XXIX

Mia forza e mio canto è il Signore,

egli mi ha salvato.

È il mio Dio e lo voglio lodare, è il Dio

di mio padre e lo voglio esaltare!

ESODO 15, 2

Mered avrebbe voluto fuggire, lasciare l’Egitto… per lo meno finché Horemheb non avrebbe portato a termine la sua vendetta. Ma sarebbe mai finita la violenza di Horemheb?

Seduto accanto a un trono vuoto posto su una pedana sopraelevata, Mered aspettava che la festa cominciasse. Quello sarebbe stato l’ultimo suo incarico come sovrintendente agli approvvigionamenti di Horemheb, dopodiché, grazie all’amira, sarebbe tornato ai suoi compiti di capo filanda di Avaris.

Mandai e un altro medjay, nel loro migliore abbigliamento da guerrieri, controllavano la sala per individuare eventuali pericoli, mentre soldati ramessidi erano di guardia intorno al perimetro e a ogni uscita. Nonostante il sottofondo minaccioso, un brusio di festa si levava tra i convenuti accorsi per celebrare la vittoria del faraone. Il cuore di Mered si stringeva a ogni respiro e gli sembrava che ogni battito fosse un sasso scagliato sulla sabbia.

Gli ufficiali ramessidi e le loro consorti si mescolavano ai cortigiani di Menfi e alle mogli del Gurob, e i tavoli alla destra di Mered erano affollati di donne anziane, grasse e abbigliate vistosamente che cercavano di dimenticare la loro età e di fare impressione sui giovanotti. I coni di cera nelle parrucche si stavano già sciogliendo e il loro profumo, unito a quello di corpi eccessivamente cosparsi di unguenti, permeava l’aria al punto di soffocare perfino la fragranza delle ninfee azzurre.

Da un unico tavolo di donne, tuttavia, non si levavano chiacchiericci, risatine o esclamazioni: la regina Senpa, con Anippe e Ankhe alla sua destra e alla sua sinistra, aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Come lei, era apparentemente immersa nella contemplazione dello stesso luogo lontano la figlia di Ay, Mutno, seduta accanto ad Anippe, mentre la moglie di Pirameses, Sitre, che aveva preso posto accanto ad Ankhe, nascondeva nell’ombra il viso tumefatto: evidentemente il marito aveva scoperto le sue infedeltà. Le cinque donne si trovavano esattamente di fronte al trono e alla tavola del sovrano e dei suoi funzionari.

Anche numerosi nobili che erano stati fedeli al visir Ay partecipavano al banchetto di quella sera, qualcuno per forza, altri per scelta. Horemheb, sul punto di essere incoronato faraone, dava loro l’opportunità di stabilire da che parte volevano stare e aveva invitato tutti i cortigiani che la sala di Avaris poteva contenere perché fossero testimoni del suo primo atto ufficiale, come il figlio di Horus che sarebbe presto diventato.

Horemheb e Pirameses si alzarono, salirono sulla piccola pedana sopraelevata e il generale vittorioso si assise sul trono dorato di Tut, il trono di Horemheb ormai. Pirameses, che indossava la collana Oro del Merito, si mise al posto occupato per consuetudine dal visir, mentre Mandai stava in piedi al suo fianco come primo comandante dei medjay. Mered sedeva sulla piattaforma alla destra del trono, accanto ai piedi di Horemheb, pronto ad annotare gli eventi di quella sera.

El-Shaddai, ti prego, impedisci tutto questo. E se non lo fai, allora proteggi me, il tuo servo.

L’araldo di Horemheb batté sulla campana che recava il simbolo reale del cobra: «Entrino l’onorevole figlio di Sebak e l’onorevole figlio di Pirameses!».

Mehy e Sety comparvero sulla soglia, gli occhi spalancati dalla paura. Anippe aveva accennato al fatto che la ummi di Sety era venuta ogni tanto in visita, dando ai due bambini la possibilità di giocare insieme e allora Mered non era stato contento, ricordando l’avvertimento di padron Sebak a proposito di Sitre, ma adesso era sollevato al pensiero che Mehy avesse con sé un compagno. Vedendoli l’uno accanto all’altro, notò come Sety avesse tutte le caratteristiche dei ramessidi, mentre sicuramente Mehy aveva ereditato la carnagione olivastra dell’amira e i suoi occhi castani.

