XX

Il misero soccombe all’orgoglio dell’empio

e cade nelle insidie tramate.

SALMI 10, 12

Un piccolo colpo alla porta degli appartamenti di Anippe e Mehy, seduto sulla pelle di capra, alzò gli occhi dai dadi di legno del gioco che stava facendo con Miriam.

«Ankhe?» chiamò. «È Ankhe?»

Come se fosse stata evocata dal suo scolaro dai grandi occhi, entrò Ankhe, precedendo il capitano Nassor, un’ombra imponente alle sue spalle.

«Buongiorno, Amira.» Nassor si inchinò e strizzò l’occhio a Mehy. «Vi porto la maestra di padron Mehy come stabilito. Volete scegliere la guardia per accompagnare alla lezione il giovane padrone e la sua insegnante?»

Ankhe si unì a Miriam e Mehy sulla pelle di capra e si mise a giocare con loro tranquillamente. Anippe osservò il trio, meravigliandosi del cambiamento che si era prodotto nella sorella. Erano trascorse soltanto due settimane da quando aveva minacciato Ankhe, costringendola a borbottare delle scuse a Jochebed e guardandola ora con Mehy per poco non si mise a piangere: come aveva potuto minacciare di mandarla nelle miniere di rame? Non riconosceva quasi sua sorella nella giovane donna gentile che le stava davanti nella veste nuova a piegoline e con gli occhi dipinti stupendamente con la malachite e il kohl tanto da rivaleggiare con Anippe.

«Amira, qualcosa ti ha turbato?» Un lieve tocco sul braccio la riscosse e Anippe vide l’espressione preoccupata sulla faccia di Nassor.

Si rese conto che stava piangendo e si asciugò gli occhi con il panno di lino che teneva infilato nella cintura. «No, Nassor. Sto bene.»

«Dimmi come si chiama e ci penserò io a sistemare chiunque ti dia…»

«No, no, davvero.» Anippe si piegò verso di lui, sussurrandogli: «È che sono così sollevata al pensiero che Ankhe e Mehy si trovino tanto bene insieme. Mio figlio non vede l’ora di stare con sua zia». Ma come poteva capire un soldato che cosa significasse per Ankhe l’amore di un bambino? Sua sorella non aveva mai mostrato affetto per nessuno e Anippe si era chiesta spesso se fosse capace di un simile sentimento.

«Sarei felice di assistere alla lezione di padron Mehy oggi.» Nassor parlò a bassa voce, sorridendo al piccolo Mehy. «È un bel bambino.»

Forse Ankhe aveva creduto che l’apprezzamento fosse per lei, perché lanciò un’occhiata di sottecchi al soldato, con un’espressione interrogativa sul viso.

Che Ankhe stesse civettando? Forse Nassor aveva dell’interesse per lei? Anippe guardò di sfuggita il ramesside, ma lo vide in attesa di una sua risposta.

«Posso chiamare la solita guardia, se credi.» L’uomo sembrava del tutto inconsapevole della smorfietta civettuola sulle labbra di Ankhe.

Lo sguardo di Anippe si posò di nuovo sulla sorella, che aveva un’aria speranzosa e cercava palesemente l’attenzione di Nassor: senza dubbio era lui la ragione della pittura sul viso di Ankhe e della sua attuale dolcezza. «Per favore aspetta fuori mentre io parlo con mia sorella» lo congedò Anippe. «Ti chiamerò quando avrò preso una decisione.»

«Come desideri, Amira.» L’uomo si inchinò e uscì senza una sola occhiata ad Ankhe. I casi erano due: o Nassor era molto bravo a nascondere il suo interesse, oppure Ankhe era destinata ad avere il cuore spezzato.

La porta si era appena richiusa quando Ankhe si alzò. «Devi lasciare che Nassor resti con Mehy e me oggi, non c’è ragione che se ne stia a oziare davanti alla tua porta quando Mehy e io potremmo avere bisogno della sua protezione.»

