IX
Si dicono menzogne l’uno all’altro,
labbra bugiarde parlano con cuore doppio.
SALMI 12, 2
Anippe seguì Sebak attraverso i giardini, superando la grande sala deserta e percorrendo il porticato fino alla loro camera. Suo marito non aveva parlato, né l’aveva toccata da quando avevano lasciato Mered e le levatrici. Nassor, il ramesside di guardia alla porta, gli fece il saluto e aprì la porta di quercia. Sebak sospinse delicatamente Anippe, facendola entrare per prima.
«Grazie, Nassor» gli disse Anippe passando.
Ankhe aspettava accanto a un vassoio di uva e di datteri al miele, formaggio di capra e vari tipi di pane alle noci. Pur stando a capo chino, non dava segno di volersi ritirare.
«Esci» le ringhiò Sebak.
Ankhe fece un passo avanti, un’espressione intensa di sfida sul viso come faceva con Abbi Horem.
«Grazie, Ankhe.» Anippe si intromise fra la sorella e il marito, guidando Ankhe verso la porta. «Ti chiamerò dopo che Sebak e io avremo finito di mangiare.» Inarcò le sopracciglia, cercando di farle capire come fosse più saggio arrendersi.
Ankhe uscì rapidamente, ma non certo con aria sottomessa. Sbatté la porta e Sebak si girò verso Anippe, scintille gelide negli occhi: «Non tollererò la sua mancanza di rispetto. Ha bisogno della frusta, Anippe, e gliela farò assaggiare in modo da farle cambiare per sempre atteggiamento». La prese per le spalle e la trasse a sé. «È la cosa migliore per lei, amor mio, è come una puledra che non vuole essere domata. Deve imparare…»
Anippe attirò il viso di suo marito vicino al suo e lo costrinse al silenzio con un bacio. La collera dell’uomo si trasformò in passione e per un attimo Anippe pensò che il desiderio di quell’uomo l’avrebbe consumata.
«Aspetta, aspetta, per favore!» Lo scostò da sé con forza.
Come chi si sveglia da un sogno, Sebak aprì gli occhi e li fissò sul viso che teneva fra le mani. «Ho aspettato ventun anni per prendere moglie e l’ho presa. Nella mia vita io devo aspettare i comodi di re e di generali e di eserciti. Perché anche mia moglie mi fa aspettare?» Non era arrabbiato… non ancora. Era solo smanioso, come un bambino goloso che voleva a tutti i costi dei dolci al miele.
Come poteva dirgli che doveva aspettare perché sua moglie era terrorizzata al pensiero di dover dare alla luce suo figlio? Le donne del Gurob parlavano di erbe e di foglie che impedivano al seme dell’uomo di portare frutto, ma era necessario chiedere alle levatrici come ottenerle.
«Devo andare da Senpa. Tu hai dato alle levatrici il permesso di tornare a casa e Amenia è stata con lei tutta la notte.»
Lesse la disperazione nei suoi occhi. E poi venne la collera.
Sebak la spinse via bruscamente. «Vado alle scuderie.»
La porta si richiuse con forza alle sue spalle e Anippe rimase sola. Abbi Horem sarebbe ripartito subito per la guerra, Tut, Senpa e probabilmente Ummi Amenia sarebbero ritornate a Menfi non appena Senpa fosse stata abbastanza bene da viaggiare. Anippe sarebbe rimasta in quella villa che le era estranea con una sorella egoista e un marito buono ma collerico.
Si lasciò andare sul materasso di piume, esaminando le sue possibilità. Ben poche. Se avesse cercato di parlare con le levatrici mentre erano presso Senpa, qualcuno avrebbe potuto sentire e riferirlo a Sebak.
«Non ingannarlo mai» le aveva raccomandato Abbi Horem. Fu scossa da un brivido gelido pur nel calore del mezzogiorno. Sebak aveva minacciato di frustare Ankhe per mancanza di rispetto: che cosa avrebbe fatto a una moglie che lo ingannava e gli negava un figlio?
Ankhe. Un’idea la fece balzare dal letto. Ankhe sapeva dove vivevano le levatrici perché era andata a chiamarle per Senpa e avrebbe potuto accompagnarla fino al villaggio degli schiavi in modo che potesse parlare in privato con Sifra e Puah.
«Un’amira egiziana non se ne va in giro in un insediamento di schiavi» aveva detto Sebak. Però era possibile che nessuno sapesse che era egiziana. La pelle di Anippe e di Ankhe era più chiara della maggior parte delle egiziane, perché Ummi Kiya era una principessa del regno di Mitanni, data in sposa ad Abbi Akhenaton in seguito a un trattato. Le loro figlie avevano ereditato da Kiya occhi e capelli più chiari del castano scuro e del nero degli egiziani. Senza le vesti di lino pregiato, la parrucca e il trucco Anippe avrebbe potuto passare per ebrea… per un po’, almeno.
