Tre anni dopo

Le tempeste di vento erano comuni durante la stagione del raccolto, ma quella mattina la bufera era cominciata presto e aveva infierito su Avaris senza tregua. Puah aveva cercato di bloccare la polvere che entrava dall’unica finestra con cesti e tela da sacchi, e Amram e Mered avevano rovesciato il tavolo mettendolo contro la tenda divisoria. Mered trascorse la mattinata rincorrendo sua figlia Ednah, di due anni, mentre Amram si occupava della colazione di Aronne che ne aveva sette e di Ieter, quattro anni. Puah macinava il grano per la razione giornaliera di pane e tutti quanti pregavano affinché la tempesta fosse abbastanza violenta da impedire il lavoro quotidiano, ma non tanto da danneggiare i raccolti e gli edifici.

Quando si presentò il sovrintendente dei campi e ordinò al piccolo Aronne di unirsi ai mietitori, Amram e Mered capirono che avrebbero dovuto tornare anche loro alle rispettive botteghe; Amram si diresse speditamente alla costruzione di mattoni di fango che ospitava il laboratorio di oreficeria di Avaris sul lato meridionale della proprietà. La filanda di Mered, con le sue pareti di canne, lasciava entrare un’arietta che dava sollievo nei giorni più caldi di Shemut, ma ora, all’inizio della stagione del raccolto, soffrivano tanto gli operai quanto i tessuti.

S’incamminò faticosamente nel vento e nella sabbia, una lunga striscia di bisso avvolta intorno alla testa per proteggerla dai detriti sollevati dalle raffiche e, quando ebbe raggiunto la soglia della bottega, se ne liberò scuotendo la polvere e la sabbia sulle piastrelle del pavimento ai suoi piedi. Non si sentiva il consueto cantilenare ritmato degli operai, ma solo lo sbattere iroso delle pareti di canne intorno a schiavi ebrei spaventati.

«Perché questi schiavi lavorano con un tempo così?» L’amira, in piedi sulla porta più vicina alla villa, sembrava poco propensa a entrare nella bottega sconvolta dal vento furioso. «Non è sicuro… non ci si può aspettare…» Le parole vennero inghiottite da raffiche ancora più violente e sul suo viso si diffuse un’espressione di assoluto terrore. «Tutti alla villa! Subito!» Con un cenno invitò gli schiavi a seguirla e li guidò lungo il sentiero che conduceva al giardino. «Portate le vostre cose, oggi lavorerete nella sala grande. Presto!»

Dopo un’altra raffica furibonda gli schiavi raccolsero tutto ciò che riuscivano a trasportare e si affrettarono dietro l’amira verso l’interno spazioso di una residenza padronale dove non erano mai entrati.

Mered afferrò un cesto e vi gettò rotoli, cannucce e pigmento oltre a qualche disegno di Anippe. Dopo la nascita del piccolo Mehy, il diminutivo che aveva scelto per il suo piccolo Horemheb, l’amira si era dedicata ancora di più ai disegni, che erano diventati sempre più belli. I membri della nobiltà egiziana e straniera indossavano le bellissime vesti di lino di Avaris disegnate dall’amira. I tessitori avevano imparato ad apprezzare la sua creatività e preferivano addirittura i suoi motivi a quelli di Mered.

Il capo filanda si accorse che i tessitori non si erano mossi come gli altri, ma erano fermi in piedi davanti ai telai verticali, immersi nel ritmo del loro lavoro.

«Avete sentito l’amira! Subito nella sala grande! Perderò i miei artigiani migliori se vi cadrà il tetto sulla testa!»

«E i telai?» gli gridò uno di loro girandosi verso di lui senza smettere di lavorare. «Non possiamo portarli con noi, sono troppo pesanti!»

Gli altri nove tessitori annuirono con enfasi: ogni telaio era alto come un uomo e largo come tre, e il lino di Avaris aveva bisogno di quegli artigiani ma anche di quei telai.

A fianco di Mered comparve Anippe: «Due di voi rimangano qui, gli altri otto vengano nella sala grande per incontrarsi con me a proposito dei nuovi disegni». Rivolse la sua attenzione a Mered: «Quando sarà finita la tempesta, penseremo a progettare dei muri veri per la filanda, o per lo meno a un modo per rinforzare le pareti. Se vogliamo realizzare il miglior lino dell’Egitto, dobbiamo avere la migliore filanda dell’Egitto».

I tessitori scelsero chi dovessero essere i due di loro a rimanere lì e gli altri uscirono in massa.