Quasi nascosti dai due medjay in assetto di guerra che camminavano al loro fianco, i bambini scrutavano la sala attraverso gli archi adorni di piume di struzzo e le cosce muscolose e nere come l’ebano dei due soldati, che li incoraggiavano bisbigliando e perfino sorridendo mentre si avviavano con loro verso il trono. Alla fine della lunga corsia color cremisi, i guerrieri si inginocchiarono davanti al principe reggente e invitarono Mehy e Sety a fare lo stesso.

«I vostri abbi mi hanno servito bene, figlioli. Potete alzarvi e guardarmi.» Horemheb si sporse in avanti, rassicurandoli con i suoi modi gentili, anche se il piccolo Sety cercò la mano di Mehy. «Sety, il tuo abbi Pirameses sarà il mio visir, il secondo uomo più potente d’Egitto. Che cosa ne pensi?»

Il bambino di quattro anni guardò prima la sua ummi, poi esaminò Pirameses da capo a piedi. «Il mio abbi gioca con me alle spade. A me mi piace.»

I presenti risero divertiti, così come il sovrano. «Non ho mai sentito una lode più grande. Sono contento che tu approvi.»

Rivolgendosi al nipote che portava il suo nome, l’espressione di Horemheb si fece più seria: «Mehy, il tuo abbi Sebak è stato l’uomo più coraggioso che io abbia mai conosciuto. È stato assassinato da codardi che presto pagheranno per il loro tradimento. Tu sei mio nipote e il figlio di un valoroso guerriero e io nutro grandi speranze per te».

Mehy chinò il capo, incapace di aprire bocca, troppo intimidito per incontrare lo sguardo di Horemheb.

«Potete mettervi accanto a Mered, il mio sovrintendente. Voglio che vediate ciò che sto per fare agli uomini che hanno ucciso l’abbi di Mehy.»

Soffocando un grido, Anippe si lanciò verso il figlio, ma Ankhe la tirò indietro con forza. Mered sentì il fiele salirgli in bocca mentre accoglieva i due piccoli accanto a sé, addolorato di non poter fare altro che tenerli stretti durante quella manifestazione di follia. Guardò in direzione del settore delle donne e vide che Ankhe stava bisbigliando qualcosa ad Anippe: l’amira era diventata pallida come una morta.

Horemheb si rivolse all’araldo: «Che entrino i prigionieri».

Due uomini furono trascinati nella sala, mani e piedi incatenati. Nassor avanzava lungo la corsia centrale lentamente in modo che tutti riuscissero a vedere bene l’uomo calvo e coperto di sangue al quale erano state spezzate le ossa delle gambe così che doveva essere trascinato dai ramessidi, il volto un tempo attraente quasi irriconoscibile, non fosse stato per il naso adunco. Il visir Ay costituiva il primo spettacolo della serata.

Sety cominciò a piagnucolare e Mehy a tremare quando altri ramessidi fecero il loro ingresso con un secondo prigioniero trasportato di peso sulle braccia.

Mered li cinse con un braccio alla vita, sussurrando: «Potete chiudere gli occhi, ma non dovete voltarvi, altrimenti Horemheb potrebbe accorgersi che non state guardando. Fategli credere che vedete tutto».

Mutno, la figlia di Ay, si nascose la faccia tra le mani gemendo e Anippe si chinò su di lei per confortarla. Il secondo prigioniero era Nakhtmin. Quella sera Mutno avrebbe visto morire il padre e il marito, per essere poi costretta a sposare l’uomo che li aveva uccisi. Mered, che continuava a inghiottire saliva, ebbe paura di vomitare. El-Shaddai, fammi essere forte per questi due piccoli.

Entrambi i prigionieri, ciondolanti tra le guardie, sembravano quasi privi di sensi. Si rendevano conto di dove si trovavano?

Mered lanciò di nuovo un’occhiata ad Anippe: l’amira lo stava guardando e scuoteva con forza la testa in un grido muto: No, no, no! Ma che cosa si aspettava che facesse Mered? Gli occhi del piccolo Sety erano fissi sui due prigionieri, mentre Mehy continuava a tremare, le palpebre serrate. El-Shaddai, dammi saggezza. Le braccia di Mered erano strette intorno alla vita dei bambini, gli strumenti per la scrittura ai loro piedi.