Si precipitò verso la campanella a forma di Hathor e chiamò la sua ancella personale. Ankhe si presentò con la faccia scura e gli occhi sospettosi.
«Puoi startene tutto il giorno a fare il broncio per il trattamento di Sebak oppure unirti a me in un’avventura.» Anippe osservò Ankhe, sperando di scorgere un segno di assenso.
«Quale avventura?»
«Trova delle vesti rozze da schiave ebree per noi due. Ci leveremo il trucco e le parrucche. E abbiamo bisogno anche di copricapi, ci aiuteranno a nascondere i nostri capelli sottili. Devi accompagnarmi dalle levatrici.»
«Perché dovrei?»
«Perché, ti piaccia o no, tu sei la mia ancella.»
Le sorelle rimasero per qualche istante a fissarsi negli occhi. Quali emozioni turbinavano dietro quelli di Ankhe? Rabbia. Ribellione. Amarezza. Erano queste le uniche emozioni che Ankhe sembrava provare.
Anippe serrò le palpebre, detestandosi per quanto stava per dire: «Se mi aiuti a ingannare Sebak, lo deruberai di un figlio».
Quando riaprì gli occhi vide che Ankhe sorrideva e la soddisfazione che lesse sul suo viso le dette la nausea.
«E se rifiutassi di aiutarti?» le domandò Ankhe.
«Se rifiuti, lascerò che Sebak usi la frusta su di te.»
Ankhe rialzò la fronte con aria di sfida, riflettendo su quell’ultimatum ma senza nessun segno di sorpresa o di ripugnanza davanti alla palese manipolazione che la sorella stava progettando. Anippe ne fu disgustata: stava diventando subdola e bugiarda, come quei nobili egiziani che aveva sempre odiato.
Ma lo faceva per amore. Adorava Sebak. Perché mettere a rischio la propria vita, perché mettere a rischio i loro giorni insieme sulla terra?
«Troverò gli indumenti delle ebree mentre tu ti levi la pittura dalla faccia» disse Ankhe alla fine, gli occhi scintillanti di malizia. «Farò qualsiasi cosa per danneggiare il tuo arrogante marito.»
Anippe seguì Ankhe con lo sguardo e un oscuro presagio l’assalì. Per la prima volta nella sua vita aveva bisogno di Ankhe e doveva contare sulla sua discrezione, ma quel loro segreto le avrebbe riavvicinate o Anippe era una sciocca a fidarsi di una persona che sembrava incapace di provare affetto?
Mered, seduto da solo al tavolo dell’unica stanza che era la loro casa, ascoltava sua moglie spostare cesti, risistemare pentole di terracotta, esternando il suo dolore. Anche se era sposato solo da due anni, la conosceva da tutta la vita e sapeva che aveva bisogno di fare qualche lavoro manuale mentre si sfogava.
«Non lo farò. Morirò piuttosto che uccidere un essere umano. Un neonato poi! Chi crede che siamo il faraone? Le levatrici non uccidono i bambini, noi siamo testimoni del loro primo respiro, questo siamo. E poi chi si crede di essere il faraone per prendere nelle sue mani mortali il destino degli altri? Sì, ho detto mortali. Un faraone non è più divino del mio…»
«Non potrei essere più d’accordo.» La voce di Anippe fece saltar su dalla sedia Mered.
«Amira!» Per poco non rovesciò il tavolo quando lui e Puah si gettarono a terra, la faccia nella polvere, le braccia spalancate. «Mia moglie e io chiediamo perdono se abbiamo offeso…»
«Potete rialzarvi.» La presenza di Anippe riempiva la piccola stanza, ma…
Cercando di non guardarla direttamente, Mered lanciò ripetute occhiate alla sposa del padrone e alla sua ancella, nessuna delle due ben vestite, con la parrucca e la pittura sul viso. Sembravano… be’, sembravano due ebree dalla testa ai piedi. Il colore della carnagione uguale a quello olivastro di Puah.
«Possiamo offrirvi vino di melagrana o birra dorata?» Puah si fece avanti, scostando con garbo Mered che sembrava aver perso la voce. «Mi dispiace, ma non abbiamo vino d’uva o birra scura, più confacenti al vostro gusto.»
«Grazie, no. Mia sorella, Ankhe, è l’ancella che è venuta a chiamare te e Sifra per assistere la regina Senpa. Ti ricordi di Ankhe?»
Mered osservò la moglie annuire con esitazione, le mani tremanti giunte all’altezza della vita.
«Bene, così capirai come abbiamo fatto a trovare la tua casa. Non sono qui per causarvi dei problemi, ho solo bisogno del tuo aiuto… ma non potrete dirlo a padron Sebak.»
In quell’istante il mondo di Mered si trasformò: la falsità era giunta in Avaris e il suo nome era Anippe. Fece un passo avanti, le mani alzate: «Mia amira, Puah e io siamo lieti di aiutarti, sempre, ma padron Sebak ti ama e farebbe qualsiasi cosa per te. Me lo ha detto lui stesso».