Mered, in piedi accanto all’amira, la guardò con orgoglio: «Grazie!».

«Grazie a te, Mered. Tu e la tua famiglia mi siete diventati molto cari. Quando Sebak tornerà a casa…» Le si spezzò la voce. Dopo una pausa, si schiarì la gola e rialzò la fronte: «Quando padron Sebak sarà qui, avrò soltanto cose belle da riferire sul tuo lavoro».

Si stava sforzando tanto di comportarsi da donna adulta e coraggiosa: tre anni e non un segno di vita da parte di suo marito. Ancora infuriava la guerra contro gli Ittiti, ma da due anni il messaggero del Delta non arrivava più. Perfino le domande rivolte da Anippe allo stesso faraone Tut erano rimaste senza risposta.

«Sono certo che tornerà presto, Amira. Sicuramente la guerra non potrà durare ancora a lungo.»

«Spero che tu abbia ragione, Mered. Se non avessi Mehy e Miriam non so che cosa farei.»

Mered trovò strano che l’amira parlasse di suo figlio e di una schiava ebrea con lo stesso affetto, ma non voleva sembrare scortese parlandone. Con la coda dell’occhio notò che era sul punto di piangere e capì che la tempesta di vento non era l’unica che stava infuriando.

«C’è qualcosa che posso fare per aiutarti, Amira?»

Anippe tentò di ridere, asciugandosi gli occhi dipinti con un piccolo panno piegato con cura: «No, suppongo che per te sarà una buona notizia. Stasera rimanderò Jochebed al villaggio degli artigiani».

Mered batté le mani, il suono spento dalle raffiche. «Ne sono davvero felice! Se Jochebed e Miriam torneranno al villaggio, ciò vuol dire che potrò addestrare Miriam per la mia filanda?»

«Ho detto che sta tornando Jochebed. Non Miriam.» Si girò per guardare Mered in faccia, lo sguardo fermo, quasi di sfida: «Miriam rimarrà nella camera accanto alla mia come mia ancella personale. Ho permesso a sua madre di restare con lei finché era piccola, ma ormai Miriam ha visto nove inondazioni. È abbastanza grande da servire a sua volta».

«Certamente, Amira.» Mered si inchinò. «Sei stata più che generosa.»

Anippe si allontanò senza voltarsi indietro, la bufera all’esterno meno violenta di quella interiore tradita dai suoi occhi.

Anippe aveva sempre saputo che sarebbe arrivato quel giorno e lo aveva temuto fin da quando aveva scoperto che Jochebed era la vera ummi di Mehy, Mosè, come era chiamato allora.

Alla fine di una lunga giornata osservava il suo prezioso bambino giocare con i dadi di legno d’acacia nello spazio riservato alle ore diurne. Gli arazzi erano ancora tesi fra le colonne del giardino interno per tenere lontane il più possibile polvere e sabbia. Il vento era cessato al tramonto e si poteva sperare che le bufere fossero finite per quella stagione e che la mietitura potesse cominciare quanto prima.

Miriam sbucò dall’ombra con un flacone di olio profumato: «Vuoi che ti massaggi il viso e la testa, Amira?». Era stata particolarmente quieta quella sera: senza dubbio sentiva la mancanza di Jochebed.

«Sì, per favore.»

Anippe ebbe una stretta al cuore mentre la fanciulla le toglieva la parrucca e l’aiutava a sdraiarsi sui cuscini ricamati. Gli occhi chiusi, lasciò correre i suoi pensieri: avrebbe potuto trattare meglio Jochebed? Avrebbe potuto fare di più per la donna che le aveva ceduto il figlio così che Anippe potesse diventare una ummi, una vera amira, una vera moglie per Sebak?

Sebbene normalmente i bambini venissero svezzati a tre anni, aveva permesso a Jochebed di allattarlo ancora per sei mesi e aveva lasciato perfino che continuasse a chiamarlo Mosè… quando nessuno poteva udirla. Per tutti gli altri era Mehy, un nomignolo che gli era venuto alle labbra mentre cercava di chiamarlo con il suo vero nome: Horemheb.

Mentre Miriam le massaggiava le tempie, Anippe ripercorse mentalmente le loro abitudini serali. Spesso Miriam faceva quel che stava facendo adesso, ma era Jochebed che teneva Mehy in braccio, accarezzandolo dolcemente; lo allattava, gli cantava una ninna nanna, gli parlava del dio degli ebrei… In quel momento però suo figlio giocava da solo.

