V
[Il faraone] disse al suo popolo: «Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese.»
ESODO 1, 9-10
Anippe si affrettò verso il portone per sfuggire al marito, ma i lunghi passi fermi di Sebak non le permisero di allontanarsi e la sua mano implacabile sulla schiena bruciava come una fiamma. Si fermò davanti alla porta, a capo chino, come se ignorasse la sua presenza, ma aspettando che fosse lui a tirare il chiavistello.
L’uomo la scrutò attraverso i riccioli della parrucca con quel suo sorrisetto che la faceva infuriare. «Quando avrò aperto questa porta, ti farò da scorta e se cercherai di scappare ti porterò di peso.»
Come faceva a sapere che aveva pensato di tornare di corsa nelle sue stanze? Che cos’era, un indovino o un soldato?
I Nubiani medjay dall’altra parte del portone lo spalancarono e Anippe riprese a camminare in fretta, non proprio una corsa, ma un passo veloce che avrebbe dovuto mettere in guardia Sebak: non voleva certo essere una preda facile a cui dare la caccia quella notte.
Quattro passi soltanto, poi il braccio di Sebak le circondò la vita, mentre i piedi le si sollevavano dal mosaico del pavimento. Si fermò, immobilizzandola contro il suo petto muscoloso e mostrando di apprezzare le guance arrossate di lei: «Hai paura di me o degli uomini in generale?».
La lingua secca come il deserto orientale impediva ad Anippe di pronunciare una sola parola, certamente non una frase coerente. Sebak si chinò come se volesse rimetterla in piedi, ma al contrario le passò l’altro braccio sotto le ginocchia e la sollevò sulle braccia. Senza fretta, come se lei fosse leggera come una piuma, si diresse al porticato dell’harem.
Il collo e le guance di Anippe scottavano come se fossero rimasti esposti al sole troppo a lungo. Che cosa ci si aspettava che dicesse? O che facesse? Non aveva mai parlato davvero con un uomo, solo con Tut o con Abbi Horem oppure con il suo vecchio precettore. Tenendo la testa in modo da nascondere le guance con i riccioli della parrucca, giocherellò con la fibbia d’oro e di turchese.
«Non hai nessun motivo di avere paura di me, Anippe. Sono stato scelto per proteggerti, non per farti del male.»
Sebak si fermò e per un secondo il cuore di Anippe sembrò arrestarsi. Che cosa stava facendo? Anippe guardò a destra e a sinistra, ma non vide altro che palme, le mura del palazzo e servi frettolosi nel lungo porticato che conduceva agli appartamenti.
«Perché ti sei fermato?» Anippe alzò lo sguardo su quel volto, il più attraente che avesse mai visto.
«Volevo vedere i tuoi occhi. Sono belli, sai, hanno il colore della sabbia nel porto di Avaris.» La baciò sulla fronte.
Anippe trattenne il fiato. Sebak riprese a camminare, le colonne cominciarono a ondeggiare e Anippe si rese conto che si era dimenticata di respirare. Quell’uomo l’aveva completamente paralizzata. È questo l’amore, si disse? Si sentiva lo stomaco annodato, le sudavano le mani e le sembrava di avere un fremito di ali di farfalla nel petto. Oh, Hathor, dea dell’amore! Uccidimi ora, se l’amore fa più male di così.
«Anippe, stai bene?» L’espressione esterrefatta di Sebak le fece capire che in qualche modo doveva aver dato voce al suo tormento. Sebak piegò un ginocchio a terra e la fece sedere sull’altro: «Dimmi qualcosa, per favore». La sua mano enorme e callosa le accarezzò una guancia, una ciocca di capelli tra le folte sopracciglia aggrottate per l’ansietà.
Le lacrime la soffocavano. Sebak era stato così gentile con lei, meritava una risposta. «Ho un po’ paura di te, ma soprattutto ho paura di andare a vivere nel Delta senza Ummi Amenia. A parte Ankhe, non ci sarà nessuno che conosco, una volta che gli ospiti delle nozze se ne saranno andati e poi non ho mai avuto schiave ebree, solo nubiane.»