I miei strumenti.

«O vittorioso Horemheb, posso avvicinarmi per una questione privata?» Alle parole pronunciate ad alta voce, nella sala si fece silenzio. A capo chino Mered attese la condanna a morte o l’assenso del sovrano.

«Che c’è?» ringhiò Horemheb e Mered praticamente spiccò un salto dal suo cuscino per dire in un bisbiglio che solo il regale orecchio potesse udire: «Posso mandare i bambini dalle loro ummi? Non riesco a scrivere la tua sentenza con loro che tremano tra le mie braccia».

Horemheb tacque per qualche istante, studiando Mered, ma nel suo ultimo giorno al servizio dell’uomo che tra poco sarebbe stato incoronato faraone il capo filanda non osava incontrarne lo sguardo.

«I ragazzi staranno con i miei medjay in modo che il mio sovrintendente possa registrare la sentenza.»

Mered si inchinò. El-Shaddai, ti prego, confortali tu perché io ho fallito.

Mentre i due bambini si avviavano dietro il trono dove si trovava Mandai con le altre guardie del corpo, Horemheb annunciò agli astanti: «Questi piccoli ramessidi un giorno saranno guerrieri e devono vedere ciò che facciamo a coloro che tradiscono il faraone!».

Poi cominciò il giudizio.

«La più alta decorazione militare dell’Egitto è l’Oro del Merito, la collana che il visir Pirameses porta con fierezza questa sera. Combattendo contro gli Ittiti abbiamo conosciuto un’altra decorazione, la Collana del Valore.» Fece segno a Nassor di mettere davanti ai prigionieri una lunga tavola di legno e, mentre le guardie sorreggevano i prigionieri, lo stesso Nassor legò strettamente il braccio destro dei due alla tavola. «Pirameses, ecco le mani dei nostri nemici, ottieni la tua Collana del Valore.»

Il nuovo visir estrasse dalla cintura una spada lunga e pesante e l’abbatté con un tonfo agghiacciante sulla tavola.

«Nooooo!» All’urlo di Anippe si unirono altre grida. I prigionieri incatenati si contorsero e l’orrore riempì l’aria mentre i due bambini si mettevano a piangere e cercavano di voltarsi dall’altra parte; ma le guardie medjay li costrinsero a stare fermi e a guardare quella dimostrazione di violenza selvaggia.

«Seppelliremo quelle mani ad Avaris!» Horemheb sembrava addirittura allegro. «La proprietà di Sebak avrà per sempre le mani di Ay e di Nakhtmin mentre essi vagheranno nel mondo sotterraneo menomati a causa del loro tradimento.» Si alzò e gridò alla folla atterrita di nobili e delle loro mogli: «Qualcuno di voi vuole unirsi a loro?».

Terrorizzati, Mehy e Sety graffiarono le guardie, chiamando a squarciagola le loro ummi, ma i medjay impedirono a Sitre e Anippe di precipitarsi in loro soccorso, mentre le altre donne si nascondevano il viso tra le mani, piangendo. Tutte tranne la regina Senpa: la sua espressione non era mutata, lo sguardo ancora perso nel vuoto. Respirava o no?

«Regina Senpa!» L’urlo di Horemheb rimbombò nella sala.

Anippe spinse via una guardia, poi afferrò il braccio di Senpa supplicando Horemheb: «No, lei no! Ti prego, lei non ha nessuna colpa…».

La regina interruppe Anippe e tutta la sala si fece silenziosa come una tomba. «La morte è la mia sola via di scampo, sorella.» Liberò il braccio dalla sua stretta e due guardie la scortarono fino al trono.

La mano di Mered tremava mentre intingeva la canna nell’acqua per inumidire il pigmento. Che cosa avrebbe potuto scrivere sul suo rotolo? Si poteva registrare la follia? Ay e Nakhtmin si contorcevano ancora sul tappeto, ora rosso scuro per il sangue, mentre una bella e giovane regina attendeva una morte immeritata. Horemheb era pazzo: come poteva far assistere due bambini a uno spettacolo che faceva abbassare gli occhi perfino ai medjay?