Dov’era finita Ankhe?

Mancò poco che Anippe non saltasse su dal divano, impaurendo Miriam e Mehy. Afferrato il martelletto, lo battè sulla campanella ancora e ancora: dov’era la sua pigra sorella?

Mehy cominciò a piangere e Anippe lo prese subito in braccio, sussurrandogli paroline dolci all’orecchio per calmarlo: «Sss, ummi vuole soltanto che Ankhe venga a giocare con te, habibi. Tu meriti di essere trattato come il principe d’Egitto che sei».

Lo fece ballare, lo cullò, lo riempì di moine mentre Miriam aspettava seduta sul divano osservando la scena.

Anippe sollevò l’unica treccia sulla testa del figlio. A riprova del suo svezzamento e parte del sacrificio a Seth, il dio patrono dei ramessidi, i sacerdoti gli avevano rasato i bei riccioli neri e ora portava un unico boccolo intrecciato, segno di regalità e prova che l’inganno ideato da Anippe aveva avuto successo. Ma il suo bel bambino avrebbe scambiato ben volentieri l’indifferenza di Ankhe con l’affetto di Jochebed.

Sua sorella non passava più di un’ora al giorno con il nipote a lei affidato e questo per espresso desiderio di Anippe. Perché ho accettato che diventasse la sua insegnante? Sua sorella era diventata un’estranea.

Sequestrata nel suo alloggio privato, trascorreva le giornate da sola. Sebbene la sua stanza fosse di fronte a quelle di Anippe, si rifiutava di unirsi a lei nel capanno sul fiume e appariva sempre imbronciata durante l’ora in cui avrebbe dovuto occuparsi di Mehy. Quando Jochebed e Miriam cercavano di coinvolgerla in una conversazione, le trattava peggio delle schiave domestiche. Era come se Ankhe stesse annegando in un mare di odio, ma la sorella non poteva più salvarla.

«Tutto fatto.» Ankhe entrò in gran fretta sbatacchiando la porta e si diresse a grandi passi verso i cuscini dove si abbatté dopo essere passata accanto a Mehy e Anippe senza degnarli di uno sguardo e aver scostato sgarbatamente Miriam. «Ho ordinato a Nassor di scortare Jochebed al villaggio degli schiavi.»

«Per lo meno non l’hai fatta tornare a casa sua al buio.» In quel momento Anippe era più preoccupata del piccolo Mehy trascurato che del ritorno di Jochebed a casa sua. Col bambino in braccio, sedette con precauzione sui cuscini e con l’applicatore di alabastro disegnò tre cerchietti neri sulla manina grassottella di Mehy, usando il kohl del vasetto posato sul tavolino. «Questo cerchietto è Mehy, questo è ummi e questo è Ra, il grande dio del sole. Noi siamo sempre insieme, siamo tre e nessuno può separarci.»

Il bambino puntò il dito sui piccoli segni neri, poi la guardò con gli occhi che brillavano: «Oooh!».

Ankhe alzò i suoi al cielo, spazientita: «Non capisce quello che gli dici, non ha nemmeno festeggiato quattro inondazioni!».

«Mehy, di’ ad Ankhe che tu sei un bambino molto intelligente e che impari tutto.»

«Io paro utto!» Mehy spalancò le braccine e Anippe gli fece il solletico, riempiendolo di baci sul collo.

Poi, prendendo la manina nella sua: «Di’ a ummi chi sono i cerchietti» lo esortò. «Chi è questo?»

«Mehy.»

«E questo?» Il bambino con prontezza rispose correttamente a tutto e il cuore di Anippe si gonfiò di orgoglio.

«La tua insegnante, Ankhe, ti disegnerà questi cerchietti sulla mano tutti i giorni per ricordarti che Ummi Anippe e il grande dio Ra saranno sempre con te.» Inchiodò Ankhe con gli occhi: «Non è vero, maestra Ankhe?».

Palesemente annoiata, Ankhe sospirò e fece distrattamente un cenno di assenso.

La frustrazione di Anippe aumentò: «Allora, sorella: che lezioni hai previsto per mio figlio domani?».

L’aria distratta di Ankhe sparì con la rapidità di un ippopotamo che avesse urtato un coccodrillo nel fiume: «Che vuoi dire con “lezioni”? Non sa nemmeno parlare bene, come potrei insegnargli qualcosa?».