I caldi occhi castani l’accarezzarono, calmandola: «Il generale Horemheb mi ha promesso che potrò rimanere con te ad Avaris per due mesi almeno prima di tornare sul campo di battaglia». Le toccò i lunghi riccioli facendo tintinnare i fili di perline d’oro. «Tu sarai Amira di Avaris e le nostre ebree ti serviranno bene come le nubiane. I miei schiavi lavorano per me duramente e sono volenterosi.»
«Ma che cosa farò ad Avaris? Qui al Gurob io lavoro nella filanda, preparo i disegni per i tessitori e qualche volta tesso anch’io.»
Sebak allungò una mano e fece scorrere il tessuto del manto di lino di Anippe tra le dita. «Il mio capo filanda ti sta tessendo la veste da sposa ora mentre parliamo e farà sembrare uno straccio questo tuo mantello.»
Indignata, Anippe gli strappò di mano il tessuto: «Sappi che questo è il miglior lino prodotto al Gurob».
Il giovane sorrise e con un dito tracciò una linea dalla spalla di lei al braccio e giù fino alla coscia e al ginocchio. «E io ti dirò che Avaris produce il migliore lino del Delta, forse di tutto l’Egitto, e che tu ora comandi tutti gli schiavi della filanda, Amira. Il mio capomastro, Mered, è ansioso di compiacerti.»
Il respiro di Anippe si era fatto corto, la mente confusa: come poteva pensare lucidamente con lui così vicino, con le sue mani che la sfioravano teneramente? Balzò giù dal ginocchio del giovane e gli voltò le spalle, rassettandosi la veste. «Che succederà dopo due mesi, quando te ne sarai andato? Io resterò sola, tu sarai lontano, in guerra, e dimenticherai di avere una moglie.» Questa volta non scappò via di corsa, ma indugiò, come preda che sperava di essere presa in trappola.
La presenza dell’uomo incombeva alle sue spalle, poi le mani di lui le circondarono la vita e le sue labbra si premettero sul suo orecchio: «Io sono tuo marito per sempre, Anippe. Non ho avuto nessuna moglie prima di te e non ne avrò nessuna oltre te. Il generale Horemheb mi ha affidato il suo tesoro più caro e io mi dimostrerò degno della sua fiducia. E della tua». Le scostò la parrucca dai lunghi riccioli a spirale e le depose un tenero bacio alla base del collo.
Con le ginocchia tremanti, Anippe chiuse gli occhi e lasciò che la sensazione la trasportasse nel futuro. Era sposata. Con quel soldato. E quel soldato le sembrava meraviglioso. Era mai possibile?
Sentì un colpetto sul naso e aprendo gli occhi si trovò davanti al sorriso divertito del marito. «Possiamo andare nella tua camera ora?»
Per la prima volta Anippe non aveva fretta di vedere Amenia e Ankhe, in realtà avrebbe preferito che Sebak la tenesse per sempre nelle sue forti braccia stringendola a sé e bisbigliandole dolci promesse. «Vuoi portarmi in braccio di nuovo o devo camminare?»
Il suo feroce guerriero rise, una risata profonda che sembrava salirgli dalle viscere: «Il tuo abbi mi aveva avvertito che eri una creatura imprevedibile».
«Ha detto anche testarda?»
«Credo che ti abbia definito “decisa”.» Sebak la guardò di nuovo negli occhi come se cercasse qualcosa di nascosto in lei: «Non vedo l’ora di conoscere tutto di te, Anippe».
Abbassando il capo, le guance di nuovo in fiamme, la ragazza riprese a camminare. Chissà se intendeva portarla nella sua camera quella sera stessa? Forse avrebbe dovuto ascoltare con più attenzione quando Ummi Amenia aveva cercato di parlarle della prima notte di nozze di una donna.
Facendo appello a tutto il suo coraggio, si costrinse a farsi uscire le parole di bocca: «Lascerò la camera di Ummi Amenia e di Ankhe questa sera?». La voce le tremava nonostante i suoi sforzi per mantenerla ferma.
Sebak avanzava a passo lento lungo il porticato lasciando che la brezza del mattino li avvolgesse. «Tu rimarrai con Amenia fino al matrimonio ad Avaris.» Procedette per qualche passo in silenzio, apparentemente godendo appieno del venticello e del canto degli uccelli. «Ti piacerebbe sapere quali sono i nostri programmi di viaggio e in che modo intendo onorare mia moglie?»