«La sua protezione, Ankhe? È solo questo che speri di avere dal capitano?» L’ironia di Anippe colpì nel segno.

L’amabilità di Ankhe svanì, inghiottita dal consueto atteggiamento di difesa. Rabbia. Amarezza. Indifferenza. «Sono sicura che non avrò niente, e come sempre, sarà per colpa tua.»

«Non è vero, Ankhe, non è colpa mia se tu rifiuti di…»

«Se rifiuto di implorare il favore di uomini arroganti che mi odiano?»

Anippe scosse la testa, era sempre la stessa storia con Ankhe, era sempre lei la vittima, non aveva mai colpa di niente. «Credi che Nassor possa renderti felice, Ankhe?»

«Be’, non può rendermi più infelice di quanto io sia ora come tua ancella o come maestra di Mehy.»

Per Anippe fu come se Ankhe l’avesse schiaffeggiata. Come era possibile sentirsi infelici in presenza di suo figlio che era solo gioia e vita? Ma era normale che sua sorella desiderasse un figlio suo. Il cuore le si intenerì, vedendola come una giovane donna sola senza un uomo che l’amasse.

«Va bene, Ankhe, parlerò con Nassor oggi stesso per scoprire se è degno della sorella del sovrano. Se sarà così, scriverò a Tut per chiedergli di dare il suo consenso alle nozze. Ma devo anche essere convinta che tu ami veramente Nassor prima di dare la mia approvazione, non voglio che come sua moglie tu rovini la vita del mio capitano delle guardie.»

Gli occhi di Ankhe si riempirono di lacrime. «Tu e Tut non mi avete mai considerato e non mi aspetto certo che Mered tessa una veste nuziale per me.» Si voltò e si avviò verso il capanno sul fiume, girandosi per chiamare Mehy: «Andiamo, piccolino! Siamo già in ritardo per la lezione».

Anippe la seguì con lo sguardo, afflitta: desiderava che Ankhe fosse felice e amata, ma Ankhe era pronta per la felicità? L’avrebbe accolta?

Miriam tirò Anippe per la veste, riportandola al presente. «Vuoi che io stia con Mehy e Ankhe oggi, Amira?» Il suo messaggio era chiaro: aveva paura per Mehy quando Ankhe era arrabbiata, quella piccola schiava sapeva meglio di tutti quanto poteva essere pericolosa la sorella di Anippe.

«No, Miriam, manderò una guardia a badare a Mehy.»

Anippe aprì la porta e chiamò Nassor con un cenno.

«Sì, Amira?»

«Vorrei che mi scortassi fino alla filanda, ma voglio che il tuo uomo migliore, il più fidato, vada al fiume a proteggere mia sorella e mio figlio.»

«Come desideri, Amira.» Il capo delle guardie si inchinò e uscì, ritornando poco dopo con una guardia anziana, che poteva avere più o meno l’età di Abbi Horem. Nassor aveva scelto l’uomo migliore per vegliare su suo figlio… oppure un soldato che non si sarebbe portato via il cuore di Ankhe? Sperava di trovare la risposta chiedendo a Nassor di presentare al figlio il nuovo venuto.

«Padron Mehy, questo è il mio amico Akil» annunciò Nassor, avvicinandosi ad Ankhe e a Mehy presso il fiume. «Oggi si prenderà cura di te e di Ankhe.» Non lasciò trapelare nessun sentimento ma prima di voltarsi per andarsene salutò Ankhe con un cenno e un sorriso. Ankhe era raggiante, felice, a quanto pareva, al pensiero che Anippe avrebbe considerato Nassor come un possibile marito per lei.

Sua sorella aveva preso una cotta, forse avrebbe potuto perfino imparare ad amare.

Dopo essere tornato da Anippe per accompagnarla alla filanda, Nassor aprì la porta della camera e lasciò passare per prima Miriam, che si avviò saltellando lungo il porticato principale cantando e scuotendo i riccioli, distratta, per fortuna, così da non badare alla conversazione da adulti fra Anippe e il capitano delle guardie.

