Quattro anni dopo
Anippe intinse nel vasetto pieno d’acqua la cannuccia appuntita e la rigirò nella polvere nera. Sul suo rotolo si vedeva soltanto una piccola macchia d’inchiostro, una in meno rispetto a Tut, e lei era decisa a battere il fratello. Disegnò un secondo simbolo dell’acqua aggiungendolo a pane, acqua, bacile, scatola e civetta per completare il nome del fratello: T-t-n-k-h-m-n. Sporgendosi a sinistra, sbirciò come procedeva il lavoro di Tut: i suoi segni erano molto più chiari di quelli del fratello, che oltretutto aveva sporcato il rotolo con un’altra macchia d’inchiostro.
«Brava, Anippe.» Il precettore scrutò lo scritto al di sopra della spalla della bambina, l’alito che sapeva di aglio e di cipolla. «Scrivi bene quasi come il figlio divino.»
Tut sorrise e Anippe alzò gli occhi al cielo: «Grazie, saggio e venerato maestro». Forse l’alito maleodorante gli offuscava la vista.
«Anch’io scrivo bene!» gridò Ankhe dal fondo della stanzetta. Sbatté la cannuccia sulla tavoletta quadrata e cominciò a fare a pezzetti il suo rotolo. «Tu passi tutto il tempo con Tut e Anippe!»
Il precettore afferrò la bacchetta di salice e Ankhe si girò appena in tempo per evitare di essere colpita sulla guancia. «Se passassi più tempo con te, Ankhe-Senpaaten-tasherit, probabilmente saresti frustata più spesso. È questo che vuoi? In quest’aula mi porterai rispetto e ti comporterai come si conviene alla figlia di un dio.»
Anippe ricacciò le lacrime che le facevano bruciare gli occhi: le figlie degli dei non piangevano. Non aveva intenzione di provocare il maestro e la sua bacchetta di salice. Toccò il fratello sotto il tavolo, pregandolo silenziosamente di intervenire: il figlio divino non veniva mai punito.
«O saggio e sapiente maestro, riprendiamo la lezione!» Tut inarcò un sopracciglio in un’espressione che lo faceva sembrare molto più grande dei suoi dieci anni: «Se un giorno dovrò regnare sull’Egitto, bisogna che capisca come mai alcune nazioni vassalle hanno tradito il faraone Akhenaton e hanno giurato fedeltà ai cani Ittiti. Le nostre frontiere orientali saranno a rischio se non riuscirò a controllare i popoli che s’interpongono fra noi e il nostro più terribile nemico».
Anippe guardò il fratello a bocca aperta: Tut era capace di ricordare tutte le nazioni e i territori come se i loro nomi fossero scritti sotto le sue palpebre.
Il maestro lanciò un’ultima occhiataccia ad Ankhe prima di sedersi di nuovo sullo sgabello accanto al suo allievo preferito: «Domande molto acute, figlio del benigno dio Akhenaton, re dei Due Regni e signore di tutti. Gli Ittiti sono davvero la minaccia più grande a oriente, una macchina da guerra con armi di ferro, ma dobbiamo stare attenti anche ai Nubiani a sud, sebbene si atteggino a servi fedeli del sovrano d’Egitto, dei suoi funzionari e dei comandanti del suo esercito: non bisogna mai fidarsi dei popoli stranieri».
Anippe sgusciò via, certa che il precettore fosse ormai immerso nel suo argomento preferito e scivolò accanto ad Ankhe, che stava ancora piagnucolando a testa bassa. Quando Anippe fece per accarezzarle le trecce della parrucca, Ankhe si scostò bruscamente.
Come sempre.
Ankhe odiava la disciplina, ma non le piacevano neanche le dimostrazioni di affetto. Poco dopo la morte di Ummi Kiya, Tut aveva detto agli adulti che tutti i figli del faraone Akhenaton avrebbero dovuto ricevere un’istruzione e aveva permesso ad Ankhe di sedere allo stesso tavolo con il fratello maggiore e la sorella, ma più cresceva, più i suoi scoppi d’ira peggioravano, tanto che qualche volta non la fermava nemmeno la bacchetta di salice. Il maestro aveva dovuto farla sedere a un altro tavolo.
Separata dagli altri, così sarebbe sempre stata Ankhe, non importava quanti sforzi facessero i suoi fratelli per rabbonirla.
Sotto il lino della veste di Ankhe Anippe scorse le vesciche prodotte dalla bacchetta di salice del precettore: «Mi farò dare da Ummi Amenia del miele da metterti sulla schiena».
«Non è la mia ummi!» Ankhe riprese la cannuccia e la intinse nell’acqua e nel pigmento. «Non hanno adottato me.»
«Però Amenia ti vuole bene lo stesso, Ankhe.» Anippe avrebbe voluto abbracciarla, ma aveva già provato a farlo: Ankhe detestava gli abbracci, detestava perfino essere toccata.
