VII

Ma quanto più opprimevano il popolo [di Israele]

tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura.

E si cominciò a sentire come un incubo la presenza

dei figli d’Israele.

ESODO 1, 12

Ebrei esultanti avevano acclamato padron Sebak e sua moglie, dando loro il benvenuto non appena sbarcati dalla chiatta reale. Perfino il faraone Tut, seduto sul suo palanchino d’oro portato a spalle da sei medjay, aveva lanciato uno sguardo dietro di sé per vedere quale fosse la causa di tutto quel clamore. Con la sua sposa al fianco, Sebak incedeva impettito come se fosse re d’Egitto.

Mered ridacchiò al ricordo. A mezzogiorno, quando la sua imbarcazione aveva raggiunto la banchina, Sebak gli era apparso nervoso come uno scolaretto, preoccupato che tutto fosse predisposto al meglio per accogliere la famiglia reale. Aveva permesso a ogni schiavo di Avaris, una volta finito il lavoro, di accorrere al porto per accogliere i regali ospiti, e non c’era da stupirsi, era proprio un gesto che ci si poteva aspettare da lui. L’accoglienza era stata davvero grandiosa.

Mered, nascosto dietro un’acacia all’ingresso dei giardini della villa, partecipava da lontano alla festa di nozze. Il pasto era finito da un bel pezzo e i musicisti stavano suonando un motivo allegro, mentre le danzatrici facevano fluttuare i loro veli intorno agli ospiti semiubriachi. La birra di datteri scura era stata molto apprezzata, Mered doveva ricordarsi di fare le sue congratulazioni al mastro birraio.

La giovane e bella moglie di Sebak – Amira Anippe l’avrebbero chiamata da quel momento in poi – nell’abito di nozze che Mered aveva creato per lei sembrava la dea Iside in persona. Era un abito del bisso più fine che fosse mai stato prodotto dalla sua filanda, perfettamente aderente al corpo, il simbolo di Avaris orgogliosamente inserito nel tessuto. La tunica a pieghe era drappeggiata su una veste altrettanto fine ricamata in oro e con pietre preziose cucite a forma di palma, l’albero della vita dell’Egitto. La nuova amira era rimasta senza fiato quando Mered glielo aveva mostrato.

«Un capolavoro» aveva detto poi e Sebak aveva stretto il braccio di Mered in segno di approvazione, un’approvazione che valeva più di dieci settimane di razioni di grano.

«A casa non hai una moglie che ti aspetta?» Una voce profonda fece sussultare Mered mentre una mano robusta lo faceva ruotare su se stesso.

«Padron Sebak.» Mered si inchinò profondamente, vergognandosi di essere stato sorpreso a spiare. «Perdonami, io… io volevo vedere…»

Una risata di gola lo costrinse a rialzare la testa. «Alzati, Mered, non sono arrabbiato con te.»

Un’ondata di sollievo investì lo schiavo e la felicità che traspariva dal volto di Sebak lo rese più audace. «Tua moglie è bellissima, mio signore, e io invoco la benedizione di El-Shaddai su di voi, perché abbiate una vita lunga e felice insieme.»

Il suo padrone accolse benevolmente quelle parole come succedeva sempre quando Mered nominava il suo dio.

Riportando l’attenzione sulla sposa, Sebak sospirò: «È bella, sì… è una bellezza che viene da dentro, amico mio». Si fece scuro in volto, accennando con un gesto del capo a suo zio, padrone della vicina Qantir: lui e Pirameses erano stati rivali fin da quando i loro padri erano morti, lasciando ai ragazzi le proprietà confinanti: «Non come la moglie di Pirameses. Quella donna avvelena tutto ciò che tocca. Le nostre proprietà sono troppo vicine per tenere separate le mogli, ma io non voglio che lei corrompa il ka interiore di Anippe».

Mered annuì, domandandosi però come avrebbe potuto impedire a un’amira di influenzare l’altra.

