III
Le ricchezze d’Egitto e le merci dell’Etiopia…
passeranno a te, saranno tue.
ISAIA 45, 14
Anippe si avvicinò alle guardie nubiane davanti alle porte della sala del trono, cercando di non guardare i loro toraci d’ebano lustri nel calore del mattino. Come la maggior parte dei guerrieri medjay quelle guardie indossavano una pelle di leopardo intorno ai lombi, erano armati di lance dalla punta di selce lunghe due cubiti e portavano al collo fili di perline che rappresentavano i nemici uccisi in battaglia. Le due guardie non dovevano avere una grande esperienza, i fili di perline erano soltanto un paio; ma in ogni caso non erano meno terrificanti degli uomini della guardia personale del faraone.
Traendo un profondo respiro, Anippe fece appello al suo coraggio, rammentandosi di quanto le aveva detto una volta il suo abbi Horem: «La sola cosa più terribile della furia di un medjay è la sua lealtà. L’amicizia di un medjay nella vita è l’amicizia di un medjay nella morte». Si affrettò a entrare dalla pesante porta di cedro che i due le tenevano aperta.
I grandi battenti si chiusero rumorosamente alle sue spalle e l’eco si propagò nella vasta sala costruita in modo da ricordare la sontuosa chiatta del faraone. Il soffitto era alto quanto la sommità della grande vela della nave reale, con bianchi teli di lino che ondeggiavano appesi alle corde di papiro tese tra una colonna e l’altra. Dalla porta al trono la lunghezza della sala stessa era esattamente quella della sua chiatta dalla prua alla barra e le piastrelle di maiolica azzurra sulle quali i postulanti si avvicinavano al faraone ricordavano a tutti che il sovrano Tut, proprio come il Nilo, dava la vita all’Egitto.
Sei uomini stavano in piedi all’altra estremità di un lungo tappeto rosso e tutti guardavano Anippe. Due medjay di guardia erano posizionati alle spalle del trono sopraelevato, mentre il visir Ay era fermo, sul bordo del tappeto. Abbi Horem stava in piedi di fronte al visir in compagnia di un soldato di bell’aspetto, evidentemente l’uomo destinato a lei come marito.
Incapace di muoversi e penosamente rossa in viso, Anippe era certa che il cuore le battesse così forte nel petto da far sobbalzare la fibbia d’oro e di turchese.
La voce roboante del sovrintendente di palazzo si levò alle sue spalle: «Principessa Anippe, avanza alla presenza del clemente dio, il faraone Tutankhamon, toro possente, datore di vita, legislatore perfetto, pacificatore dell’Alto e Basso Egitto, colui che porta le due corone e compiace gli dei, grande del palazzo di Amon, signore di…».
«Basta così!» Tut batté con il flabello sul bracciolo. «Lasciateci!»
Anippe lanciò un’occhiata dietro di sé per accertarsi che nessun altro le fosse alle spalle e quando il sovrintendente di palazzo fu sgusciato fuori dalla porta, si ritrovò improvvisamente sola all’estremità del tappeto color porpora.
Di nuovo Tut colpì il bracciolo col flabello. «Vieni, Anippe. Abbiamo cose importanti da discutere.»
Anippe si inchinò con deferenza, trattenendosi dal dire ciò che avrebbe detto cinque anni prima, prima che lui fosse un dio: deve essere di nuovo in uno dei suoi momenti di malumore. Tut era spesso nervoso da quando la moglie e sorellastra, Senpa, aveva perso il loro primo figlio per un aborto mentre era in visita alla nobiltà del Delta. Aveva ordinato alla moglie di trascorrere la convalescenza al Gurob, dove le sue sorelle e Amenia avrebbero potuto occuparsi del suo corpo debilitato e del suo spirito affranto, il suo ka, la parte immortale degli esseri umani.
Mentre Senpa condivideva con loro i particolari della sua perdita dolorosa, Anippe aveva affrontato i ricordi della morte di Ummi Kiya e del fratellino che non aveva mai respirato. La gravidanza di Senpa era quasi al termine quando era cominciato il travaglio nella proprietà di Qantir, nel Delta. Le levatrici ebree avevano cercato di salvare il bambino di Senpa ma senza successo, era troppo malformato per sopravvivere. Soffocando i singhiozzi, Senpa aveva parlato delle pressioni esercitate sul sovrano e sulla regina perché avessero un erede e Amenia aveva cercato di incoraggiarla: «Siete entrambi giovani» le aveva detto; ma perfino Anippe sapeva che un faraone non era gradito agli dei finché sua moglie non avesse dato alla luce un figlio.
