XIII

La moglie di Amram si chiamava Jochebed, figlia di Levi, che nacque a Levi in Egitto.

NUMERI 26, 59

Troppo stanco per sollevare le braccia, Mered appoggiò i gomiti sul suo tavolo nella filanda e abbassò il capo per togliersi la fascia di lino bianco che portava intorno alla testa. Aveva resistito un giorno intero sotto il sole estivo per tenere d’occhio il muro che proteggeva il capanno privato dell’amira, ma non aveva visto la piccola Miriam uscire da lì. Ankhe l’aveva forse portata alla sorella? Consegnata alle guardie? Si premette il lino inzuppato di sudore sugli occhi pieni di lacrime piangendo per la sorte della brava bambina che proprio quella mattina lo aveva aiutato a preparare la farinata.

«Capo filanda, perché non stai lavorando?» La voce del sovrintendente della proprietà lo attraversò come una lama.

Balzò in piedi, rovesciando lo sgabello: «Ho controllato il lavoro all’aperto dei miei schiavi». Accennò con il capo al sole che tramontava. «Dovevo accertarmi di alcune cifre prima di tornare a casa…» Perché mai il sovrintendente era lì, comunque? I ramessidi non mettevano mai piede nella filanda.

«Be’, a casa ancora non ci torni. L’amira mi ha mandato a dirti che vuole due rotoli di papiro per i disegni che farà avere ai tuoi tessitori.» Mered notò il rossore che si stava diffondendo sul collo dell’uomo e tenne d’occhio la mano che giocherellava con il corto bastone appeso alla cintura. «Non so perché all’improvviso sono diventato il suo fattorino, ma il messaggio lo hai avuto.»

Mered si inchinò prontamente. «Consegnerò i rotoli stasera stessa. Immediatamente.»

Udì i passi del ramesside allontanarsi e rialzò il capo seguendolo con lo sguardo: basso e corpulento, probabilmente il sovrintendente non attraversava a piedi la proprietà da una parte all’altra da molti anni. Un fattorino non lo era di sicuro.

Perché mandare lui allora? E a che cosa era dovuto questo improvviso interesse dell’amira per il disegno?

Mered si stropicciò la faccia, cercando di liberarsi dalla confusione che aveva in testa e afferrò due rotoli bianchi. Non le importava né dell’amira, né del sovrintendente, gli importava soltanto di andare a casa da Puah e vedere i genitori di Miriam. Certamente a quell’ora dovevano essersi resi conto della scomparsa della piccola e lui avrebbe potuto dare qualche spiegazione… anche se le sue non erano certo buone notizie.

«Buonanotte a tutti!» augurò agli schiavi uscendo. Fino al mattino avevano battuto, cardato, pettinato le fibre nella filanda illuminata fiocamente, sostituiti dai tessitori e dagli addetti alle perline, che avevano bisogno della luce del giorno per il loro complicato lavoro.

I sandali calpestarono frettolosamente le piastrelle dei vari porticati tra gli edifici; Mered voleva sbrigare in fretta quell’ultima commissione e andare a casa prima che fosse del tutto buio. Tornare al villaggio degli artigiani al crepuscolo era ancora più pericoloso durante l’inondazione: i coccodrilli cercavano terreni elevati quando il Nilo usciva dal suo letto e le femmine erano particolarmente pronte e difendere i piccoli.

Mentre attraversava il giardino Mered, notando i fiori della ninfea azzurra che si stavano chiudendo nel sonno notturno per risvegliarsi poi all’alba come bravi operai, riscaldati dai raggi potenti del sole per rendere tutti partecipi della loro bellezza squisita, inspirò profondamente l’aria vagamente impregnata del loro profumo.

Svoltò nel lungo porticato che conduceva agli appartamenti privati della villa, assalito solo in quel momento da un pensiero invadente: e se la richiesta dell’amira fosse stata una trappola? I passi di Mered rallentarono mentre il cuore accelerava i battiti. E perché aveva incaricato il sovrintendente del messaggio?