«Anippe intende impegnarsi nel disegno e nella tessitura nel tuo laboratorio, amico mio. Forse sarà troppo occupata per frequentare l’amira di Qantir e prendere le sue cattive abitudini.»

Sconcertato dalla franchezza del padrone, Mered non sapeva bene quale argomento affrontare per primo, se l’amira di Avaris nel suo laboratorio o le cattive abitudini dell’amira di Qantir. Scelse il più sicuro: «Non vedo l’ora di presentare all’amira i nostri sistemi di tessitura del lino, non appena sarà pronta, mio signore». In realtà non era granché contento all’idea di un’egiziana nel suo laboratorio, ma avrebbe cercato di accoglierla nel migliore dei modi.

«Bene, bene.» Sebak gli strinse con forza il braccio. «Anippe imparerà a fidarsi di te come ho fatto io, Mered. E se si troverà a suo agio nella filanda, trascorrerà meno tempo a Qantir a farsi influenzare dalla moglie di Pirameses.»

Mered sapeva che le cattive abitudini di quell’amira includevano intrattenere i mercanti di passaggio e trattare gli schiavi come se fossero pulci su un cane. El-Shaddai, custodisci il cuore della nostra amira e fa che gli ebrei trovino il suo favore.

Sebak, fissava ipnotizzato la moglie al centro della festa: «Non è incantevole, Mered?».

«Lo è davvero, mio signore, e sembra anche molto presa da te.»

Sebak si girò verso di lui, raggiante: «Davvero? Tu lo credi? Perché io penso di amarla». Le parole gli uscirono precipitosamente di bocca e parvero sorprendere anche lui. «È possibile che sia amore se ci siamo conosciuti solo qualche giorno fa?»

«Il cuore non ha regole, mio signore. Mia moglie e io siamo cresciuti insieme e ci hanno fidanzati da bambini, ma il nostro amore cresce di giorno in giorno.»

«Desidero proteggerla, desidero passare ogni momento con lei, la vedo nei miei sogni, il suo corpo mi attrae…»

«Sì, certo…» Mered si schiarì la voce, impedendo ulteriori descrizioni del grande amore del suo padrone. «Sia che tu l’ami già adesso, o che debba passare ancora qualche tempo, sarai felice di condividere ogni nuova esperienza con tua moglie.»

«E io sono pronto.» Sebak afferrò Mered per le spalle e lo scosse, al colmo della felicità: «È ora. Vai a casa da tua moglie, amico, mentre io porterò la mia nella nostra camera e… come hai detto? Sarò felice di condividere ogni nuova esperienza con lei».

Mered seguì con lo sguardo il padrone che tornava alla festa, passando fra le danzatrici e i loro veli fluttuanti come se fossero delle vecchie avvolte in stracci. Dapprima salutò la tavola degli uomini, inchinandosi profondamente al re Tut e congratulandosi abbondantemente con lui per l’esito della sua caccia nel Fayum: due bufali, un leone e un ippopotamo. Al visir Ay riservò soltanto un cenno del capo, con visibile irritazione del governatore dell’Egitto. Il novello sposo si inchinò poi allo zio, Pirameses, padrone della confinante Qantir. Era suo stretto parente ed essendo più in alto di lui nell’albero genealogico della sua famiglia, il decoro esigeva che Sebak gli rendesse onore, anche se erano quasi coetanei. Pirameses allungò il braccio muscoloso e Sebak glielo strinse, avambraccio contro avambraccio, perfino quella sera una prova di forza tra loro. Ogni volta che i due uomini si trovavano nella stessa stanza, scoppiavano scintille. Uno scambio silenzioso, poi Sebak si spostò verso il suocero, il comandante in capo generale Horemheb.

Piegò il ginocchio a terra davanti all’abbi di Anippe e nella sala si fece silenzio. «Sono onorato di poter custodire il tuo più grande tesoro. Sappi che l’amerò e la proteggerò a costo della vita, generale.»