Anippe cercò di costringere i suoi piedi a muoversi verso il trono di Tut. Impossibile.
In quel momento suo fratello sembrava davvero un dio, seduto sul suo trono dorato, sul capo la doppia corona dei due regni d’Egitto. Aveva gli occhi disegnati con il khol: il segno di Horus, una riga decisa verso la tempia e un ricciolo rivolto verso il basso sulla guancia. Al collo gli brillava il collare del faraone, tempestato di rubini, lapislazzuli e diaspro, ma era un collare pesante come una pietra da macina sulle sue spalle scure e Anippe provò dolore per lui, provò dolore per i fanciulli che erano stati entrambi.
Abbi Horem venne verso di lei a braccia aperte, rompendo il silenzio imbarazzante: «Vieni, tesoro mio. Dai il benvenuto al tuo abbi».
Anippe corse ad abbracciarlo, sentendosi al caldo e al sicuro sul suo petto, del tutto incurante del trucco che sporcava la veste candida di lui. «Mi sei mancato! Perché non torni a casa più spesso?»
Abbi Horem la tenne dritta davanti a sé, stringendola per le spalle e guardandola fisso negli occhi: «Quando sono in guerra sono in guerra e quando sono a casa sono tutto tuo».
Al riparo della sua ala protettrice, si avvicinò con lui al faraone Tut non osando alzare gli occhi sul bel soldato di cui però sentiva lo sguardo su di sé.
Il visir Ay fece un cenno cortese col capo quando Anippe e Abbi Horem si fermarono accanto a lui sul bordo del tappeto rosso; Ay aveva la stessa età del generale ma era ancora decisamente un bell’uomo e molte donne dell’harem trovavano affascinanti i suoi occhi color tortora, mentre per Anippe, al contrario, quegli occhi chiari erano inquietanti: pensava che l’alto e magro visir fosse uno sciacallo in vesti di lino. Lo sguardo dell’uomo le percorreva le forme senza nessun ritegno facendola rabbrividire.
Disgustata, Anippe fece un passo verso il trono, abbassando il capo: «Vita, salute e pace al divino figlio del grande dio Horus. Sono venuta come mi hai comandato, o venerato fratello Tut. In che modo posso servire…».
«Diglielo, Horemheb. Di’ a mia sorella perché hai allontanato da una battaglia cruciale il tuo soldato migliore per organizzare il matrimonio di tua figlia.»
Alzando gli occhi Anippe vide un velo di sudore sulla fronte di Tut e il muscolo della sua mascella che si contraeva. Era forse arrabbiato con Abbi Horem? Disapprovava la scelta dello sposo?
L’espressione di abbi non rivelava soltanto la fatica della battaglia: combattere gli Ittiti per dieci mesi poteva spiegare la stanchezza ma l’atteggiamento del generale rivelava un’angoscia più profonda. «Come vuoi, mio re.» Abbi Horem fulminò con gli occhi il visir prima di addolcire lo sguardo posandolo su Anippe. «È giunto il momento di unire la casa di Horemheb con la casa di Ramsete.»
Spinse avanti l’ufficiale, mettendo la sua mano su quella di Anippe.
La casa di Horemheb? Prima che Anippe potesse ragionare su quella dichiarazione, la grande mano del soldato aveva coperto la sua. Guardando in su, vide che la stava divorando con gli occhi e la potenza che emanava dalla sua persona la costrinse ad arretrare di un passo.
Abbi Horem le afferrò un braccio e l’attirò vicino a sé: «Anippe, tesoro mio, questo è tuo marito, il capitano Sebak. È il mio miglior ufficiale, tenuto in grande onore dalla grande famiglia militare dei Ramessidi». Rivolse uno sguardo minaccioso al visir: «Sebak e le sue guardie ti proteggeranno nella sua proprietà nel Delta».
«Nel Delta?» Anippe tirò via la mano. «Ma io non voglio vivere nel Delta! Io voglio stare nel Gurob con Ummi Amenia!»
Vide l’ufficiale inarcare un sopracciglio e non riuscì a capire se fosse arrabbiato o divertito. Ma non le importava.
