XXIII

Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone. Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: «Io l’ho salvato dalle acque!».

ESODO 2, 10

Anippe strinse a sé Mehy, inspirando il suo odore confortante di bambino sano, felice e sudato. Durante i pochi giorni trascorsi nel villaggio degli artigiani non gli era stata rasata la testa e una peluria morbida stava ricrescendo intorno al ricciolo principesco. Anippe sfiorò con la guancia i capelli del suo bambino, allegro e in disordine: un balsamo per il suo animo.

Quando Anippe e Ankhe erano entrate incespicando dopo la faticosa salita dal molo avevano trovato Miriam ad aspettarle e Anippe era quasi crollata sul pavimento per il sollievo di vedere suo figlio, mentre Ankhe si era ritirata immediatamente nella sua stanza. Anippe non aveva avuto la forza di insistere perché restasse, forse Ankhe voleva essere sola per piangere non vista.

«Per favore, Amira, vieni a sederti qui.» Miriam aveva riempito un bacile di acqua fredda e le aveva lavato le membra affaticate dal viaggio, dando sollievo al corpo e all’animo insieme.

Ora la quiete regnava nella camera, unico suono il bel canto ebraico di Miriam, intenta a filare il lino seduta ai piedi dell’amira, mentre Anippe cullava il bambino che sembrava addormentato tra i lini ricamati.

«Amira, posso portare Mosè a fare una dormitina nel capanno sul fiume?»

Anippe abbassò lo sguardo sul figlio per controllare che dormisse ma il bambino era ancora sveglio, stava solo riposando placidamente sul seno della mamma. Amira si sentì sciogliere il cuore e si mise a piangere. «No, Miriam, devo sentirmelo vicino.»

In quel momento di immobilità Anippe riusciva quasi a dimenticare che ben presto avrebbero forse dovuto lottare per la loro vita. Occorreva preparare la sua ancella personale a quella possibilità.

«Miriam.»

La ragazzina alzò gli occhi, innocenza incorniciata da splendidi riccioli bruni: «Sì, Amira?».

Anippe si sforzò di ricacciare il panico che stava crescendo dentro di lei. «Non devi mai chiamarlo Mosè, nessuno deve mai sentire quel nome. Mi capisci?»

«Sì, lo so, anche mia madre mi aveva detto la stessa cosa prima che andassimo al villaggio ebreo. Non lo abbiamo mai chiamato Mosè davanti a mio padre o a Mered.»

Anippe provò una stretta al cuore: Mehy aveva vissuto nella stessa stanza con il suo vero padre senza che quell’uomo nemmeno lo sapesse. Scosse la testa, per ritrovare la concentrazione. «Brava, Miriam. Ora, dimmi, sai che cosa fare se mai fossimo in pericolo? Per esempio, se una nave nemica approdasse al molo di Avaris, sai come fare per chiedere aiuto?»

Miriam batté più volte le palpebre senza cambiare espressione. «No, Amira, non credo di saperlo.»

«Se mai dovesse succedere, dovresti prendere il principe Mehy e attraversare di corsa la terra di nessuno fino a Qantir.» Anippe riprese a cullare il bambino, stringendolo più forte a sé mentre parlava: «Se le guardie cercassero di fermarti, devi dire loro chi è Mehy, l’erede di padron Sebak. Ti lasceranno passare».

«Va bene.» Senza ulteriori commenti Miriam riprese a filare e a cantare piano. Anippe trasse un respiro profondo, cercando di rallentare i battiti frenetici del cuore. Il motivo che Miriam stava cantando era ossessivo ma bello e Anippe chiuse gli occhi, lasciando che la musica le accarezzasse l’anima mentre cullava lentamente il bambino.

Un colpo alla porta le fece sobbalzare entrambe.

Miriam saltò su per andare ad aprire, socchiuse appena la porta per vedere chi fosse, poi la spalancò, facendo entrare i tre uomini che Anippe aveva lasciato al molo.

«Mandai, tu dovresti essere nella camera accanto a riposare…» La loro espressione le disse chiaramente come il riposo fosse fuori questione. «Miriam, forse dovresti portare adesso Mehy al capanno sul fiume mentre io parlo con Mered, Mandai e Nassor.»

