cui sceglieva e offriva il sacrificio, ma Caino non voleva riconoscere la sua colpa, accusava Abele di essere la causa del suo dolore ed era geloso del favore che Dio mostrava verso suo fratello».

«Come Ankhe è gelosa di me e mi incolpa di tutti i suoi guai.» L’amira sfiorò con il dito una sporgenza del bracciolo. «È questa la fine della storia?»

Miriam si avvicinò al sedile e si inginocchiò davanti all’amira, premendo la fronte sulla sua mano: «Posso raccontarti il resto, Amira?».

«Ma certamente, Miriam, dimmi tutto» la incoraggiò Anippe, posando l’altra mano sulla testa della fanciulla.

Mered vide le mani di Miriam tremare mentre alzava gli occhi per incontrare quelli di Anippe. «Questa notte ho fatto un sogno, era un incubo, veramente. Io vedevo Caino e Abele e Caino attirava Abele in un bel prato, dove lo colpiva alla testa con una pietra. Poi Caino si chinava sul cadavere del fratello ridendo e io vedevo Caino trasformarsi in…» Miriam si girò verso Mered, trasse un profondo respiro e chiuse gli occhi: «Caino diventava Ankhe e Abele, il fratello preferito da Dio, diventava te, Amira».

Anippe si tirò indietro con forza: «Ridicolo! Ankhe non mi farebbe mai del male!». Si alzò, fissando Mered con aria di sfida: «Dove ha preso Miriam queste sciocchezze? L’hai aiutata tu a inventarsi questa storia per spaventarmi? Io so che gli schiavi odiano Ankhe».

Mered non si accalorò: «Nessuno ha inventato niente e noi non stiamo cercando di spaventarti. Questo è un messaggio di El-Shaddai per te. Ti prego, Amira, ascoltalo».

Il volto dalla carnagione olivastra di Anippe si fece bianco come latte mentre si voltava verso Miriam come se stesse andando incontro alla morte: «Perché El-Shaddai vorrebbe parlare con me?».

«Credo che questo sia un avvertimento, Amira, non una predizione. Mi ha parlato in una melodia.» Dalle labbra di Miriam sgorgò un canto lento che affascinava, in certo modo avvolgendo la sensazione di pericolo in un involucro di consolazione: «Se la speranza muore, il fratello diventa la sorella… Se la speranza muore, il fratello diventa la sorella… Se la speranza muore, il fratello diventa la sorella…». Quando Miriam tacque, le parole riecheggiarono nel silenzio.

L’amira, assolutamente immobile, aveva gli occhi chiusi. Mered non osava parlare.

Trascorsero lunghi momenti immersi in una pace ultraterrena: anche l’amira lo sentiva? Il viso sembrava sereno, molto più disteso di quando erano entrati. L’ansietà che Mered aveva provato per il fatto che Miriam rivelasse il messaggio di Dio era svanita non appena la giovinetta aveva aperto la bocca per cantare; anche Miriam era in piedi, gli occhi chiusi rivolti verso l’alto. Mered si domandò se non dovesse uscire dalla stanza, forse era un intruso in un luogo sacro a El-Shaddai.

Non aveva fatto un passo verso la porta che si sentì prendere la mano da Anippe: «È tutto reale?». Sul suo viso si mescolavano stupore e timore. «Sono stata semplicemente commossa dalla bella voce di una fanciulla oppure un dio ha appena visitato questo luogo?»

Mered tenne la mano tra le sue: «È reale, Amira. L’unico vero Dio ti ha parlato e tu devi fidarti delle sue parole. Se perde ogni speranza, Ankhe diventa pericolosa».

Il canto di Miriam risuonava nella mente di Anippe in attesa dentro la cabina della chiatta reale mentre Abbi Horem e il suo corteo scendevano in gran pompa verso il molo fra musiche e acclamazioni. Ankhe era sul ponte con Mehy. Il pilota della nave si era interessato molto al nipote del sovrano e Ankhe si era interessata molto al pilota. Anche Miriam aveva chiesto di restare sul ponte per salutare con la mano la famiglia e gli amici quando la nave si sarebbe staccata dalla banchina.

Anippe, al contrario, non poteva sopportare di guardare Avaris scomparire in lontananza. Era la sua casa.

Avaris era tutto ciò che le restava di Sebak, anche se talvolta si domandava se quel suo forte e generoso marito non fosse frutto della sua immaginazione, tanto era stato breve il tempo che avevano trascorso insieme; ma in fondo al cuore credeva a Mered quando le diceva che Sebak l’aveva amata. Forse non avrebbe mai capito perché era rimasto lontano così a lungo, ma sapeva che era un uomo degno e ormai Anippe ne aveva conosciuti a sufficienza di uomini indegni e sapeva vedere la differenza.

Se la speranza muore, il fratello diventa la sorella. L’avvertimento di Miriam – o piuttosto l’avvertimento di El-Shaddai – cancellò il frastuono dei musicanti del faraone. Ankhe non era mai stata amata da un uomo degno, da nessun uomo in realtà, e forse sperava ancora di incontrarne uno. Finché poteva sperare nel matrimonio e in una famiglia, in lei la speranza era viva.