Sebak chinò il capo e Horemheb vi posò la mano: «Possa Iside, la potente dea della magia, del matrimonio e della maternità, benedire la vostra unione e visitare la vostra camera stanotte». Strizzando l’occhio a sua moglie, Amenia, soggiunse: «In modo che molti nipoti possano provvedere al mio futuro».

Gli ospiti acclamarono rumorosamente e la giovane sposa chinò il capo con appropriata timidezza. Poi i musicisti ripresero a suonare e le danzatrici piroettarono e saltarono in fondo alla sala. La regina Senpa fece rialzare Anippe e a quel gesto della sovrana l’ancella personale della sposa parve commuoversi fino alle lacrime. Ma in realtà sembrava più un’espressione di disagio, che non di sentimento, e in un attimo si ritirò in disparte a osservare la scena con un volto di pietra.

Sebak si accostò al tavolo delle donne, la mano tesa: «Vieni, amor mio, finalmente è giunto il momento di vivere come marito e moglie». Anippe gli porse la mano, ma il giovane la sollevò tra le braccia e la portò via di peso dalla sala. Amenia, sua madre, prese il sistro a forma della dea Hathor – uno strumento consistente in lamelle di bronzo tra due corna di bue – e cominciò a scuoterlo muovendosi a ritmo con il suono. Un ospite disse che Amenia aveva ricevuto la sua istruzione nel coro del tempio di Amon-Ra, il che le dava il diritto di accompagnare i novelli sposi fino alla camera nuziale e di dare alla coppia la sua benedizione.

Mered non capiva nulla delle divinità egizie, dei loro simboli e miti, ma ne sapeva poco anche la maggior parte degli egiziani; soltanto i faraoni e i sacerdoti dei templi sacrificavano agli dei e gran parte dei nobili aggiungeva del suo alle leggende, tanto che i contadini egiziani dovevano credere a versioni sempre diverse, le più utili al potere politico del momento.

El-Shaddai, per lo meno, era immutabile, anche se molti ebrei avevano rinunciato a sperare nelle sue antiche promesse: il Dio di Abramo non aveva più parlato a un figlio di Israele dal tempo di Giuseppe.

Mered però sapeva che Egli esisteva. Le storie di Abramo, di Isacco e di Giacobbe erano troppo vivide, troppo precise – il popolo così colpevole e Dio così misericordioso – per essere un’illusione. Un giorno El-Shaddai avrebbe parlato di nuovo e allora Mered sarebbe stato pronto.

Gli ultimi suoni della festa lo riportarono al presente e il pensiero di quella notte d’amore gli fece desiderare la sua sposa, Puah. Mentre gli ospiti del banchetto indugiavano nella sala, Mered sgattaiolò fuori dal lato settentrionale del giardino, afferrò una torcia e raccolse un bastone abbandonato prima di incamminarsi nel buio. Gli sciacalli e le iene non lo avrebbero tenuto lontano dalla moglie quella notte.

Al di sopra della spalla di Sebak, Anippe osservò Ummi Amenia che sembrava in estasi al suono della sua stessa cantilena, perduta nel ritmo dello strumento a sonagli. Sebak marciava a ritmo con la musica, cullando teneramente la moglie in modo da calmarla; ma il cuore di Anippe batteva forte mentre i rumori della festa si attenuavano in lontananza. Le sembrava che stessero camminando da un’eternità. Quanto era grande la residenza di Avaris? Anippe rabbrividì in preda all’ansia.

«Hai freddo?» Il bagliore della torcia si rifletteva negli occhi di Sebak, che erano solleciti, sempre in ansia per lei.

«Un po’.»

«Ho altre vesti per te nella mia camera.» Sebak la baciò sulla fronte. «Non avrai freddo a lungo.» Gli occhi ardevano, promettendo qualcosa di diverso dalle vesti per tenerla al caldo.

Alla fine del lungo porticato Sebak svoltò a destra, dove si aprivano quattro porte l’una accanto all’altra, ognuna sorvegliata da soldati ramessidi, con corazze di cuoio e bronzo, corte tuniche e cinture di cuoio, immobili sull’attenti. Sebak si fermò davanti alla prima porta: «Apri per la mia sposa».