«Nassor,» cominciò Anippe con una certa esitazione «sei a guardia dei miei appartamenti da quando io e padron Sebak ci siamo sposati e non sei mai andato a casa, credo. Non hai una moglie che senta la tua mancanza?» soggiunse con una risatina, imbarazzata. «Dei bambini? Un cane o un gatto?»

Le labbra dell’uomo si curvarono in un accenno di sorriso: «No, Amira. Vivo nelle caserme dei soldati e ogni tanto riposo nel quartiere degli schiavi della villa».

Niente moglie e niente casa. Poteva essere una buona cosa. Se Tut gli avesse offerto una casa come parte della dote di Ankhe, la situazione di Nassor sarebbe notevolmente migliorata.

«Capisco. Devi sentirti solo.»

L’uomo non rispose e quando Anippe alzò lo sguardo sul gigante che le camminava al fianco, vide che il sorriso sulla sua faccia era stato sostituito da un’espressione cupa: «Padron Sebak si fida di me, e vuole che io ti protegga, Amira. Io non potrei… non vorrei mai tradire la sua fiducia».

«Oh, no, non intendevo…» Anippe si premette le mani sulle guance di colpo scottanti. Facendo segno di no col capo, cercò di spiegarsi senza però tradire il segreto di Ankhe. «Ho sentito i discorsi di una delle schiave domestiche che sembrava molto presa da te e allora mi chiedevo se…»

L’uomo sospirò di sollievo, il sorriso di nuovo sulla faccia: «Non preoccuparti, Amira. Io non sono come gli altri soldati. Preferirei giacere con uno sciacallo piuttosto che con un’ebrea».

Il commento, destinato a rassicurare Anippe, la rattristò profondamente: come era possibile che un uomo in apparenza così buono e gentile potesse nutrire un tale odio verso un altro essere umano? Si sentì impallidire, ricordando come Nassor avesse colpito allo stomaco Mered la sera in cui l’ebreo si era offerto di aiutarlo a trovare Jochebed. Si voltò fingendo di esaminare i giardini mentre si dirigevano alla filanda in silenzio. Forse Ankhe non sarebbe stata turbata dalle parole di Nassor, ma come poteva Anippe lasciare che sua sorella sposasse quell’uomo così brutale?

«Buongiorno, Amira.» Mered, un disegno incompiuto sotto il braccio, salutò Anippe: «Ho lavorato su questo tutta la mattina, ma non riesco a finire le fronde di palma».

Vide il capitano Nassor in piedi alle spalle dell’amira che sembrava distratta, forse perfino turbata. «Grazie, Nassor,» lo congedò Anippe «non mi serve altro.» Con un breve cenno del capo, il capitano si allontanò e l’amira si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

«Va tutto bene, Amira?» Mered guardava Anippe ma al tempo stesso non perdeva d’occhio Miriam, perché in genere bastava uno sguardo alla piccola per capire quale fosse lo stato d’animo della padrona e la situazione nei suoi appartamenti. Se nel mondo dell’amira era successo qualcosa di brutto, Miriam le stava vicina, attenta e pronta a comprendere le sue necessità; se al contrario durante la mattinata tutto era andato liscio, Miriam correva da un telaio all’altro, chiacchierando e facendo divertire gli operai di Mered.

«Sto bene, Mered, sono solo un po’ stanca, ecco tutto.» L’amira allungò la mano verso il rotolo: «Vediamo un po’ questa palma incompiuta».

Mered ascoltò e osservò la creatività di Anippe sbocciare mentre il suo umore andava migliorando; qualsiasi cosa l’avesse preoccupata al suo arrivo lì, la preoccupazione era svanita nel mondo del lino. Alla fine l’amira mise da parte il rotolo soddisfatta del risultato.

«Miriam sta imparando in fretta.» Anippe indicò con un cenno del capo la piccola che passava da un telaio all’altro come un’ape in cerca di polline. «Quando è qui con gli altri ebrei non sente tanto la mancanza di sua madre.»