Un rumore di passi risuonò nel corridoio, soldati che battevano la lancia sul pavimento mentre marciavano, un rumore più forte di quello che avrebbero potuto fare i due uomini di guardia davanti alla porta, sembrava un vero e proprio drappello. Tut guardò Anippe impaurito e Anippe afferrò la mano di Ankhe, che una volta tanto non la ritrasse.
Il generale Horemheb comparve sulla soglia, sfiorandone gli stipiti con le ampie spalle, così alto che dovette chinarsi per entrare. Incuteva timore nell’armatura da guerra… finché non vide Anippe e le fece l’occhiolino.
Anippe non aveva più paura, il suo abbi l’avrebbe protetta da tutto, le aveva voluto bene e l’aveva viziata fin dal momento in cui Amenia l’aveva accompagnata da lui la prima volta.
Ma quando vide Ankhe, divenne rosso in faccia come una melagrana. Inveì contro il maestro: «Perché mia figlia è seduta accanto al piccolo babbuino? Ti era stato detto di tenerle divise!».
Prima che il precettore potesse aprire bocca, Abbi Horemheb prese Anippe per un braccio e la fece sedere sullo sgabello accanto a Tut. Gli occhi di Anippe si riempirono di lacrime. Abbi era sempre sgarbato con Ankhe, ma con Anippe mai, mai con la sua piccola habiba. Anippe sedette dritta accanto a Tut, battendo le palpebre per ricacciare le lacrime, sforzandosi di comportarsi da principessa come voleva abbi.
Quando il suo abbi si avviò alla porta, Anippe notò altre due persone sulla soglia tra i soldati: una bella signora e il visir Ay. Horem odiava il visir, forse era per questo che aveva perso la calma.
Chi sarà la bella signora che è con loro? La donna indossava una lunga veste a piccole pieghe, fissata sulla spalla con un fermaglio prezioso, e le treccioline della parrucca ricadevano in strati sovrapposti, adorne di gemme legate tra loro con fili d’oro. Anippe studiò il suo viso: aveva qualcosa di familiare, ma non apparteneva a una delle amiche di Amenia che le facevano visita nel palazzo di Menfi.
Il visir Ay fece tre passi e si fermò davanti al tavolo di Tut e di Anippe: «Il faraone Akhenaton ha iniziato il suo viaggio al di là dell’orizzonte. I sacerdoti hanno dato inizio ai riti di Osiride».
Tut si raddrizzò e, nascoste sotto il tavolo le mani che gli tremavano, rimase in silenzio per un po’ ansando come dopo una lunga corsa; e quando il respiro si fu fatto più calmo, disse: «Il divino Akhenaton attraverserà il cielo notturno e ci scalderà ogni giorno con il sole». Gli tremò la voce. Stava cercando di essere coraggioso, ma Anippe sapeva bene quanto Tut amasse Abbi Akhenaton. Il peso dell’Egitto gravava ora sulle spalle esili del fratello. «Quando salperemo per la cerimonia della sepoltura?»
Il visir Ay inclinò la testa e sorrise, come se Tut avesse visto soltanto cinque inondazioni: «Abbiamo molto di cui discutere con te, figlio divino, ma prima vorrei presentarti la tua nuova moglie».
«Moglie?» squittì Tut, guardando ora il visir ora la donna: il grande fratello di Anippe si era trasformato in un ragazzino intimidito. Fece cenno al generale Horemheb di avvicinarsi e gli bisbigliò all’orecchio: «Non mi serve una moglie, Horemheb… non ancora».
Chinato su di lui, Abbi Horem lo fissò negli occhi: «Figlio divino e amato principe, a un giovane re servono tre cose per regnare bene: un ka che apprende facilmente, consiglieri saggi e una brava moglie». Indicò con un cenno del capo la graziosa signora sulla soglia: «Senpa è la tua brava moglie, Ay e io siamo i tuoi consiglieri e tu hai dimostrato di avere un animo che apprende con facilità. Sei al tempo stesso umile e potente e io sono onorato di essere illuminato dalla tua presenza, o figlio preferito di Aton».
Tut deglutì più volte, forse mandando giù molte parole prima di trovare quelle giuste, una goccia di sudore sul labbro mentre tutti aspettavano che aprisse bocca.
«Quanti anni ha?» sbottò Ankhe, facendo la domanda che Anippe non aveva osato rivolgere. Tut guardò Abbi Horem con aria interrogativa, aspettando chiaramente una risposta.
La faccia di nuovo paonazza, il generale batté con forza la mano sul tavolo di Ankhe: «Non parlare senza permesso!».
Ankhe rialzò il mento con aria di sfida, ma tenne la bocca chiusa.
Il visir Ay condusse la donna graziosa al tavolo di Tut e di Anippe: «Divino principe, ti presento tua moglie, Ankhe-Senpaaten. È la tua sorellastra, è figlia di Akhenaton e di Nefertiti. Puoi chiamarla Senpa».