Mehy si aggrappò al collo della madre quando Miriam cercò di prenderlo e il pianto del bambino toccò il cuore di Anippe che si commosse di nuovo.

«Mi dispiace,» si scusò con i visitatori «da quando sono tornata qui non faccio altro che piangere.»

Mered dette qualche colpetto affettuoso sulla schiena di Mehy prima che Miriam lo portasse al capanno sul fiume: «Sembra che tu sia stata molto coraggiosa, Amira. Hai diritto alle lacrime».

Anippe tirò su col naso e alzò gli occhi, cercando di riprendere il controllo di se stessa, poi si raddrizzò respirando profondamente. «Va bene, sentiamo.»

Mandai fece un passo avanti, portavoce del gruppetto: «Abbiamo un piano per proteggere te e Mehy qui ad Avaris, nonché le altre proprietà e fortezze del Delta».

«E Abbi Horem? Bisogna avvertirlo!»

Mandai le impose silenzio con la mano alzata. «Sì, Amira. Abbiamo pensato anche a questo.» Si interruppe, deglutendo a fatica e scambiando un’occhiata con Nassor.

L’ansietà di Anippe crebbe a dismisura, non aveva mai visto quel medjay così imbarazzato e nervoso. «Dimmi, dunque.»

Nassor si dimostrò il più coraggioso. «Io parto immediatamente per allertare Qantir e gli altri ramessidi del Delta. Mandai sa dove può trovarsi il generale con il suo esercito ma è ferito, perciò si unirà a una carovana di mercanti e viaggerà su una nave.»

«È qui che il mio aiuto diventa utile.» Mered si inginocchiò davanti all’amira attirando la sua attenzione. «Domani una carovana ritirerà le merci ordinate, vesti reali, lenzuola, tende e altri articoli e dal momento che il mercante si fida di me gli chiederò di viaggiare con la sua carovana per certi affari che devo concludere in Fenicia. Mandai figurerà come la mia guardia personale.»

«Che cosa? No. Non potete lasciarmi tutti e tre!» Anippe sapeva che l’avrebbero giudicata una bambina viziata ma non le importava. «E se Ay attacca mentre i soli tre uomini di cui mi fido se ne vanno in giro per il Delta… e in Fenicia?»

Mandai si inginocchiò accanto a Mered: «Nassor tornerà qui non appena avrà avvertito le proprietà e le fortezze».

A quel punto Nassor si unì a loro, in ginocchio davanti all’amira. «Avvertirò per prima la fortezza di Sile e chiederò se hanno avuto notizie del generale. È l’ultima fortezza del Delta sulla frontiera orientale dell’Egitto e, se il generale Horemheb ha avuto sentore del tradimento di Ay e sta tornando, organizzerà la sua difesa a partire da Sile.» Il tono di voce si addolcì, rivelando la tenerezza che si nascondeva sotto il suo fare brusco: «Incaricherò uomini di Sile di aiutarmi a diffondere le notizie, così potrò tornare più in fretta».

Ad Anippe non restò che annuire. Si girò dall’altra parte sopraffatta dall’emozione e i suoi tre amici si rialzarono per avviarsi alla porta, le spalle curve, e l’aria sconfitta; ma Anippe non poteva lasciarli andare con l’impressione di averla tradita quando al contrario erano tra gli uomini più coraggiosi che avesse mai conosciuto.

«Vi ringrazio.» Le parole uscirono da un singhiozzo.

Tutti e tre si voltarono e ognuno di loro le offrì un sorriso, un inchino, uno sguardo che prometteva: ritornerò.

Mered era tornato a casa dopo il difficile incontro con Anippe, ma quello con la moglie fu ancora più difficile.

«Perché devi andare, Mered?» gli domandò piangendo Puah. «Tu non sei un soldato, non sei nemmeno un vero mercante, non hai mai nemmeno commerciato in un mercato di città!»