«Mery.» Quel nome del passato pronunciato con voce inespressiva la fermò come uno schiaffo. Tut non l’aveva più chiamata Mery da quando Abbi Horem l’aveva adottata.
Chinò il capo, lasciando che le spirali d’ebano della parrucca nascondessero le lacrime sulle ciglia. «Sì, mio re?»
«Farai come comanda il generale Horemheb.» Il tono si era fatto all’improvviso rassegnato, la collera scomparsa. Perché? Che cosa era cambiato?
Anippe osò alzare lo sguardo sul dio seduto sul trono e vide lo stesso volto impenetrabile che suo fratello aveva nel giorno del matrimonio con Senpa. «La mia e la tua vita non sono mai state nostre, sorella. Horemheb ci ha sempre guidato e protetto, ha guidato me sul trono d’Egitto e te quando ti ha adottato e ti ha dato il nome di Anippe.» Si interruppe fissando Horemheb e, prima di rivolgere di nuovo l’attenzione su Anippe, annuì, un cenno che esprimeva una gratitudine silenziosa.
«Onorevole figlia del generale Horemheb e amata sorella del clemente dio Tut, il faraone: io dichiaro che Sebak, capitano dei ramessidi, da oggi è tuo marito. La famiglia reale parteciperà alla festa di nozze nella proprietà di Sebak ad Avaris sul Delta dopo la fine della caccia reale nel Fayum.» Poi, sporgendosi in avanti per rivolgersi all’ufficiale, lo fissò, gli occhi due fessure che rendevano più aguzzo il segno di Horus sul suo volto: «Capitano Sebak, probabilmente i timori di Horemheb per Anippe sono infondati, ma non soltanto essa è il suo tesoro, essa è anche l’amata sorella del faraone. Proteggila o morirai».
Anippe avrebbe voluto urlare, No! Io non conosco quest’uomo, non conosco il Delta! Ma rimase in silenzio, figlia, sorella, donna ubbidiente.
Sebak le si avvicinò e le mise un braccio intorno alla vita in un gesto di possesso. «È per me un onore e un piacere proteggere Anippe, o grande dio dei Due Regni. Ogni ramesside del Delta la custodirà al sicuro ad Avaris.» La voce dell’uomo era un rombo cupo e il tocco intimo della sua mano la fece fremere di paura.
Del Delta Anippe sapeva soltanto che là si trovavano schiavi ebrei, campi di grano e i soldati più bellicosi dell’Egitto: i ramessidi. E che il bambino di Senpa era morto in quei luoghi.
Guardò di sottecchi il gigante che le stava accanto e il suo sguardo incontrò brillanti occhi castani e caldi che la fissavano ridenti. Possibile che gli occhi potessero ridere? Forse no. Ma il sorrisetto pigro sul suo viso la fece infuriare. Poi l’uomo le prese una mano con delicatezza come se fosse una perla preziosa e le depose un tenero bacio sul palmo.
Un fuoco le corse su per il braccio. Anippe liberò la mano, il respiro corto e spezzato: era per la vicinanza del capitano o perché Tut sembrava in collera?
Il faraone stava fissando il visir con occhi scintillanti: «Il generale Horemheb ha lasciato il campo di battaglia perché riteneva che tu fossi un pericolo per mia sorella. Vorrei assicurargli che non è vero, ma come posso farlo quando mi giungono voci di una tua cospirazione con Nakhtmin in Nubia?».
«Io sono leale verso di te come lo sono sempre stato, grande e potente figlio di Horus!» protestò il visir. «Se ho inviato dei messaggi al comandante Nakhtmin in Nubia è stato per combinare il matrimonio di mia figlia. Anch’io, come il generale Horemheb, temevo per la sua sicurezza qui al Gurob e ho preso delle misure per proteggerla dai seguaci del generale.»
«Seguaci del generale?» La voce di Tut si ruppe in un gracidio da ragazzo sul punto di diventare uomo. «Nessuno è seguace del faraone Tut?» Le parole riecheggiarono nella sala semideserta, ricordando ai presenti che egli era Amon-Ra. Dio del sole in terra.
Un brivido corse lungo la schiena di Anippe. Negli ultimi tempi il comportamento di Tut ricordava quello di Abbi Akhenaton – impulsivo, sempre nervoso – tutti indizi di un ma’at squilibrato. Le stagioni, il sole e la luna, la giustizia, la verità e l’armonia nei rapporti erano legati indissolubilmente al divino equilibrio del Signore del Ma’at seduto sul trono dell’Egitto.