Arrestandosi a breve distanza dai corridoi della residenza, Mered abbassò lo sguardo sui due rotoli di papiro che teneva in mano, concentrandosi adesso su una questione più pratica: ma l’amira aveva almeno il materiale per scrivere, le cannucce, i pigmenti colorati?

Sempre più frustrato, calcolò l’altezza del sole morente guardando dalle alte finestre del corridoio: doveva assolutamente tornare a casa per raccontare ciò che sapeva su Miriam.

Ancora qualche passo quasi di corsa e si trovò davanti alla porta della camera di padron Sebak, fulminato con gli occhi dai soldati di guardia che lo fissavano come se fosse un topo in un granaio.

Mostrò i rotoli: «Devo consegnare questi all’amira».

La più corpulenta delle guardie picchiò con l’impugnatura della spada sulla porta dell’amira e l’ancella Ankhe sbirciò dalla porta socchiusa: «Era ora che arrivassi, capo filanda. Entra». Aprì la porta un po’ di più, rivelando una stanza poco illuminata.

Mered, piantato sulla soglia, le tese i rotoli: «Non ho nessun bisogno di vedere l’amira. Puoi darle questi…».

Il soldato lo afferrò per il collo e lo scaraventò nella stanza. Mered seguì Ankhe incespicando, mentre gli occhi si adattavano al buio. Arazzi erano appesi come tende sulle aperture che davano nel giardino interno, rendendo simili a stelle in un cielo notturno le poche lampade nell’appartamento del padrone.

«Seguimi.» Mered vide che la sorella dell’amira si dirigeva verso la camera da letto adiacente, ma non fece un passo di più.

«Lascio i rotoli su questo tavolo e vado.» Si chinò per posarli sul tavolo basso, rifiutandosi di farsi attirare in qualsiasi giochetto l’amira – o sua sorella – avesse in mente.

«Mered? Portali qui.» Era la voce di Puah. Perché mai sua moglie era nella camera dell’amira?

Superando la sorella dell’amira e la sua lucerna, Mered si precipitò dietro la tenda divisoria e vide Puah china sull’amira che appariva rosea e in perfetta salute, sdraiata sul suo soffice materasso. Si sentì assalire dalla collera e gettò i papiri sul letto: «Ecco i tuoi rotoli, Amira. Posso prendere mia moglie e andare a casa?». Cercò la mano di Puah, che gliela porse, chinando il capo.

L’espressione gentile dell’amira si fece gelida. Con lentezza intenzionale, prese un rotolo bianco, lo svolse, poi prese l’altro: non aveva fretta di rispondere a uno schiavo.

Nel cerchio di luce alle spalle di Mered cercò la sorella: «Ankhe, perché non dici al capo filanda perché l’ho fatto chiamare?».

Mered avrebbe preferito sapere che ne era stato di Miriam: avrebbe preferito scoprire che gli inganni dell’amira erano cosa del passato.

Continuò a fissare Anippe corrucciato mentre l’ancella parlava: «Padron Sebak si fidava di te e mia sorella pensa di potersi confidare. Aspetta un bambino e tua moglie si prenderà cura di lei nei mesi della gravidanza; ma Anippe resterà confinata nel suo appartamento privato».

Mered si sentì pieno di vergogna anziché di collera. La giovane sposa di padron Sebak si era rivolta a lui per un aiuto e lui l’aveva delusa, deludendo anche Sebak. El-Shaddai, perdonami.

Con un movimento brusco, Anippe srotolò i papiri sul letto: «Volevo fare qualche disegno qui nel mio appartamento dato che non potrò recarmi alla filanda finché l’erede di Sebak non sarà nato». Mered ebbe la sensazione che il suo sguardo lo perforasse da parte a parte. «Forse è stato un disturbo per te portarmi i rotoli, forse un altro ebreo potrebbe mandare avanti la filanda in modo più efficiente.»

Prima che quelle ultime parole fossero state pronunciate Mered era in ginocchio, sconvolto nel più profondo dell’animo. «Ti prego, Amira, perdonami! Non sono in me, volevo correre a casa perché oggi ho visto la piccola Miriam scomparire dietro il muro del tuo capanno sul fiume. Sua madre, Jochebed, è una cara amica…»

«Hai visto Miriam entrare nel mio capanno privato?» Il tono ansioso di Anippe lo fermò.