Mered cercò di ragionare, di spiegare, perfino di corrompere. Nessun risultato. «Tornerò da te, Puah.» Si chinò verso di lei per baciarla, ma Puah lo respinse. Offeso, Mered cercò di controllarsi ma sapeva di doversene andare prima di dire qualcosa di cui si sarebbe pentito in seguito. «Vado alla filanda, così potrò mettere al corrente l’amira sugli ordini in arrivo e sul lavoro quotidiano. Probabilmente stanotte tornerò tardi.»

Mentre scostava la tenda per uscire, una lucerna di terracotta s’infranse sulla parete accanto alla sua testa.

«Di’ all’amira che la saluto!» gli gridò dietro Puah.

Non l’aveva mai vista così arrabbiata… o spaventata.

La paura che aveva lui era pari a quella della moglie, anche se a Puah Mered non lo avrebbe mai confessato. El-Shaddai, proteggi mia moglie e mio figlio mentre sarò lontano. Riportami da loro… sano e salvo. E presto.

Si trascinò alla filanda, il cuore pesante nel calore del mezzogiorno, e arrivato in cima alla salita lanciò un’occhiata all’ingresso della villa, dove si vedevano Mandai e Nassor. Il medjay sembrava riposato, la ferita fasciata da poco nascosta da una tunica di lino candida.

Mered alzò una mano in segno di saluto e Mandai lo invitò a scendere per unirsi a loro. Nassor non sogghignava con disprezzo e nemmeno lo minacciava con la mazza. Un miglioramento.

Mandai lo accolse con un gran sorriso: «Vedi la fasciatura sotto questa veste?» gli domandò indicando il bendaggio perfetto sotto il bisso purissimo. «Ho parlato a tua moglie della nostra missione e si è arrabbiata a tal punto che ho chiesto all’altra levatrice di medicarmi la ferita.»

Mered lo guardò stupefatto: «Hai pensato che Sifra, la levatrice che hai arrestato, fosse meno pericolosa di mia moglie?».

Nassor scoppiò in una risata rimbombante: «Eri condannato in partenza, amico mio, con l’una o con l’altra donna!».

Mandai chinò il capo, facendosi serio: «Sono state molto gentili con me, Mered. Siete stati tutti molto gentili».

Rimasero in silenzio, un silenzio pesante, interrotto alla fine da Nassor: «Ho avvertito il sovrintendente della proprietà di Avaris di un possibile attacco, e anche le guardie sul pianoro. Sono appena tornato da Qantir. Il loro sovrintendente ha posizionato altri soldati per avvistare le navi da guerra di Ay».

«Sei riuscito a fare molto in una sola mattina.» Mered sorrise al rozzo ma efficiente ramesside.

«Parlavo sul serio quando ho promesso all’amira che sarei tornato il più presto possibile. Ora parto per Sile.»

Mandai prese Mered sottobraccio: «Ti accompagniamo al molo».

«Aspettate!» gridò una voce femminile e alle loro spalle comparve Anippe, seguita da Miriam e Mehy. «Veniamo con voi.»

Il gruppetto si era avviato verso il molo quando a un tratto Miriam indicò l’albero di un’imbarcazione in lontananza: «È quella la chiatta reale?».

La domanda fu come una martellata sul petto di Mered, che si immobilizzò di colpo. Tutti e quattro gli adulti si ripararono con la mano gli occhi dal sole cocente, cercando di distinguere la nave attraverso la foschia prodotta dalla calura. Era una sola vela… oppure tre?

«Tu dovresti ritirarti con Miriam e Mehy, Amira.» Mandai sguainò la spada. «Non c’è solo la chiatta reale, vedo anche le vele di due navi da guerra che l’accompagnano. Questi uomini non sono venuti per fare conversazione.»

Era la sua occasione per fuggire, sembrava ragionevole pensare di nascondersi a Qantir finché il combattimento non fosse finito, o cercare di salvarsi su una nave diretta al Grande mare. Ma lei era figlia di Horemheb.

«I soldati sanno combattere. Una donna sa parlare. Abbi Horem diceva sempre che la sorpresa è l’arma migliore quando si è di forze inferiori. Si aspettano la tua spada, Mandai, non si aspettano le mie parole.» Anippe premette la mano su quella del medjay costringendolo a puntare a terra l’arma.