Mentre la preoccupazione di Anippe cresceva, Tut, respirando profondamente, incrociò sul petto lo scettro d’oro e il flabello e fissò lo sguardo nel vuoto finché Anippe non ebbe l’impressione che il suo ma’at fosse di nuovo in equilibrio.
«Generale Horemheb, avete la prova di un coinvolgimento del visir Ay in una cospirazione?»
«Il visir Ay ha raggiunto un’influenza eccessiva nell’Egitto meridionale. Dando la figlia in moglie al comandante Nakhtmin si assicura l’alleanza militare con i Nubiani nel Kush e di conseguenza il benestare per i commerci nel Sud fino al Mar Rosso. Ha a disposizione l’intero esercito della Nubia, il che significa che la mia famiglia – e il tuo trono – sarebbero in pericolo se decidesse di ribellarsi.»
Ay scuoteva la testa, sorridendo beffardo: «Tutte accuse infondate, mio sovrano».
Tut fissò Horemheb con aria interrogativa: «Prove, generale. Hai delle prove?».
Anippe si aspettava che Abbi Horem facesse venire il messaggero al quale aveva accennato Ummi Amenia, o forse il rotolo di papiro che i soldati avevano confiscato, ma con sua sorpresa e delusione vide che le spalle di Abbi Horem si afflosciavano e che cominciava a massaggiarsi la nuca. Provò una stretta al cuore.
«Il soldato che fungeva da messaggero tra Ay e Nakhtmin ha avuto purtroppo un incidente durante una missione, mio re. Io non credo che si sia trattato di un incidente ma non posso provarlo.» Abbi fissò il visir con durezza prima di rivolgersi nuovamente a Tut. «Non ti ho mai mentito, dio clemente e figlio divino di Horus. Tu sei il cuore del mio cuore, il mio datore di vita. Devi credermi. Quest’uomo ti sta ingannando.»
Tut lo fissò a lungo senza parlare, ma la risata nervosa di Ay ruppe il silenzio.
«Un discorsetto commovente, generale, ma posso forse essere ritenuto responsabile di ogni soldato che va incontro a un “incidente”?» Allargò le mani davanti a sé guardando il faraone con aria afflitta: «Ogni mia azione è compiuta in nome del clemente dio, il faraone Tut e per il bene dei Due Regni uniti. Non nego di aver avuto contatti con il generale Nakhtmin. Ha soffocato la ribellione del Kush e insieme abbiamo migliorato le vie commerciali attraverso la frontiera meridionale incrementando l’importazione di oro, di pietre preziose e di spezie. È cosa così strana che io voglia fargli sposare mia figlia?».
Il visir perse gran parte della sua ironia voltandosi verso Abbi Horem. «Dicci, generale, quante nazioni vassalle cananite sono riuscite a riconquistare le tue truppe ramessidi? Sei riuscito a neutralizzare la minaccia degli Ittiti contro le vie commerciali dell’Egitto o a rendere sicura la nostra frontiera orientale?»
Il temperamento focoso di abbi stava per esplodere e Anippe si sentì male. Non si era resa conto che gli Ittiti minacciavano le loro vie commerciali più importanti ma non sembrava che Tut fosse sorpreso, ed era evidente che gli piaceva ascoltare le parole eloquenti e mielose del visir.
E Ay ne aveva ancora di miele da offrire: «Il generale ha riferito sulla sua clamorosa sconfitta ad Amqa e sul rapido incremento delle forze ittite?».
Sebak fece scivolare il braccio intorno alla vita di Anippe, allontanandola dal generale e dal visir e sussurrandole all’orecchio: «La cosa si fa pericolosa».
Notando l’espressione sul volto del fratello, Anippe provò un moto di gratitudine verso Sebak che si preoccupava per lei.
Anche abbi doveva essersi accorto del pericolo. «Ho sempre inviato rapporti al faraone Tut, informandolo regolarmente sulla situazione nei riguardi degli Ittiti. Il nostro clemente sovrano sa che combatto soltanto per lui e che per lui darei la vita.»
«La tua lealtà è toccante, ma non salverà l’Egitto se gli Ittiti bloccheranno i commerci per mare e per terra.» Il faraone Tut impersonava perfettamente l’ira del dio: «Perché hai voluto ingannarmi sulla sconfitta di Amqa, Horemheb?».