Mered osservò le tre donne scambiarsi occhiate preoccupate, il che accrebbe la sua paura. «Per favore, puoi dirmi che cosa è successo alla bambina?»

Gli occhi dell’amira trasmettevano una minaccia silenziosa che rimase nell’aria in modo inquietante: «Prendo con me la bambina come schiava domestica» disse alla fine Anippe. «Mi è piaciuta.»

Parve che gli occhi di Ankhe stessero per uscirle dalla testa: «Anippe, non è questo che abbiamo deci…».

L’amira la fece tacere alzando una mano e si rivolse di nuovo a Mered: «Tu, capo filanda, tornerai là e lavorerai tutta la notte come punizione per la tua insolenza. Tua moglie, Puah, porterà la bambina alla villa immediatamente».

Il cuore di Mered accelerò i battiti: Puah? Camminare fino al villaggio da sola al crepuscolo?

Il sorriso di Anippe gli ricordò uno sciacallo. «Non sono spietata, Mered. Anche la madre di Miriam potrà vivere alla villa, le troveremo un lavoro.» Di colpo il viso di Anippe si fece di granito. «Ora fuori di qui.»

Anippe aveva il cuore in gola mentre Ankhe accompagnava Mered alla porta. Era tutto chiaro per lei ora. La somiglianza incredibile tra gli occhi di Miriam e quelli del bambino. Miriam che era tornata con una balia così in fretta. Sì, Jochebed era la madre di Miriam… e del bambino. Anippe si massaggiò le tempie, assalita dai dubbi. E se Jochebed si fosse rifiutata di cedere il figlio una volta svezzato? E se Mered… Aveva visto Miriam scomparire dietro il muro. E se avesse visto il cesto? No, non aveva accennato al cesto e certamente, se lo avesse visto, ne avrebbe parlato, non era di sicuro il genere di uomo che non esprimeva le sue preoccupazioni. La porta sbatté, facendo sobbalzare Puah e ricordando ad Anippe la presenza della donna.

Qualche istante dopo comparve Ankhe. «Be’, mi pare che sia andata bene, Puah non ha dovuto mentire al marito e il sovrintendente sa che tu lavorerai ai disegni mentre sei qui confinata.»

Raccolse un rotolo e lo riavvolse, legandolo con la cordicella di cuoio. «Forse la gente della casa non penserà che l’amira sia completamente matta.»

Anippe udì Puah tirar su col naso e notò che si asciugava gli occhi. Forse era stata troppo dura con il marito della levatrice. «Ankhe, su, vai a prendere Jochebed e Miriam.»

Sbuffando indignata, la sorella uscì a grandi passi dalla stanza per andare a prendere il bambino, la balia e Miriam che aspettavano nel capanno sul fiume. Adesso che era sola con Puah, Anippe poteva spiegarle il perché della sua decisione di rimandare Mered alla filanda per la notte.

«Grazie, Amira.» Puah si asciugò di nuovo le lacrime e la confusione di Anippe crebbe ulteriormente.

«Perché mi stai ringraziando?»

«Avresti potuto ordinarmi di tornare a casa portando con me il tuo segreto e così avrei dovuto mentire a Mered, anche solo con il mio silenzio.» Si soffiò il naso in un pezzetto di lino sfilato dalla cintura. «Mio marito non tollera la falsità. Per lo meno ora ha ricevuto una spiegazione, ma non sono stata io a mentire.»

Anippe fece una smorfia a quelle espressioni di gratitudine. «So che ti sto mettendo in una posizione difficile, Puah, ma ti ricompenserò generosamente se tutto andrà bene.»

La donna sorrise tra le lacrime: «Non ho bisogno di nessuna ricompensa, Amira. Sono una schiava. Faccio quello che mi si dice di fare».