Con riluttanza l’uomo rimise la spada nel fodero.

Anippe dette inizio alla marcia alla testa delle sue truppe: un medjay, un ramesside e un tessitore. Arrivarono prima che la chiatta reale si accostasse al molo. Essendo l’inizio della stagione del raccolto, il livello del Nilo era alto abbastanza da consentire la navigazione, ma non tanto da non dare ad Anippe il tempo di riordinare le idee. L’amira e i suoi uomini aspettarono a venti passi dal molo, osservando le navi accostare e la prima passerella abbattersi con un tonfo sulla sabbia.

Un nobile seguito da sei soldati mise piede sulla tavola, ma Anippe lo arrestò con le sue prime parole: «I rappresentanti del traditore Ay, chiunque essi siano, non sono i benvenuti in questa proprietà. Ay ha ucciso mio fratello, il nostro clemente dio re Tut, e ha accusato falsamente e assassinato l’amata Amira Amenia, moglie del generale Horemheb».

Un brusio preoccupato si levò tra i rematori, i soldati e gli schiavi, esattamente l’effetto che Anippe si era proposta di ottenere: si interrogassero pure su quella versione dei fatti.

Il tronfio cortigiano, portavoce del visir Ay, aprì e chiuse la bocca, ripetutamente, in apparenza incapace di pronunciare verbo. Sembrava un pesce fuor d’acqua anziché un araldo.

Dopo quella prima vittoria, Anippe continuò: «Fra pochi momenti le alture alle mie spalle si riempiranno di soldati ramessidi. Sbarca e sei morto».

Quell’ultima minaccia parve ridestare il pesce boccheggiante: «Lascia che chiarisca le nostre intenzioni, Amira. In effetti sono qui per ordine del visir Ay ma solo per implorarti di ritornare per amore della regina Senpa. Le navi da guerra che vedi alle mie spalle dovevano servire alla mia sicurezza. Il visir Ay ha previsto la tua ostilità, ma vuole che io ti assicuri di nuovo che il fatale incidente occorso al nostro sovrano è stato vendicato. In effetti la donna che avete nominato è morta il giorno stesso in cui il faraone ha iniziato il suo viaggio al di là dell’orizzonte. Purtroppo tu sei partita senza salutare la regina Senpa e ora tua sorella, addolorata e sola, si sente tradita».

Anippe si coprì la bocca con la mano, soffocando il grido che stava per sfuggirle.

«Il visir Ay ha mandato la chiatta reale e questa scorta militare per ricondurre al Gurob sani e salvi te, la principessa Ankhe e tuo figlio affinché possiate consolare la regina Senpa e assistere al funerale del faraone Tut.»

Furtivamente Mandai le strinse un braccio, bisbigliando: «È una trappola, Amira. A parte la regina Senpa, voi tre siete gli unici rimasti di sangue reale a legittimare il suo diritto al trono. Non sappiamo che cosa abbia fatto della regina».

Il vecchio pesce fece un passo verso la riva. Nassor estrasse la spada, ma altrettanto fecero le guardie del nobile. «Ti prego, Amira Anippe. Il visir Ay ha mandato me per evitare spargimento di sangue. Perfino la regina si rende conto che le è possibile usare questa tragedia per il bene dell’Egitto. Intende sposare il principe ittita Zannanza. Il loro matrimonio unirà l’Egitto e Hatti in un solo regno, facendo guarire il suo cuore ferito e sanare la discordia fra i nostri due popoli.»

«Non è vero! Senpa non vorrebbe mai unire l’Egitto alla terra di Hatti.» Anippe cominciò a tremare. «Questo è un altro complotto del visir Ay. Come puoi essere così insensibile?»

«Non sono più insensibile di una sorella che rifiuta di dare conforto alla sua famiglia o assistere all’ultimo viaggio del fratello. Su, vieni con noi, Amira!» Fu quell’ipocrisia a darle la nausea o la crudeltà di quel piano che adesso le era completamente chiaro? «Si sta preparando con reverenza il corpo del faraone Tut per il suo viaggio al di là dell’orizzonte» continuò il nobile. «Sarà trasportato sull’imbarcazione sacra fino alla Valle dei Re e il suo cuore verrà presentato ad Anubis alla fine del settantesimo giorno di lutto. Di sicuro vorrai essere presente alla cerimonia della successione, quando il nuovo faraone riceverà l’incarnazione di Horus.»