Mered fu colpito dalla capacità di provare compassione dell’amira; a quale altra padrona sarebbero interessati i sentimenti di una piccola schiava? Due settimane prima Jochebed era tornata sana e salva da Amram e da Aronne, ma con Puah piangeva spesso per la lontananza di Miriam. Puah la teneva occupata a viziare suo figlio Ieter e a lavorare con la figlia Ednah. La casa era quasi al completo ora che Jochebed era lì e se solo Miriam fosse tornata…

«Credo che a loro piaccia averla qui proprio come a lei piace imparare.» Anippe rise piano vedendo un operaio intrecciare perline tra i capelli di Miriam.

Mered sospirò: «La nostra piccola ape affaccendata dovrebbe fermarsi presso ogni telaio, non presso uno solo». Cercò di assumere un’espressione severa, fermo in piedi a braccia conserte.

Miriam aveva imparato ad aspettare accanto agli operai che cardavano le fibre di lino con pettini dai denti aguzzi per poi affrettarsi a portare il prodotto alle donne che torcevano le fibre facendone lunghe matasse. Talvolta aiutava ad avvolgere le matasse intorno ai supporti di terracotta, riempiendo i cesti fino all’orlo per portarli alle filatrici che usavano vari arcolai e fusi per ottenere fili più o meno sottili. Alla fine la piccola ape allegra andava con le enormi spolette dai tessitori in piedi davanti ai loro imponenti telai verticali, dove si realizzava il prodotto che era il cuore e l’anima del commercio egiziano. Il simbolo di Avaris veniva tessuto soltanto sul bisso di lino, una mussola così pura e bianca da far invidia perfino alle nuvole.

«Deve imparare ad ascoltare di più e a parlare di meno. Non voglio che disturbi i miei operai.» Mered inarcò un sopracciglio, scendendo dallo sgabello.

Vedendo che Miriam stava chiacchierando con il suo migliore tessitore, Mered la condusse via e si inginocchiò davanti a lei, guardandola nei grandi occhi scuri e assumendo un’espressione sufficientemente seria: «I bravi tessitori sono essenziali per la fabbricazione del lino. Tu devi starli a guardare in silenzio per imparare l’arte, non distrarli con storie di fiori e di farfalle». La lasciò andare nascondendo un sorriso e fece ritorno al suo tavolo.

Anippe lo guardò, le sopracciglia inarcate: «E questo sarebbe “sgridare”?».

«Be’, non l’ho colpita con una mazza, se è questo che intendi.» L’osservazione portò via il buonumore ad Anippe. «Mi dispiace, Amira. Non volevo…»

Anippe si studiò le mani, sfregandosi una piccola macchia di colore: «Nassor è un buon uomo. Non ti conosce bene, Mered, ma sono certa che se avesse capito che stavi cercando di aiutare nella ricerca di Jochebed…».

Preoccupato dell’improvviso silenzio dell’amira, Mered seguì il suo sguardo e vide un medjay sudicio e stanco che si stava avvicinando di corsa.

Il nubiano si lasciò cadere ai piedi di Anippe: «Perdonami, Amira, ma devi venire immediatamente al palazzo del Gurob. Il nostro grande faraone Tut, il possente figlio di Horus, ha avuto un incidente e ordina che tu vada subito da lui».

«Che cosa è successo? È ferito gravemente? Che tipo di incidente?»

Il medjay alzò lo sguardo su di lei: «L’asse del suo cocchio si è spezzato mentre il sovrano stava inseguendo un leone durante la caccia annuale nel Fayum. L’osso rotto della gamba gli ha perforato la carne e ora nel suo corpo infuria la febbre».

Il dolore di Anippe si trasformò in sospetto, poi in collera: «Come è possibile che un’asse si spezzi di colpo, così?».

«Dobbiamo partire entro un’ora, Amira. Io ti accompagnerò al palazzo del Gurob e troveremo tutti e due le risposte che cerchiamo.» L’uomo sostenne il suo sguardo, comunicando più con il silenzio che con le parole.