«Andate dalle vostre ummi.» Il comando brusco di Horemheb fece sobbalzare la mano di Mered che macchiò il papiro con un tratto nero. Forse era solo questo che avrebbe dovuto registrare quella sera: una macchia, un segno nero senza significato in mezzo a freddi dettagli.

I bambini girarono dietro il trono per evitare la scena cruenta davanti al seggio del faraone e corsero a gettarsi tra le braccia delle loro ummi. Mered li seguì con lo sguardo e a un tratto udì tre tonfi improvvisi, quasi simultanei. Serrò le palpebre, non avendo bisogno di guardare per sapere che cosa giaceva ai piedi del trono.

Senpa, Ay e Nakhtmin erano morti e, secondo le credenze egiziane, avrebbero vagato senza testa nel mondo ultraterreno.

Mered registrò sul papiro i loro tre nomi prima di guardare di nuovo il tavolo delle donne. Anippe e Sitre erano chine sui loro figli in lacrime, mentre Ankhe sedeva tranquilla mangiando una melagrana e Mutno fissava la parete, quasi come aveva fatto Senpa fino a pochi momenti prima.

«Mutno, avvicinati!» La voce carica d’odio di Horemheb fece rabbrividire Mered. Quando le guardie l’afferrarono per le braccia, Mutno si ribellò, urlando, scalciando, mordendo come una femmina di sciacallo.

Horemheb rideva.

Le guardie la scortarono fino al trono fra il lezzo del sangue e del vomito e la gettarono fra i cadaveri, non più la figlia di Ay, non più la moglie di Nakhtmin. Mutno rimase là a giacere e pianse.

«Mutno, tu sei ora mia moglie. E presto sarai la regina d’Egitto. Asciugati le lacrime, dolcezza mia. Non ti farò niente di peggio di quanto il tuo abbi Ay abbia fatto alla mia defunta moglie Amenia.» Horemheb si rivolse a Nassor: «Portala nella camera degli ospiti e usa la tua mazza per prepararla al mio arrivo».

Nassor si chinò per sollevare Mutno dal tappeto, ma Horemheb lo arrestò con una parola. «Fiducia! Ramesside, io ti ho concesso fiducia affidandoti mia figlia e questa proprietà per tre anni e so che sei capace di compassione.» Si sporse verso di lui con aria di sfida: «Posso contare su di te per non averne nessuna quando il tuo re lo esigerà?».

Senza batter ciglio Nassor ricambiò il suo sguardo: «Sono degno della tua fiducia, mio re. La crudeltà è la lingua materna dei ramessidi». Si inchinò, si caricò Mutno sulla spalla e uscì dalla sala seguito dalla risata di Horemheb.

Mered registrò il matrimonio per i posteri, poi si voltò e vomitò.

Anippe portò via dal banchetto il figlio terrorizzato che si stringeva a lei con tutte le sue forze. L’avrebbe mai lasciata andare? Avrebbe mai smesso di tremare? E avrebbe mai smesso di tremare lei? Si affrettò lungo il porticato verso i suoi appartamenti, senza aspettare una scorta e senza guardarsi indietro nemmeno una volta. Non riusciva a non pensare alla brutalità di Nassor: come era possibile che il suo premuroso protettore fosse diventato un mostro nell’arco di una sola giornata? Non lo aveva più visto dal giorno in cui le aveva dichiarato il suo amore… e in cui lei lo aveva respinto. Quando era uscita per recarsi al banchetto aveva trovato un altro ramesside di guardia davanti alla sua porta. Forse era stato il suo rifiuto a trasformarlo, spingendolo a infierire verso i prigionieri? Gli uomini erano forse tutti sciacalli assetati di sangue?

Svoltando l’angolo gridò alla guardia: «Apri!». L’uomo ubbidì prontamente e richiuse la porta della camera alle spalle dell’amira.

Singhiozzando, Anippe si lasciò cadere sui cuscini nell’area destinata al soggiorno e mentre cercava di ritrovare la calma, una figura che intravide nella penombra la fece gridare di spavento.

«Sono io, Amira» la tranquillizzò Miriam inginocchiandosi accanto ai cuscini ricamati.

«Che cosa facevi là?»

Miriam si asciugò le guance: «Stavo pregando El-Shaddai per te e per Mehy».