Arrivò Ankhe con Miriam per mano, seguita da Jochebed che aveva in braccio il bambino. Miriam corse da Puah e Jochebed mise il bimbo in grembo ad Anippe.

«Tu sei la ummi del bambino, non è così?» le disse Anippe.

Il rossore si diffuse sul collo di Jochebed: «Ero sua madre questa mattina, ma ora tu sei la sua ummi». Si inchinò, le mani tremanti incrociate sul ventre.

Anippe scambiò un’occhiata dubbiosa con Ankhe. Potevano fidarsi di Jochebed? E se, dopo averlo allattato per tre anni, avesse cercato di riprenderselo o, peggio ancora, di rivelare la verità?

«Io devo andare.» Puah depose un bacio sulla testa di Miriam.

Ignara di essere diventata schiava domestica di Anippe, Miriam corse dalla sua ummi e l’abbracciò alla vita: «Ti voglio bene, addio, ti rivedrò quando avrai finito di fare la balia».

Jochebed si inginocchiò davanti a lei e le mise le mani sulle spalle: un innaturale senso di pace emanava da loro. «Sarai una brava aiutante per Puah. Abbi cura di tuo padre e di tuo fratello finché sarò via. Quando tornerò a casa, tutto sarà come prima.»

Per qualche motivo, le parole della donna rincuorarono Anippe. «Se riconoscerai che questo bambino è veramente mio figlio, potrete restare tutte e due, tu e Miriam, a servire alla villa.»

Miriam batté le mani saltando felice e Jochebed pianse di gioia: «Grazie, Amira, grazie!».

Ankhe alzò gli occhi al cielo: «Come è possibile che siano felici di essere confinate qui come prigioniere per aiutarti con il tuo piano?».

Miriam si fece seria: «Che cosa vuol dire “prigioniere”?».

Se Anippe non avesse avuto in braccio quello che ora era suo figlio, avrebbe rotto un vaso in testa alla sorella. Si avvicinò alla bambina, che la guardava con i suoi occhioni innocenti che contenevano tante domande. «Un prigioniero è qualcuno che è costretto a stare dove non vuole stare.»

«Come gli ebrei?»

Jochebed mise una mano sulla bocca della figlia. «No, Miriam. Ti prego, perdonala, Amira» soggiunse chinando il capo. «Qualche volta non riflette prima di…»

«Miriam, devi imparare a riflettere prima di parlare.» Anippe non voleva mostrarsi arrabbiata con la bambina, ma c’erano delle vite in gioco. «Il piccino che era nel cesto adesso è mio figlio, ma nessuno deve sapere che l’ho salvato dalle acque del Nilo. Mi hai capito? Dobbiamo far credere a tutti che sono incinta e che questo bambino è uscito dal mio corpo. Tu resterai nella camera accanto con tua madre fino a quando lei allatterà mio figlio.»

Miriam si liberò dalla stretta di Jochebed. «Ma chi si occuperà di mio padre e di Aronne?»

«Lo farò io, piccola.» Puah si inginocchiò per avere il viso al livello del suo: «Mered e io avremo cura di Amram e di Aronne mentre tu e tua madre servirete nella villa. Ma, ricordati, non devi mai dire a nessuno perché sei qui».

Miriam fece segno di sì col capo, scuotendo i riccioli; se a innocenza e bellezza venisse riconosciuto un premio, quella bambina lo avrebbe vinto di sicuro.

«Siamo d’accordo, allora.» Puah si rivolse ad Anippe: «Mi dispiace, Amira, ma io devo veramente andare adesso. È già il crepuscolo e dal momento che Mered non potrà accompagnarmi…». S’interruppe, coprendosi la bocca, spaventata. «Non intendevo accusare… lamentarmi. Voi avevate tutto il diritto di redarguirlo…»

«Sì, ne avevo tutto il diritto, ma ho mandato Mered alla filanda perché volevo nascondere Jochebed e Miriam nel mio capanno sul fiume.» Inarcò le sopracciglia per sottolineare il concetto: «E gli ho ordinato di lavorare tutta la notte a causa della sua insolenza».