Abbi Horem piegò il ginocchio a terra. «Mio amato e potente signore! Io non ti ho mai ingannato. Ho saputo dei numerosi messaggi del visir Ay in Nubia subito dopo la sconfitta di Amqa e ho dovuto agire in fretta per occuparmi della tua sicurezza e del futuro di Anippe. Non ricordi le guardie che ho mandato subito al palazzo di Menfi come rinforzi per la tua protezione e del messaggero che ti informava sui miei piani per il matrimonio di Anippe?»
«Ricordo che il messaggero non ha parlato affatto di una sconfitta o della potenza crescente dell’esercito ittita!» Di nuovo Tut batté con forza il flabello contro il bracciolo e tutti caddero in ginocchio, il capo chino. Quando il faraone parlò di nuovo, controllava a fatica la collera: «Il visir Ay ha assicurato che i suoi messaggi riguardavano il matrimonio della figlia! Che assicurazioni mi dai tu, generale, che il matrimonio di Anippe non sia semplicemente una distrazione per nascondermi la notizia della sconfitta?».
Il visir Ay fu il primo a ritrovare il sangue freddo e ad alzare le mani, in atteggiamento umile: «Forse il generale non ha voluto allarmare prematuramente il sovrano». Si rialzò, assumendo un tono conciliante: «Vedi, possente re, ogni popolo che gli Ittiti sottomettono accresce la forza militare degli Ittiti stessi, perché gli uomini validi di quei popoli sono costretti a servire nel loro esercito. Hanno conquistato il regno dei Mitanni, poi sono entrati in Siria, hanno conquistato la costa fenicia e ora avanzano negli stati cananei nostri vassalli. Ma senza dubbio il generale ha un piano per fermare la loro macchina da guerra». Ay si piantò davanti a Horemheb che rimaneva in ginocchio davanti al faraone. «Dicci, generale, puoi fermare la macchina da guerra ittita o Amqa è la prima di molte sconfitte?»
Anippe trattenne il fiato, sicura che la collera di Abbi Horem sarebbe esplosa. Ma il generale si alzò lentamente e avvicinò la faccia a quella del visir: «Credi di potermi dare consigli su come affrontare gli Ittiti? Sei forse un generale logorato dalla guerra che mescola il sangue alla birra dopo la battaglia? No, visir, tu giochi con i soldatini di legno e le spade d’argilla, io mi rifiuto di discutere di strategia militare con te».
«Generale!» La voce di Tut si intromise nella guerra privata tra i suoi consiglieri. «Tu discuterai del tuo piano per riconquistare Amqa con il visir Ay e con me. Come posso avere fiducia in voi due se non vi fidate l’uno dell’altro?»
Il silenzio era sceso assordante nella sala del trono, proclamando l’autorità di Tut. Dopo qualche momento il faraone si rivolse ai due sposi: «Anippe, capitano Sebak, potete alzarvi».
Sebak aiutò Anippe a rialzarsi e le mani callose del soldato le parvero tuttavia delicate sulla sua pelle vellutata e profumata.
«Capitano Sebak, accompagnerai mia sorella in camera sua. Dopo questo breve colloquio con i miei consiglieri daremo inizio alla caccia nel Fayum. Sono stufo di parlare, voglio uccidere qualcosa, qualcosa a quattro zampe se non a due.»
Anippe lanciò un’occhiata ansiosa ad Abbi Horem prima di guardare di nuovo il fratello.
Tut le strizzò l’occhio: «Rimanderò il generale sano e salvo da Amenia, se il tuo sposo promette di salire sul mio cocchio durante la caccia. Una volta all’anno caccio leoni e bufali e credo che Sebak possa portarmi fortuna. Se dovessi sbagliare la mira, forse sarebbe capace di uccidere l’animale a mani nude».
Sebak sorrise e si inchinò. «Ogni desiderio del sovrano è un ordine per me.» Sfiorò la vita di Anippe e la sospinse verso la porta.
Uccidere a mani nude? Le stesse mani posate così teneramente sulla sua schiena? A ogni passo cresceva il panico di Anippe. Aveva appena conosciuto suo marito e ora avrebbe dovuto lasciare il Gurob per sempre e andare a vivere nella sua proprietà sul Delta? Questo significava che sarebbe rimasta lì soltanto pochi giorni ancora. La sua famiglia l’avrebbe accompagnata ad Avaris per la festa e poi l’avrebbe lasciata sola, sola nel Delta in mezzo a ebrei, a capre e a soldati ramessidi che cacciavano gli animali a mani nude.