La collera salì alla gola di Anippe come fiele. «Il tuo dio non ha fatto niente! Mio figlio…»

Mehy si staccò dalla madre per lanciarsi tra le braccia di Miriam, nascondendo la faccia sulla sua spalla. La ragazzina lo tenne stretto, cullandolo: «Sss! Sei al sicuro adesso, vieni, siedi qui, la tua ummi e io ti vogliamo tanto bene».

Miriam alzò gli occhi di cerbiatta e Anippe lottò con se stessa per darsi un contegno: «Andiamo al capanno sul fiume, là nessuno ci disturberà».

Mise un braccio intorno alle spalle di Miriam e tutte e due s’incamminarono senza torce lungo il sentiero piastrellato, contente per il chiaro di luna che illuminava il cammino. Giunte al capanno di giunchi, Miriam fece sedere fra loro su un cuscino il piccolo Mehy, che durante il tragitto nel buio aveva smesso di tremare.

«Habibi, guardami.» Anippe gli accarezzò una guancia e dette una tiratina affettuosa al lungo boccolo sul lato della testa.

Il bambino alzò gli occhi color sabbia: «I-io n-non v-voglio v-vedere…». Scosse la testa, nascondendola sul fianco di Miriam.

Balbettava? Il suo vivace, brillante figlioletto balbettava? «Mehy?» La voce di Anippe si spezzò: che cosa poteva dirgli? Come poteva cancellare le immagini stampate nella mente di suo figlio?

Miriam lo cullò con dolcezza, bisbigliandogli: «Ricordati il tuo nome, Mosè. Tu sei stato salvato dalle acque del Nilo perché El-Shaddai ha un compito, uno scopo speciale per te. Tutto quanto succede, bello o brutto, ti prepara per quello che verrà poi». Si interruppe per dargli un bacio sulla testa lasciando che le sue parole gli penetrassero fino in fondo al cuore. «Io non so che cosa è successo nel salone questa sera, ma El-Shaddai era con te. Lui ti protegge, Mosè, proprio come ti ha protetto quando la tua Ummi Anippe ti ha trovato nel cesto sul Nilo…»

«Basta così!» Preoccupata, Anippe si guardò intorno e attirò a sé Mehy togliendolo a Miriam. «Non devi parlare della sua nascita. Mai!» Con un nodo in gola vide dolore nello sguardo di Miriam e si pentì della sua asprezza. «So che credi nel tuo dio e che stai cercando di essere di aiuto, ma se Abbi Horem dovesse mai scoprire che l’ho ingannato…» Pensò a Senpa sul pavimento, decapitata.

Mehy si agitò fra le sue braccia, la guardò in faccia: «Io n-non d-dirò m-mai il mio n-nome se-segreto, ummi. P-perderei il m-mio po-potere come R-ra quando Iside lo ha in-ingannato».

Anippe lo abbracciò stretto, ridendo e piangendo insieme: «Sì, habibi. Sei così intelligente!». Cercò la mano di Miriam mentre teneva ancora stretto a sé il suo coraggioso bambino. «Forse il dio di Miriam ti ha salvato per un grande scopo, ma noi non dobbiamo mai dirlo a nessun altro. Mi capisci?» Rivolse alla sua ancella uno sguardo che si era fatto serio: «Soltanto noi tre pronunceremo il nome Mosè. Hai capito, Miriam?».

«Non parlerò mai di Mosè a nessuno.» Miriam baciò la mano di Anippe ma senza lasciarla andare e guardandola con aria di sfida, soggiunse: «E non parlerò mai a Mosè di nessun dio tranne El-Shaddai».

Anippe si arrabbiò: come osava un’ancella dettarle delle condizioni?

Mehy si voltò verso Miriam con un sorrisetto che gli danzava sulle labbra: «Il tuo inno, Miriam! Cantamelo!» la pregò, balbettando solo un poco. Disteso accanto ad Anippe, le prese un braccio e se lo portò sul petto, appoggiando le gambe in grembo a Miriam.

La fanciulla ebrea aprì la bocca e cantò una melodia che raggiunse il Cielo: «El-Shaddai è la mia forza, il mio canto. È il mio Dio e lo voglio lodare, il Dio di mio padre e lo voglio esaltare…».