Il nuovo faraone. Le parole furono uno squillo di tromba che si portò via dolore, paura, rimorso. «Assisterò alla cerimonia per il vero successore quando il mio abbi Horemheb sarà tornato. È il principe reggente. È lui il figlio di Horus scelto dalla divinità e sarà lui a strapparti il cuore per offrirlo a Seth se non lascerai immediatamente la mia proprietà.»

Il nobile si mise a ridacchiare. Poi a ridere. Infine a sghignazzare, trascinando in una risata collettiva tutta la sua truppa e infine le ciurme delle altre navi.

E Anippe non poteva fermarli.

Se fossero scesi a terra e l’avessero portata via con la forza, i ramessidi si sarebbero battuti valorosamente… e avrebbero perso. Forse gli dei le avevano dato Mehy soltanto per vederlo uccidere dalla spada del suo nemico? Chinò il capo e attese che l’ilarità generale cessasse.

E cessò. All’improvviso.

Anippe lanciò un’occhiata al cortigiano, poi seguì il suo sguardo che era fisso sul pianoro in alto alle sue spalle. Fu lo spettacolo più bello che avesse mai visto: l’intera distesa arida e piatta che separava Avaris da Qantir era gremita di uomini che brandivano scudi, spade, pugnali scintillanti. Il sole raggiante faceva scaturire lampi da ogni pezzo di metallo su quel terreno elevato trasformando gli schiavi e le guardie in un esercito formidabile. Chissà come, Miriam era riuscita a far accorrere in aiuto di Avaris i ramessidi di Qantir.

Sentendosi di nuovo piena di coraggio, Anippe si azzardò a sfidare il cortigiano con qualche mezza verità: «Informa il tuo visir che gli insediamenti del Delta hanno armato i loro schiavi ebrei formando un esercito pari al suo come numero e come valore. Il generale Horemheb è già stato avvertito e i ramessidi hanno tagliato le vie commerciali del visir e interrotto le comunicazioni attraverso la frontiera orientale dell’Egitto e il Grande mare. Di’ al visir Ay che i suoi contatti con gli Ittiti sono finiti. Sono sicura che quel matrimonio non è stata un’idea di Senpa».

Lo stagionato pesce sogghignò: «Il messaggero era già stato inviato agli Ittiti sei settimane fa».

Anippe riuscì a malapena a respirare. Già inviato. Già inviato. Già inviato. Troppo tardi, dunque? Se il piano di Ay avesse avuto successo, l’Egitto sarebbe diventato una delle nazioni vassalle dell’impero ittita, derubato della sua indipendenza, della sua ricchezza, dei suoi migliori soldati. Certamente Ay sarebbe diventato un faraone fantoccio sotto il pugno di ferro di Hatti. Avrebbero dato la caccia ad Abbi Horem come se fosse stato un criminale e quanti erano fedeli a lui sarebbero stati imprigionati, le loro proprietà confiscate.

Il cortigiano ordinò ai suoi uomini di risalire a bordo e corpi neri e lustri ritirarono la passerella per salpare immediatamente remando contro la corrente di bassa marea, la cantilena del pilota sempre più lontana sul fiume: «Dentro, fuori, voga, dentro, fuori, voga…».

Anippe rimase immobile come una statua finché le tre navi non furono più visibili, poi crollò a terra, piangendo, tremando, balbettando. I suoi tre difensori le si avvicinarono cercando di confortarla.

«Andate via. Lasciatemi stare.»

Braccia premurose la sollevarono di peso e Anippe vi si rannicchiò senza preoccuparsi di chi fossero, in quel momento non aveva nessuna importanza quale fosse il suo mezzo di trasporto. Tutto era perduto.

Si svegliò poco prima del tramonto nella sua camera. Sola.