Anippe uscì a precipizio dalla bottega senza una parola, senza una lacrima, mentre Mered quasi non riusciva a respirare, pensando alle implicazioni di quanto aveva riferito il nubiano.

«La faccia ti è guarita senza lasciarti cicatrici» osservò il soldato, in piedi davanti al capo filanda. Quando l’uomo fece per andarsene dopo aver salutato con un cenno del capo, Mered lo fermò.

«Aspetta, per favore!» Guardandolo con maggiore attenzione Mered riconobbe in lui la guardia che lo aveva picchiato prima di arrestare Sifra. «Ti prego, mangia qualcosa prima di riprendere il viaggio per il Gurob.» Si alzò, facendo segno al nubiano di seguirlo verso la sua palma preferita. «Puoi condividere il mio pasto di mezzogiorno.»

«Perché vuoi offrire da mangiare a un uomo che ti ha picchiato?» Il nubiano sorrise beffardo. «Forse è cibo avvelenato?»

«Forse se avessi saputo del tuo arrivo…» Mered afferrò il paniere con il pane e la birra chiara che Puah gli aveva dato quella mattina e si avviò all’uscita rivolta a settentrione.

Il nubiano lo seguì, ancora diffidente. Una volta all’aperto trasse un profondo respiro godendo a quanto pareva del panorama sul porto di Avaris. Quando ebbe raggiunto la palma, sedette a gambe incrociate, la schiena appoggiata al tronco alto e ruvido, la lancia a portata di mano.

Mered sollevò il coperchio del paniere e offrì al medjay il pane e la birra che Puah vi aveva messo. «Posso chiederti come ti chiami?»

Il medjay guardò il cibo che gli veniva offerto e poi di nuovo il molo. «No.»

«No, non posso chiederti il nome o…»

«No, non voglio tutto il tuo pasto. Io mi chiamo Mandai.»

Mered insistette porgendogli il pane: «Mandai, mangia. Il tuo viaggio è lungo e a quanto pare sei solo a metà strada. Ti aspettano altri due giorni sul Nilo prima di arrivare al Gurob».

«Tre giorni, perché la marea è contraria, più lungo ancora se l’amira insisterà per fermarsi la notte.» Mandai accettò il pane e la birra con un cenno cortese e mandò giù il tutto voracemente.

«Se l’amira insisterà? Che intendi dire? Se non lo farà lei, lo farà certamente Ankhe. È un suicidio navigare sul Nilo col buio.»

Il medjay fece una pausa tra un boccone e l’altro: «I miei ordini sono di portare Anippe, il faraone non ha nominato l’altra sorella».

Mered scosse la testa, provando un’improvvisa simpatia per l’ignaro soldato.

Mandai lo notò e smise di nuovo di masticare: «Vuota il sacco, ebreo».

«Ankhe non si arrende facilmente, dovrai prepararti a una vera battaglia.»

Mandai sogghignò e tracannò l’ultimo sorso di birra. «Tu continua a filare lino che a portare l’amira sana e salva al Gurob a confortare il fratello ci penso io.» Dopo essersi saziato, chiese incuriosito: «Perché mai aiuti un soldato del re che te le ha suonate e ha arrestato la tua amica?».

«Perché tu servi il faraone e io servo la mia amira. Sono esseri umani come me e te e un giorno tutti dovremo rispondere a El-Shaddai delle nostre colpe.»

«Questo El-Shaddai… è il dio degli ebrei?»

«È l’unico vero Dio.»

Mandai tornò a guardare in direzione del porto e per qualche istante rimase in silenzio. «Dovresti dire al tuo unico dio» disse alla fine «di aiutarmi a trovare l’uomo che ha segato l’asse del re Tut. L’incidente del faraone non è stato un incidente.» Mandai fissò il capo filanda con occhi di fuoco. «E se riferirai a qualcuno che te l’ho detto, incontrerai il tuo dio molto presto.»