«Un momento!» Anippe volò fino al trono e abbracciò i piedi di Tut: «Ti prego, figlio di Horus, potente datore di vita, dio clemente e giusto sovrano dei Due Regni, ti prego, lascia che Ummi Amenia e Ankhe vengano con me ad Avaris! Per favore, non esiliarmi nel Delta senza la mia famiglia!».
Le dita di Tut giocherellarono con i riccioli della parrucca e, alzando gli occhi, Anippe vide il suo sorriso affettuoso. «Ti sentiresti meglio se mandassi Ankhe con te?»
Un’ondata di sollievo la sommerse: «Sì, fratello, e anche ummi».
Il sorriso di Tut si spense. Si alzò dal trono e fece alzare anche Anippe per guardarla negli occhi: «Amenia deve restare nell’harem del Gurob» le confidò in un sussurro che parve annegare nelle paure nascoste dentro ai suoi occhi. «Horemheb ha bisogno di lei qui perché… dobbiamo rispettare questa sua decisione.» Dopo averle sfiorato la guancia con una carezza, tornò a sedere sul trono, riprendendo il suo atteggiamento regale. «Dopo la festa di nozze, Ankhe rimarrà ad Avaris come ancella personale di mia sorella Anippe.»
«Che cosa? Come mia ancella? Ma no, lei è nostra…»
Ma l’espressione di Tut, dura come il granito, la zittì: suo fratello era di nuovo il faraone-dio.
«Anippe, Ankhe si rifiuta di comportarsi come si conviene a un membro della famiglia reale, perciò vivrà da plebea. Forse un sorvegliante ramesside riuscirà a insegnarle il rispetto là dove altri hanno fallito.»
Come avrebbe fatto Anippe a dare la notizia ad Ankhe? Le aveva promesso di intercedere presso il faraone perché la facesse sposare, ma se ne era dimenticata e ora era troppo tardi. Destinata a servire, Ankhe si sarebbe sentita tradita una volta di più. Anippe era rimasta immobile come una statua, sommersa dal senso di colpa.
«Anippe, tesoro mio.» Abbi Horem era comparso al suo fianco. «Il divino figlio di Horus ti ha dato in moglie all’uomo che io ho scelto. Sebak è tuo marito, è lui la tua famiglia ormai. È un uomo buono.» Abbi Horem la ricondusse dall’ufficiale e mise di nuovo la mano della figlia in quella di lui. Le dita del giovane si richiusero sulle sue.
Anippe non volle alzare lo sguardo. Come avrebbe voluto avere il suo specchio di bronzo per comporre la sua espressione in modo che fosse imperscrutabile come quella di Tut! Rassegnazione. Costrizione.
Liberando la mano da quella di Sebak, si lisciò la tunica di lino seguendo le curve delle sue forme. Alla fine alzò lo sguardo e incontrò quello del marito.
Gli occhi caldi e castani del gigante la fissavano pieni di calore. Pareva sul punto di dire qualcosa, ma le labbra si piegarono invece nel sorrisetto pigro che lei gli aveva già visto. Indossava la parrucca corta dai riccioli stretti degli ufficiali dell’esercito e intorno al collo portava l’ambito Oro del Merito, il più alto riconoscimento militare delle armate del faraone. In che modo si era distinto? Tut doveva tenerlo in grande considerazione per fargli un simile dono.
Sotto il collare d’oro si vedeva il petto muscoloso di un soldato. Le braccia bronzee dai bracciali di cuoio si contraevano sotto il tessuto di lino, la cui qualità era pari a quella dei laboratori del Gurob: possibile che avesse una sorella nell’harem?
Senza chiederle il permesso, l’uomo le prese il mento fra le dita e lo sollevò: «Posso farti da scorta ora?». Il tono era malizioso e per un attimo Anippe fu sul punto di schiaffeggiarlo.
«Qual è il mio nome ora che sono tua moglie?» gli domandò invece.
Sebak piegò il capo, la fronte corrugata: «Io ti chiamerò Anippe, ma i nostri servi ti chiameranno Amira».
Un altro nome. Senza rispondergli, Anippe si voltò e si affrettò verso le porte della sala. Come le acque del Nilo, io mi solleverò infuriata. Io sono Anippe, Amira di Avaris.