Il canto di Amenia cessò e cessò anche il suono ritmico del sistro quando il soldato aprì la porta senza proferire verbo e guardare il suo comandante.

Sebak rimise la sua sposa con i piedi sul pavimento, piedi calzati in sandali d’oro tempestati di gemme, ma Anippe non si fidava delle sue gambe tremanti e Amenia la sostenne per i gomiti, guardandola dritto negli occhi.

«Tu sei figlia di Horemheb, sorella del faraone Tut e ora moglie di Sebak.» La madre posò la mano sul braccio di Sebak, attirandolo nel loro cerchio. «Amatevi l’un l’altro. Fidatevi solo l’uno dell’altro. Datevi l’uno all’altro sempre.»

Amenia si voltò, affrettandosi a uscire prima che la figlia potesse aggrapparsi a lei.

Anippe cominciò a tremare.

Quando Sebak le posò le mani sulle spalle, sobbalzò come se fosse stata pugnalata. Facendo scivolare le mani lungo le sue braccia e premendole le labbra sull’orecchio, le sussurrò: «Sss, habiba, non ti farò male».

Anippe guardò attraverso la porta socchiusa la camera che la stava aspettando e che sembrava volerla inghiottire nella sua semioscurità, illuminata fiocamente com’era da due piccole lucerne. La paura la paralizzava, ma riuscì a costringersi ad avanzare, pur con il pensiero fisso di ciò che quella notte avrebbe potuto significare: gravidanza, parto, morte. A malapena aveva conosciuto l’amore e già doveva morire?

Stava ancora pensando al suo destino quando il marito la sollevò di nuovo tra le braccia e la trasportò verso quel futuro che essa sognava e temeva al tempo stesso. La camera semibuia dava su un piccolo giardino privato che rivelava il sereno cielo notturno. Sebak richiuse la pesante porta di quercia con il piede.

Il cuore di Anippe batteva sempre più forte: «Dovrei andare a vedere come stanno le mie sorelle. Ankhe stava piangendo e poi ho visto che la regina Senpa faceva una smorfia di dolore mentre si metteva a tavola. Davvero, si premeva le mani sul ventre. Se dovesse capitare qualcosa al bambino mentre lei è qui, non potrei mai perd…».

Sebak le coprì la bocca con un bacio, dapprima ardente, poi tenero. «Non ti farò mai del male, Anippe. Non devi piangere.»

Quelle parole la rassicurarono e la stupirono insieme. Non si era accorta che stava piangendo.

Fece sì col capo, ancora tremante, e chiuse gli occhi lasciando scorrere un torrente di lacrime lungo le guance. Sebak l’attirò sul suo petto e istintivamente lei gli gettò le braccia al collo per aggrapparsi all’uomo che la stava strappando a tutto ciò che le era caro, all’uomo che quasi non conosceva ma che prometteva di darle sicurezza. All’uomo che stava per mettere la sua vita in grave pericolo.

«Sono spaventata.»

Sebak appoggiò la guancia sulla sua e bisbigliò: «Lo so». Salì due gradini, scostò una tenda e adagiò Anippe sul morbido materasso di piume inginocchiandosi accanto a lei sul pavimento. «Ti rispetterò e ti amerò.» Le prese una mano e le baciò il palmo. «Stanotte.» Le baciò il polso. «E domani.»

Un fuoco le saettò nelle vene e la lucerna a olio illuminò il sorriso pigro che aveva imparato ad amare.

«Posso raggiungerti nel letto ora?» le domandò Sebak.

All’improvviso Anippe trovò difficile respirare, difficile ragionare e impossibile parlare, così si limitò ad annuire. Avrebbe pensato ad Ankhe e a Senpa l’indomani mattina, avrebbe perfino affrontato gli dei del mondo sotterraneo se avesse dovuto partorire, niente avrebbe dovuto sciupare l’estasi di quella notte come moglie di Sebak.