In preda a una collera violenta, Anippe sbottò: «Stai attenta, sorella! Ti sto dando una possibilità, una sola, di essere l’insegnante di un erede dei ramessidi. Fallo bene e quando la guerra sarà finita Sebak ti darà un marito. Fallo male e Sebak userà la frusta su di te».

Ankhe sembrò davvero spaventata e, alzandosi dal divano, aprì le braccia al nipotino: «Bene, piccolo Mehy, vogliamo andare in giardino a parlare di ranocchi e di fiorellini?».

«Ma è buio!»

L’affermazione sensata di Miriam suscitò l’ira di Ankhe: «Chiudi il becco, marmocchia! Ti ho già spiegato che cosa ti succederà se mi starai tra i piedi.»

Miriam si scostò prontamente, aspettandosi gli schiaffi di Ankhe.

Anippe si mise tra loro: «Basta, Ankhe! Come osi minacciare la mia ancella personale?».

Gli occhi di Ankhe si riempirono di lacrime: «Ma certo, tu difendi la tua preziosa Miriam, hai preferito lei a me da quando ha seguito quel maledetto cesto fino al tuo canale privato!».

«Non è vero…»

«È vero invece e io sono stufa! Voglio il rispetto che merito, Anippe, oppure…»

«Oppure che cosa, Ankhe? Oppure dirai a Tut e ad Abbi Horem di Mehy? Non oseresti, hai mantenuto il segreto troppo a lungo, sorella. La tua testa cadrebbe insieme alla mia.»

Ankhe parve calmarsi di colpo e la ragazza assunse un’aria perfettamente composta: «Avrò da te il rispetto che merito oppure tutti i tuoi preziosi ebrei finiranno i loro giorni nella terra di nessuno, tutti quanti.»

Il gelo scese nell’animo di Anippe. Come in una nebbia sentì piangere accanto a sé e si girò verso Miriam, che nascondeva la faccia tra le mani.

Si voltò di nuovo verso la sorella: «Che hai fatto?». Il sorriso di trionfo di Ankhe alimentò le paure di Anippe: «Che cosa hai fatto, Ankhe?».

«Quel che bisognava fare. Puah e Sifra sanno di Mehy, ma hanno dato prova di discrezione. Jochebed non ha nessun motivo di mantenere il segreto e anzi potrebbe sperare ancora di riavere suo figlio un giorno. Ho detto a Nassor che si era comportata male con l’amira, suggerendo che fosse mandata nella terra di nessuno.»

Anippe cominciò a tremare, il respiro ansante. La cara, gentile Jochebed nei pozzi di fango dell’altopiano? Le si piegarono le ginocchia e temette di lasciar cadere Mehy. Sedette sul pavimento e, alzando lo sguardo, vide che Miriam piangeva ancora silenziosamente, Ankhe piantata davanti a lei come una trionfatrice.

«Taci e vattene,» stava ingiungendo a Miriam «l’amira non ha più bisogno di te.»

«No, aspetta!» Anippe allungò il braccio verso la fanciulla che si stava allontanando di corsa. «Io ho bisogno di te.» I grandi occhi di cerbiatta incontrarono quelli di Anippe e, scorgendovi un grande dolore, l’amira ritrovò il suo sangue freddo: «Ho bisogno di te per Mehy mentre io e Ankhe andiamo a riprendere tua madre. C’è stato un terribile sbaglio. Un errore, ecco tutto. Stasera sarà di nuovo nel villaggio degli artigiani, con tuo padre e il tuo fratellino.»

Annuendo, Miriam prese in braccio Mehy, e il bambino, avvertendo lo stato d’animo della ragazza, la strinse forte, la testa sulla sua spalla.

«Ti pentirai di questo, Anippe.» Ankhe scosse la testa, cominciando ad avere paura: «Jochebed lo dirà a tutto il villaggio e poi non possiamo andare nella terra di nessuno dopo il tramonto! Ci sono gli animali e non solo iene e sciacalli. E non sai che cosa aspettarti dalle guardie in servizio di notte».

Anippe afferrò il braccio di Ankhe e la spinse verso la porta.

«Ascoltami, Anippe, non possiamo andare là!»

Anippe allungò la mano e spalancò la porta: Nassor era tornato e stava di guardia con altri tre soldati ramessidi.

«Voi quattro accompagnerete mia sorella e me alla terra di nessuno» ordinò Anippe. «Per sbaglio Ankhe ha mandato là una delle nostre schiave specializzate e vuole scusarsi con lei di persona.»