Puah si inchinò. «Capisco» disse annuendo. Attese, giocherellando con la cintura.

Anippe notò che il sole era tramontato e provò del senso di colpa per aver trattenuto così a lungo la levatrice. «Ankhe darà istruzioni a Nassor di farti da scorta.» Si rivolse alla sorella: «Accertati che prenda con sé per lo meno altre due guardie. Non posso permettere che la mia levatrice sia divorata dagli sciacalli o dalle iene».

Un sorriso illuminò il volto di Puah e per un momento Anippe si sentì molto vicina a lei: avrebbero potuto diventare amiche, forse? Che pensiero curioso!

«Grazie, Amira.» Puah si inchinò, poi si avvicinò a Jochebed rivolgendole uno sguardo d’intesa. Le loro mani si unirono prima di staccarsi lentamente in un affettuoso e muto addio fra due donne che conoscevano un’amicizia profonda. Chissà com’era la loro vita nel villaggio ebreo, lontano dai soldati ramessidi, dai padroni e dalla paura costante?

La piccola Miriam sbadigliò rumorosamente, la bocca spalancata.

«Miriam!» Jochebed sembrava mortificata. «Non essere maleducata.»

Anippe rise divertita, ammirando tuttavia il modo in cui la donna ebrea cercava di educare la figlia: «Forse è quasi ora di andare a dormire».

«Sì. Lei e il suo fratellino Aronne dormono e si alzano col sole.»

Un’ombra di tristezza attraversò il viso di Jochebed alla menzione del figlio e all’improvviso Anippe ebbe una fitta di rimorso al pensiero che stava distruggendo quella famiglia. «Jochebed, ti pagherò per il tuo servizio, manderò a casa tua una razione di frumento, vino, olio, qualsiasi cosa di cui abbiano bisogno tuo marito e tuo figlio finché sarai qui.»

Jochebed strinse a sé Miriam, quasi raggiante: «Grazie, Amira, ma non ce n’è bisogno, mi hai dato Miriam».

«Be’, io comunque comincerò domani a farvi avere le razioni in più.»

Miriam sbadigliò ancora, più silenziosamente questa volta, ricordando però ad Anippe che la piccola aveva bisogno di dormire.

«Questa notte dormirete tutte e due nel mio soggiorno e domani trascorreremo la giornata nel capanno sul fiume.» Sorrise al bambino che teneva in braccio, poi a Miriam: «Potrai aiutarmi ad avere cura del piccolo mentre resteremo nascoste là e quando torneremo qui la sera dei bravi schiavi avranno già aperto una porta nella parete della mia camera». Indicò uno spazio dall’altra parte del letto, dove sarebbe stato realizzato un passaggio che avrebbe messo in comunicazione le due stanze. «Così tu e tua madre potrete vedere il bambino senza dover passare davanti a quelle odiose guardie ramessidi nel corridoio.»

«Proprio come a casa con Mered e Puah!» Miriam batté le mani ridendo allegramente.

Anippe guardò Jochebed con aria interrogativa. «La nostra stanza ha una porta in comune con quella di Mered e Puah nella casa del villaggio» spiegò Jochebed. Inchinandosi, dette una piccola gomitata a Miriam perché la imitasse. «Grazie per le cure che ci stai riservando.» Quando rialzò la testa, lanciò uno sguardo pieno di desiderio verso il bambino. «Vuoi che lo tenga io per la notte?»

La porta della camera sbatté e Anippe udì un suono di voci: «Ankhe?».

Comparve una giovane donna ebrea con un neonato tra le braccia, seguita da Ankhe che aveva un sorrisetto sulla faccia e portava un cesto di indumenti. «Ho pensato di aggiustare un po’ il tuo piano, sorella… come hai fatto tu invitando Miriam a restare qui.»

Anippe abbassò lo sguardo sul bambino in braccio alla donna, riportandolo poi sulla sorella: «Che cosa hai fatto, Ankhe? Vuoi informare tutta la proprietà e farci uccidere tutte e due?».