Gli occhi pieni di lacrime, il viso duro come granito di Assuan, Anippe viveva chiaramente un conflitto interiore. «Ciò che io faccio, Mered, lo faccio per assicurare a mio marito e me una lunga e felice vita insieme. Il tuo unico compito sarà consegnarmi periodicamente un pacchetto da parte di Puah. In cambio io raddoppierò la tua razione di frumento, di abiti e avrai una casa più grande.»
Mered si inchinò, attento a mantenere un tono umile. «Grazie, Amira, ma siamo felici di ciò che abbiamo. Il nostro padrone è sempre stato generoso.» Attese, sperando di non aver offeso la donna che teneva in mano il cuore di Sebak.
«Torna alla filanda, Mered, subito, mentre io parlo in privato con tua moglie.»
Mered lanciò un’occhiata terrorizzata a Puah, che si guardava le mani, rifiutandosi di incontrare il suo sguardo. Mered le dette un bacio sulla tempia e si affrettò a uscire, quasi urtando la sorella dell’amira che bloccava il passaggio.
«Ricorda, Mered,» gli raccomandò Anippe mentre lo schiavo era sulla soglia «segretezza assoluta. La vita di tua moglie dipende da questo.»
Mered uscì incespicando lungo il sentiero che portava alla villa, diviso tra l’amore per la moglie e la lealtà verso il padrone. Chi era quella giovane donna che aveva rubato il cuore a padron Sebak e portato il caos dell’Egitto ad Avaris? Sebak aveva evitato il subbuglio politico per concentrarsi sulla sua carriera ma ora il sangue reale condivideva il suo letto e minacciava i suoi schiavi. El-Shaddai, ascolta il mio grido. Proteggici dalle trame della nostra nuova amira.
Anippe aveva il cuore in gola. Non aveva mai minacciato uno schiavo e non aveva mai parlato con tanta durezza a un uomo. Puah le stava davanti e il suo atteggiamento rispecchiava quello di Anippe, le mani strette sul ventre per frenarne il tremito; ma l’artefice di tutto era lei, l’amira, e così era lei a dover fare il passo successivo.
«Puah, ho bisogno del tuo aiuto. Possiamo sederci a parlare?»
La levatrice invitò Anippe ad avvicinarsi al tavolo e a sedersi sull’unica sedia: «Prego, sedete. Vi porterò qualcosa da bere e forse abbiamo del pesce secco o dei datteri».
Puah, a capo chino, cincischiò con i panieri, poi afferrò una brocca di terracotta, le mani così tremanti che versò dell’acqua sul pavimento dove erano posate tre coppe di coccio senza riuscire a riempire quella di Anippe.
Ankhe era una figura minacciosa sulla soglia e Anippe si avvicinò alla levatrice impaurita e la condusse alla sedia solitaria: «Puah, per favore, vieni a parlare con me».
Puah sedette, le mani strette in grembo, il capo chino: «Non ucciderò i bambini ebrei. Non lo farò».
Anippe si chinò sulla donna, costringendola a guardarla in faccia: «Non sono qui per l’editto di mio fratello».
«Amira, l’editto di tuo fratello è tutto il mio mondo.»
La collera che si indovinava nelle lacrime non versate di Puah erano un segno di forza e Anippe la rispettava per questo. «Forse possiamo migliorare i nostri reciproci mondi.» Si raddrizzò, imponente, pronta alla sua rivelazione.
«Io mi rifiuto di dover subire ciò di cui sono stata testimone questa mattina nella camera di Senpa e mi affido a te per questo.»
Puah rialzò la testa. «Io non posso promettervi che non abortirete mai. Soltanto El-Shaddai può dare la vita.»
«Puoi fare in modo che io non rimanga incinta, Puah. Le donne dell’harem del Gurob usavano un cataplasma per i loro interludi con i mercanti di passaggio. Funzionava sempre.»
«Nulla funziona sempre, Amira. Soltanto una donna sterile è sicura di non concepire mai.» La voce di Puah si era fatta inespressiva. Cominciò a tracciare col dito figure a caso sulla superficie del tavolo.
«Ma conosci questo cataplasma? Tu o Sifra potreste procurare gli ingredienti e insegnarmi a usarlo… senza che Sebak lo sappia?»
La mano sul tavolo si immobilizzò: «Fino a quando vi rifiuterete di avere un figlio?».
Le guance di Anippe scottavano. Perché la domanda della levatrice ebrea le faceva provare vergogna? «Fino a quando ti rifiuterai di uccidere dei bambini ebrei?»
Puah rise senza allegria e riprese a disegnare dei cerchi sul tavolo. «Occorre macinare insieme datteri, corteccia di acacia e miele e farne un impasto, poi spalmare l’impasto su un batuffolo di lana di pecora e inserirlo poco prima di…»
La levatrice incontrò lo sguardo di Anippe.
«Come migliorerete il mio mondo, Amira? Potete mantenere in vita i bambini ebrei… mentre noi manteniamo sterile il tuo grembo?»