«Sì, per piacere.» Anippe gli venne più vicina finché la spalla non gli sfiorò il braccio e la mano di lui non le scivolò intorno alla vita. Possessiva. Protettiva.
«Ho ordinato ai servi del Gurob di radunare le tue cose e caricarle stasera su una chiatta da trasporto. Salperanno domattina dato che per rimorchiare un’imbarcazione così pesante sulle acque basse del Nilo occorre il doppio del tempo rispetto alla chiatta reale. Dopo la caccia tu e la tua famiglia vi imbarcherete con il re, dovreste arrivare più o meno insieme ai bagagli. »
«Ma se avessi bisogno di…»
«Prenderai con te soltanto le vesti e i gioielli che ti serviranno nel viaggio.» Sebak si arrestò e si girò verso di lei. «Una volta arrivati ad Avaris ogni tua necessità sarà soddisfatta, moglie mia. Il tuo abbi Horem e io ci siamo fermati nella mia proprietà venendo qui. I miei schiavi ebrei stanno già lavorando al tuo guardaroba e ai gioielli. Come ho già detto, la tua veste nuziale sarà la più bella che si sia mai vista in Egitto.»
«Io credevo che gli ebrei fossero pastori e agricoltori, non artigiani…»
Le parole le parvero offensive e le rimpianse immediatamente: «Mi dispiace, non volevo…».
Sebak rise e le sfiorò la guancia prima di passarle di nuovo il braccio intorno alla vita per riprendere la tranquilla passeggiata. «Gli ebrei erano tribù reali nomadi che vivevano nel Delta molto prima dei ramessidi, venute in Egitto centinaia di anni fa a causa di una carestia nella loro terra di Canaan. Loro e altri cananei hanno dato origine al popolo degli hyksos e si sono stabiliti nel Delta. Hai sentito parlare degli hyksos?» Sebak inarcò un sopracciglio, aspettandosi di vederla allibita davanti a tanta conoscenza.
La maggior parte delle donne non riceveva nessuna educazione, ma le lezioni con i precettori di Tut erano diventate di colpo molto utili: «Ma certo. Gli hyksos hanno regnato in Egitto per secoli, fino a quando il faraone Thutmosis III non li ha cacciati».
La risata sonora di Sebak fluttuò nell’aria del mattino, unendosi al cicaleccio allegro delle donne dell’harem al lavoro. «Brava, Amira!» Si chinò a baciarla sul capo mentre camminavano e il cuore di Anippe le balzò nel petto. «Ma il faraone Thutmosis non ha cacciato gli hyksos da solo, ha voluto l’aiuto della mia gente, i guerrieri ramessidi che vivevano tra gli hyksos e conoscevano i loro punti deboli. Li abbiamo cacciati dall’Egitto, tutti tranne una tribù molto ostinata, gli abiru, o ebrei, come vengono chiamati oggi. E il faraone ha dimostrato la sua gratitudine offrendo ai miei antenati ramessidi delle proprietà.
Gli ebrei, però, crescevano tanto in numero, ricchezze e potere che il faraone successivo temette che se ne andassero dall’Egitto e condividessero ricchezze e potere con i nostri nemici. Per rimediare chiamò di nuovo in aiuto i ramessidi, questa volta come padroni di schiavi, per disperdere le dodici tribù di Israele fra le varie proprietà del Delta.»
Sebak si arrestò, lasciando ricadere la mano che stringeva la vita della ragazza. Anippe aspettava con impazienza di conoscere il resto della storia, ma Sebak, le braccia incrociate sul petto, la fissava come in attesa della sua reazione.
Perplessa, Anippe non riuscì a nascondere la sua irritazione: «Allora? Perché ti sei interrotto?»:
Dopo aver fatto un cenno alle due guardie nubiane, suo marito le indicò la porta degli appartamenti di lei: come avevano fatto ad arrivare così presto?