Di colpo la donna ebrea parve terrorizzata, mentre Ankhe aveva un sorriso di trionfo sulla faccia: «Anippe, ti presento la tua nuova ancella personale, Efa. Dal momento che in passato sei stata poco sollecita nel mantenere le promesse che mi hai fatto, ho scelto Efa per sostituirmi presso di te».

«Ankhe, questo non faceva parte del piano. Perché hai preso un’ancella con un neonato, un neonato maschio?»

«L’ho voluta proprio per questo. Lo ha tenuto nascosto nei quartieri degli schiavi per una settimana.» Cinse con un braccio le spalle della giovane donna. «Abbiamo fatto un bel po’ di chiasso prima di venire qui, per essere sicure che tutti gli schiavi domestici sapessero che ci stavamo trasferendo nel tuo appartamento perché l’amira aspetta un bambino e vuole imparare a prendersi cura di un erede.»

«E se le guardie volessero gettarlo nel Nilo?»

Ankhe alzò gli occhi al cielo spazientita: «Tu sei l’Amira, Anippe. Dirai alle guardie che hai salvato questo maschio perché vuoi imparare a reggere il vasino per l’erede di Sebak. Usa la tua autorità. Recita se devi». Ankhe abbassò la voce, tornando sui suoi passi in direzione della porta. «Io dormirò nella stanza privata in fondo al corridoio. Efa e il suo bambino divideranno la camera con Jochebed e Miriam in modo che il pianto di un bambino sembrerà una cosa normale, comprensibile e nessuno si stupirà. Speriamo solo che i due marmocchi non piangano nello stesso momento.» Ankhe si piantò davanti alla sorella, le braccia conserte, sfidandola a ribattere.

Era così che sarebbe stata la sua vita quotidiana ormai? Con Ankhe che la manipolava e comandava come le pareva e piaceva? Anippe si massaggiò di nuovo le tempie e trasse un respiro profondo. Ma era meglio fare come diceva lei. «È un buon piano, Ankhe. Ti ringrazio.» Anippe esaminò Efa da capo a piedi, prendendo nota del suo atteggiamento, testa alta e occhi guardinghi. «Questa notte Efa e Jochebed rimarranno nel mio appartamento con i bambini. Non posso farle uscire dalla porta con due maschietti e non oso tenerne uno io rischiando che pianga.»

Efa fulminò Ankhe con gli occhi: «Avevi detto che stanotte avrei dormito su un materasso di piume!».

Anippe cercò di nascondere un sorrisetto compiaciuto: Efa avrebbe fatto bene a imparare in fretta a non fidarsi di Ankhe. «Efa, tu e Jochebed potrete usare i cuscini del bagno sul fiume per farvi due giacigli sul pavimento del soggiorno.»

«Siamo d’accordo, allora» disse Ankhe dirigendosi alla porta. «Domattina non svegliarmi.»

Quando la porta si richiuse alle sue spalle, Jochebed si affrettò verso la brocca: «Lascia che vada a prendere dell’acqua pulita per il tuo bagno della sera, Amira».

«No, Jochebed.» Anippe, reggendo il “suo” bambino con un braccio, fermò la donna con un gesto: «Lo farà la mia nuova ancella. Tu e Miriam dovreste preparare i vostri giacigli».

Efa strappò la brocca dalle mani di Jochebed: «Qualcuno almeno terrà il mio bambino mentre io lavoro?».

«Ma certo, cara.» Parole affettuose sprecate, perché Efa piantò sgarbatamente il piccolo in braccio alla donna più anziana, scomparendo poi dietro la tenda che divideva la stanza dal quartiere degli schiavi. Jochebed si girò verso Anippe: «Migliorerà, qualche volta le donne diventano nervose dopo il parto».

Anippe guardò Jochebed negli occhi gentili, poi abbassò lo sguardo sul sorriso radioso di Miriam. Gli dei le avevano dato un figlio maschio e una famiglia affettuosa e per questo si sentiva piena di gratitudine. Soltanto una domanda le pungeva l’animo: come avrebbe fatto ad assicurarsi il loro silenzio quando non avrebbe più avuto bisogno di quelle persone?