Anippe fissò sbalordita la figlia di Nefertiti.
Durante tutta la loro vita erano stati messi in guardia contro Nefertiti e ora Tut doveva sposare una delle sue figlie? Come potevano chiedergli una cosa simile? Senpa era bella, ma era anche vecchia, probabilmente aveva visto venti inondazioni, forse perfino venticinque. Come poteva un ragazzo di dieci anni essere il marito di una regina ventenne?
Anippe rabbrividì visibilmente, meritandosi un’occhiataccia da parte di Abbi Horem.
Il visir Ay si schiarì la voce e allontanò delicatamente Senpa: «Figlio divino e sovrano del mio cuore, abbiamo molti dettagli da discutere a proposito della cerimonia funebre e della tua incoronazione. Forse, nella tua grande saggezza, vorrai concedere alle tue sorelle di ritirarsi nell’appartamento di Amenia per organizzare le feste per le nozze».
«Sì, potete andare.» Tut parlò con un filo di voce.
Anippe avrebbe voluto restare, ma Abbi Horem stava già dando istruzioni a un drappello di guardie di fare loro da scorta fino agli appartamenti di Amenia.
«Un momento!» All’esclamazione tutti tacquero nella stanza. «Con il permesso del mio caro abbi, vorrei fare una domanda.» Anippe si alzò e s’inchinò al suo abbi, cercando di usare le sue migliori maniere di corte per conquistarsi la sua approvazione prima di formulare la domanda che le bruciava le viscere.
«Puoi parlare, figlia mia.»
Rialzando la fronte e raddrizzando le spalle, Anippe cercò di esprimersi come doveva fare la sorella non di un principe ereditario ma di un re: «Dopo il matrimonio Ankhe e io resteremo qui nel palazzo di Menfi con Tut e Senpa?».
Il visir Ay scoppiò in una risata, facendo perdere ad Anippe la sua compostezza.
Abbi Horem le sollevò il mento con gentilezza, attirando di nuovo su di sé l’attenzione della bambina: «No, piccola habiba. Tut rimarrà qui nel palazzo di Menfi con me e con il visir Ay. Senpa, Amenia, tu e Ankhe vi trasferirete invece nel palazzo dell’harem del Gurob con le altre mogli e figlie dei nobili. I funzionari del re visitano il Gurob parecchie volte all’anno. Ti divertirai aiutando nella bottega dei tessuti e giocando con molte altre bambine».
Anippe lottò con tutte le sue forze per conservare il sorriso sulla faccia, ma le si spezzava il cuore: prima Ummi Kiya e adesso Tut? Gli dei le avrebbero portato via tutti i suoi affetti?
Accennò un inchino al suo abbi e allungò la mano per prendere il rotolo dove aveva scritto il nome di Tut come ricordo dell’ultima lezione imparata insieme.
Il maestro le si parò davanti, la mano tesa: «Mi dispiace, principessa, non posso lasciarvi portare via quel rotolo».
«Ma perché? Io…»
Con un balzo Ankhe le fu al fianco, afferrò il rotolo e lo tenne stretto dietro la schiena. Abbi Horem glielo strappò di mano, lo porse al precettore e fece per dare un ceffone alla bambina, ma Anippe si interpose fra loro, impedendoglielo.
Prendendo Anippe per le spalle, il generale scosse il capo: «Tu la difendi troppo, habiba, lei deve imparare a comportarsi da principessa». L’abbracciò stretta e le dette un bacio sulla guancia. Quando si fu rialzato, torreggiando su Anippe e Ankhe, si rivolse a entrambe: «Non potete più scrivere il nome di vostro fratello in geroglifici. Egli è ora divino, il suo nome è sacro. Soltanto gli scribi reali possono tracciare il nome di un re nel cartiglio ovale. Ora le mie guardie vi accompagneranno da Amenia con Senpa».
Anippe ubbidì senza protestare e mentre si incamminava girò il capo a guardare il fratello, domandandosi quando Tut sarebbe diventato un dio; proprio quella mattina avevano riso e scherzato e perfino fatto una corsa dalle loro stanze fino alla classe. Lo aveva quasi battuto, ma di sicuro un dio correva più forte di una bambina.
Tut ascoltava i suoi consiglieri assolutamente immobile, senza espressione. Vuoto. Forse era questo l’aspetto di un dio.
Dopo essersi accertata che Ankhe fosse dietro di lei, seguì la bella figlia di Nefertiti lungo il porticato fino ai quartieri delle donne e, dimenticandosi di se stessa tra il cinguettio degli uccelli e il rumore dei sandali sulle piastrelle, mentre passavano accanto a uno stagno nel giardino inspirò l’aria impregnata del profumo dei fiori di loto.
Io scorrerò, come le acque del Nilo. Io sono Anippe, figlia di… Horemheb e Amenia.