Anippe non riuscì a trattenere le lacrime e, grata per il buio che li avvolgeva, si asciugò le guance e abbassò lo sguardo sul bambino: l’espressione di Mehy la liberò dalla tensione e dalla paura di quella sera. Alzò il viso esponendolo alla brezza notturna e ascoltò lo scorrere del Nilo all’alta marea. Rane e grilli accompagnavano il canto di Miriam e in lontananza si udivano i rumori attutiti della villa dove gli ospiti si stavano ritirando nelle loro camere. Si piegò verso Miriam e la fece tacere posandole una mano sul braccio; ma continuava a giungerle l’eco ripetuta ancora e ancora della sua melodia.

Mehy si tirò su a sedere, sveglissimo: «Gli s-schiavi, ummi! S-stanno cantando il c-canto di Miriam!».

Confusa, in cerca di risposte, Anippe scrutò il viso tranquillo della sua ancella: «Perché gli schiavi cantano? Li ho sentiti qualche volta durante il lavoro nella filanda, però mai per strada».

«Cantano per te, Amira. E per Mehy e me. Grazie alla tua bontà, oggi Mered è tornato a casa da sua moglie e da suo figlio perché El-Shaddai ha risposto alle preghiere di Puah. Tutti gli schiavi sono felici per il suo ritorno alla filanda, ma sono tristi per Mehy che va a scuola, per te e per me che andiamo al Gurob. Gli ebrei pregano e cantano inni a El-Shaddai per tutti noi.»

«Perché un dio ebreo dovrebbe aiutare gli egiziani?»

«El-Shaddai conosce tutti.» Miriam baciò Mehy sul naso. «Non importano i nostri nomi.»

Non importano i nostri nomi. La paura assalì Anippe. Aveva messo a rischio la sua vita e quella di Mehy ingannando gli dei e ora tra quegli dei eccone UNO che conosceva Mehy come Mosè e sapeva che Mosè era ebreo? Terrificante.

Tuttavia il suo panico andò scemando mentre il canto ritmico dei fedeli ebrei continuava. Poteva forse negare il suo effetto? Forse questo dio era reale dopotutto, forse non avrebbe voluto la sua distruzione come Anubis e Seth. Ma come poteva convivere questo dio con gli altri suoi dei?

Strinse a sé Mehy, appoggiando il mento sul suo capo. «Miriam, da quanto tempo non vedi Jochebed e Amram?»

Miriam cercò di sorridere, le guance tremanti per lo sforzo. «Da parecchio tempo. Ho visto il padre quando ha consegnato una collana per Ankhe prima della festa del raccolto e la madre quando ha portato i cesti alla villa poco prima della stagione della semina.»

«Va’ a casa adesso.» Anippe si avvolse un ricciolo nero della sua ancella intorno a un dito. «Mehy e io dormiremo nella mia camera. Manderò due guardie ad accompagnarti dai tuoi genitori, è un modo di dimostrare la mia gratitudine per il canto degli schiavi. Perché non prendi il tuo fuso e la lana come regalo per Jochebed? Te ne prenderò un altro quando tornerai alla villa. Due giorni, poi partiremo per Tebe.»

«Oh, grazie, Amira!» Miriam l’abbracciò e corse via verso il giardino e la camera senza voltarsi indietro.

Nel chiaro di luna Anippe guardò il suo bambino. Due giorni. Non avevano molto tempo per dire addio a quelli che amavano e sarebbero rimasti ad Avaris. Si riempì i polmoni dell’aria che sapeva di casa. Casa. Sì, avrebbe sentito la mancanza dei cari ebrei che chiamava amici.

«Ummi, possiamo pregare El-Shaddai?» Gli occhi castani di Mehy brillavano alla luce della luna. «Mered e Miriam lo fanno.»

Anippe sapeva poco del dio degli ebrei. «Credi che El-Shaddai ascolterebbe le preghiere degli egiziani, habibi?»

«Miriam ha detto che ci conosce… conosce anche i nostri nomi segreti.»

Ancora una volta Anippe scacciò la paura. «Puoi pregarlo, habibi, ma devi essere sicuro che il dio degli ebrei non riveli a nessuno i nostri nomi segreti.»

Visto che alla sua incoronazione Abbi Horem forse sarebbe diventato un dio, Anippe non poteva permettersi le chiacchiere fra le divinità.