Sebak le prese la mano, tenendola tra le sue come qualcosa di prezioso: «Avaris sarà il tuo regno, Anippe. Quando saranno terminati i nostri mesi di comunione matrimoniale e io sarò ripartito per la guerra tu governerai sulla nostra proprietà e sui nostri ebrei. Sarai Amira». Si chinò per sfiorarle le labbra con un bacio. «Sarai sempre sorella del faraone, figlia di Horemheb, ma ora sei moglie di Sebak… e io ti amerò. Sarai felice come Amira di Avaris.»
Anippe aveva la sensazione che le sue ginocchia fossero fatte d’acqua e barcollò quando lui le lasciò la mano, ma Sebak ridacchiò, sostenendola e facendo segno alle guardie di aprire la porta. La mano di lui sul suo fianco la faceva sentire protetta come fosse di grande pregio; entrarono insieme, legati da quel semplice tocco.
«Buongiorno» li salutò Amenia, mettendo da parte il ricamo.
Ankhe, seduta al suo telaio vicino al cortile, si alzò quando Amenia tese la mano per porgerla a Sebak. Con il cuore che le batteva forte alla vista della sorella minore, Anippe ricordò solo in quel momento la notizia terribile che doveva darle.
Respirò profondamente: «Ummi Amenia, ti presento il capitano Sebak, nobile rammesside del Delta: mio marito».
Sebak si inchinò e Ummi Amenia gli posò la mano sulla parrucca, dandogli il permesso di rialzarsi: «Congratulazioni, capitano, per la tua promozione e per la tua sposa».
«Grazie, Amira Amenia. Per favore, sappi che sarai sempre la benvenuta nella nostra proprietà di Avaris.»
«Avaris?» Ankhe si fece pallidissima. «Anippe non può lasciarmi! Non può andarsene laggiù!» Senza aspettare la risposta corse via, uscendo dal cortile dallo stesso portone che aveva usato Anippe qualche ora prima.
Nel silenzio imbarazzato che seguì, Amenia fissò il pavimento mentre Anippe sentiva che la mano di Sebak si staccava da lei, spezzando il legame che si era creato tra loro. Si girò verso di lui, sperando di poter giustificare lo scatto di Ankhe, di potergli parlare della vita difficile di sua sorella, del suo bisogno di affetto e di pazienza.
Il viso del marito era duro come pietra: «Adesso capisco come mai tuo fratello vuole che faccia la tua ancella. Avrà bisogno di molta disciplina per servire fra gli ebrei nella mia proprietà». Si chinò, baciò Anippe sulla guancia e uscì a grandi passi dalla stanza.
«La tua ancella?» La voce di Ummi Amenia era un bisbiglio, quasi temesse che gli dei potessero udirla.
«Come faremo a dirglielo, ummi? Non possiamo dirle che è stato Tut a deciderlo!» Le lacrime salirono agli occhi di Anippe al pensiero di un’altra ferita aperta nell’animo della sorella.
Amenia aprì le braccia, invitando Anippe sul suo seno. «Be’, per lo meno sarà con te. Glielo dirò io. Non le piacerà ma ubbidirà perché così sarete insieme.»
Avvolta dal calore e dal senso di sicurezza dell’abbraccio della sua ummi, a un tratto Anippe fu colpita da un pensiero orrendo e si ritrasse di colpo, esclamando: «Se Abbi Horem pensa che la mia vita sia in pericolo qui al Gurob, come puoi rimanere tu ed essere al sicuro?».
Il viso di Amenia sembrava un campo di battaglia, dove si combattevano compassione e tristezza, rabbia e rassegnazione: «Piccola habiba, tu sei il futuro di Horemheb e io il suo passato. Il mio compito è rimanere qui, nell’harem del Gurob, per scoprire attraverso i pettegolezzi delle mogli che cosa tramano i nobili, mentre tu e Sebak ci darete dei nipotini per la nostra vita nell’aldilà». Batté un colpetto affettuoso sulla guancia di Anippe, il viso raggiante di amore. «Dobbiamo tutti ballare sulla musica degli dei, Anippe, anche quando la musica è una nenia funebre.»
«Ma Abbi Horem ti vuole bene…»
«Certo che mi vuole bene» la interruppe Amenia, allungando la mano verso il ricamo e sedendo di nuovo sullo sgabello di legno. «Ma qualche volta l’amore richiede sacrificio, habiba. Ora siedi qui con me mentre aspettiamo che Ankhe abbia smesso di fare i capricci.»