Ma Anippe non poteva permettere che si accontentasse di un uomo qualsiasi. Che sarebbe successo se avesse sposato Nassor? Rabbrividì all’idea, sollevata al pensiero che per lo meno la crudeltà di Nassor era stata rivelata prima che si potesse scatenare su Ankhe. Che sua sorella lo credesse o no, il Kap era il posto migliore per lei perché là forse avrebbe trovato un maestro di animo gentile o un soldato perbene. Fino a quando Abbi Horem non si fosse ammorbidito nei suoi riguardi o un potenziale marito non avesse incontrato l’approvazione di Anippe, Ankhe avrebbe dovuto aspettare.

La tenda della cabina si mosse leggermente e un’ombra si delineò all’esterno.

«Chi sei?» chiamò Anippe.

La figura si voltò come se volesse allontanarsi, poi tornò indietro, una mano tremante scostò la tenda e sulla soglia apparve Mutno, abbigliata sontuosamente ma distrutta nell’aspetto.

«Mutno…» Anippe non sapeva che cosa dire.

«Posso entrare?»

«Ma certamente.» Anippe cercò di prenderle la mano per guidarla, ma la nuova regina sussultò.

«Ti prego, non toccarmi, non sono sicura che ci sia qualcosa del mio corpo che non sia dolorante.»

Anippe la osservò avanzare, curva, appoggiandosi allo stipite per sostenersi e tentando di non gravare col suo peso sulla caviglia sinistra mentre si lasciava cadere sui cuscini del letto.

Inorridita, Anippe tentò di non pensare a tutto ciò che quella donna aveva dovuto sopportare. «È stato Nassor a farti questo?»

«Quale volta?» La voce di Mutno era un bisbiglio rauco, l’emozione la soffocava… o forse il dolore; ma c’era differenza per lei?

Mutno sedette di fronte ad Anippe, le loro ginocchia quasi a contatto nella piccola cabina. L’ancella personale della nuova regina l’aveva truccata bene preparandola per la parata reale, nascondendo sotto la pittura le sue sofferenze. Vestita del migliore bisso di Avaris, indossava una veste a pieghe fini e una meravigliosa guaina scintillante; profumata con oli fragranti, aveva il viso dipinto vistosamente con malachite, kohl e ocra rossa.

Da una certa distanza tagli e lividi sembravano parte del trucco.

Anippe si sporse verso di lei, non sapendo se qualcuno stesse origliando all’esterno: «Posso mandare la mia ancella a prendere erbe curative dalle levatrici prima della partenza».

Mutno lanciò un’occhiata piena di paura all’ingresso della cabina: «No! Qualcuno potrebbe vederla».

Con una stretta dolorosa al cuore, Anippe porse la mano alla donna che conosceva appena, una donna in preda a una disperazione per lei inimmaginabile. «Come posso aiutarti?»

Mutno ritirò le mani, rifiutando ogni consolazione: «Credo che possiamo aiutarci a vicenda. Io ho molte relazioni nell’harem del Gurob dal momento che Abbi Ay governava nell’Egitto meridionale e dopo il banchetto per la vittoria di Horemheb…» guardò verso la porta e abbassò la voce «…le donne del Gurob ti odiano. Troverai molto difficile l’impresa di migliorare la produzione del lino là».

Anippe si raddrizzò nella persona, rendendosi conto che Mutno, pur essendo paragonabile a un soldato ferito, aveva ancora la forza di lottare. «E tu puoi suggerirmi qualcosa per aiutarmi a conquistare il favore delle mie pari del Gurob, è così?»

«Non sono tue pari e nessuno si conquista mai il favore dell’harem, ma io ho una certa influenza su di loro e sono disposta a usarla a tuo vantaggio. So molto poco di fusi e di telai, ma so molto su chi ti odia particolarmente e su chi divide il letto con il marito di chi. Dirigere le mogli dei nobili è come cercare di addomesticare i gatti egiziani. Non sono come i tuoi miserandi ebrei che si inchinano e strisciano davanti a te per soddisfare ogni tuo capriccio.»

Anippe tentò di soffocare la sua repulsione verso la vita di manipolazioni che si doveva accettare per avere successo nel Gurob. «E che cosa ti aspetti da me in cambio della tua preziosa influenza?»

«Che tu veda settimanalmente il tuo abbi Horem per cantare le mie lodi. Digli che siamo diventate grandi amiche, che ci occupiamo insieme della filanda, che ci scambiamo confidenze.» Mutno chinò il capo, giocherellando con le dita, ma non riuscì a nascondere il tremito nella voce: «Ho rinunciato tanto tempo fa a sperare in un uomo che mi ami, ma non posso resistere a una vita di odio e di violenza».

Si asciugò con precauzione le guance tumefatte prima di alzare lo sguardo su Anippe: «Non permettere mai che Horemheb ti dia a un altro marito. Il matrimonio ti distruggerebbe, dentro e fuori».