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Young Americans

DAVID BOWIE

Almeno una volta al mese, Rubens chiedeva a Daniele di accompagnarlo a fare shopping.

Aveva sempre una buona ragione per ampliare il guardaroba: un matrimonio, un incontro combinato su internet, l’anteprima di un film. Questa volta, per di più, era il primo appuntamento dopo la parentesi estiva. I due amici si erano già raccontati le vacanze durante la prima pausa pranzo della ripresa lavorativa.

Ma la vita di Rubens scalpitava tutto l’anno. Lui era costantemente sotto i riflettori. Poche fidanzate e tante amanti. Ma lealtà assoluta nei confronti degli amici. Non gli sarebbe mai venuto in mente di uscire con le loro ragazze, o con le ragazze cui andavano dietro, sebbene gli fossero capitate già diverse occasioni.

Faceva sangue, questo dicevano le donne. Forse perché i suoi globuli rossi venivano per metà da Pamplona. Occhi neri, pelle scura, capelli corti e duri. Antonio Banderas sotto falso nome. Lui e Daniele insieme erano pericolosi. La croce di tutti i maschi con cui avevano fatto un viaggio. Questi potevano tonificare il fisico, tirarsi al meglio, puntare sull’abbronzatura, ma quando loro arrivavano in spiaggia diventava un deserto senza più posto per nessuno. Per questo erano oggetto d’invidia e battute cattive. Avevano finito per isolarsi, coltivando la loro amicizia in modo quasi esclusivo. Si erano conosciuti giocando a biliardo, a una festa ricca – ricca di merda, qualcuno avrebbe detto – di qualche anno prima. Dopo pochi punti, alcune ragazze avevano cominciato a disertare la pista da ballo per diventare appassionate spettatrici della partita. I due giocatori si allearono in quel preciso istante. Un rapporto fondato su questo assioma: “Essere desiderabili non è una colpa, ma un colpo di culo”. Non se lo dissero mai apertamente. Ma le loro esperienze erano una continua testimonianza in tal senso.

– Allora, mi raccomando. Se vedi che compro qualcosa che non mi sta bene, fermami.

– Va bene. Solo non ho capito per cosa ti serve un vestito elegante.

– Domani sera esco con una massaggiatrice thailandese.

– Una puttana?

Rubens provò a giustificarsi. Lo irritava sentire da altri le parole che lui stesso avrebbe usato.

– È una vera massaggiatrice, giuro. Mi ha appena raddrizzato la schiena.

– E hai bisogno di un vestito nuovo.

– Sì. Mi dà più carica. Mi sento più virile.

– Se lo dici tu...

– Cosa vuoi, è orientale. Non posso deludere le sue aspettative sul maschio “made in Occidente”.

Entrati in boutique, fu il solito corri corri di commesse in aiuto. La più lesta aveva fatto il bagno in una vasca di Chanel n. 5. Marylin Monroe non gliel’avrebbe mai perdonato.

– Avete già visto qualcosa in vetrina?

– No. Siamo entrati direttamente.

– State cercando un capo in particolare?

– Sì, un abito per me.

– Da cerimonia?

– No, da appuntamento galante.

La commessa, colpi di sole e Wonderbra, squadrò Rubens dalla testa ai piedi.

– Capisco. Quindi qualcosa di classico.

– Senza esagerare, però.

– Ho quello che fa per lei.

– Me lo sentivo.

La ragazza sorrise compiaciuta, le tette sempre più su, e cominciò a tirare fuori i suoi cavalli di battaglia. Daniele aveva la faccia di chi sta lì solo perché gliel’ha chiesto un amico. Non amava lo shopping e detestava i commessi. Li trovava sempre poco sinceri. Non avevano etica, diceva lui. Volevano vendere a ogni costo – questa giacca è uno schifo ma a lei sta veramente bene – senza curarsi delle reali esigenze di chi chiedeva loro consiglio.

Rubens provò il primo vestito: un gessato grigio con camicia bianca. Molto Wall Street ma troppo classico. Miss Platino inzuppata di Chanel n. 5 annuiva con la testa, estatica. Daniele storse il naso e corrugò la cicatrice. Fu sufficiente per chiedere un’alternativa. Sulla porta del camerino di Rubens venne subito appoggiato un completo a quadretti stile Burberrys. Very British per la commessa. Too much British per Daniele, che bocciò a seguire: uno spezzato, un abito in pelle, un tre bottoni nero. La commessa cominciò ad annaspare. Si salvò in corner, grazie a un tessuto che sembrava velluto senza esserlo. Comprato. In un attimo erano fuori. Avevano fatto appena un paio di metri, che Rubens tornò nel negozio. Daniele pensò che avesse dimenticato lo scontrino. O il telefono. Si sbagliava.

– Le ho dato il mio biglietto da visita.

– Non ci credo.

– Be’, non mi sembrava niente male e poi mi puntava. Hai visto quando mi sistemava i pantaloni? Mmm... Profumo a parte...

– L’hai sentito anche tu? Io con una così non ci uscirei mai.

– Io sì. Mi fa sentire più animale. E poi mi piace l’idea di uscire con una che sa di prostituta.

Daniele si fermò e lo guardò perplesso. Con Rubens giocava sempre a fare il Mr Right della situazione. Ma zittirlo era difficile.

– Fai così solo perché hai trovato un angelo di nome Viola. Fino a qualche anno fa eri peggio di me. E non fare quella faccia, che ti ricordi benissimo.

Daniele annuì, ammettendo quella che non sarebbe mai stata una colpa.

La giornata di shopping era ancora lunga. Difficile fermare Rubens quando decideva di spendere. Ogni vetrina era un pretesto per fermarsi, chiedere, scegliere e portare via. La carta di credito lo eccitava. Gli dava l’illusione di poter agire sulla realtà con una semplice firma, eliminando il senso di corruzione che il denaro fisico suscita, o per lo meno suscitava in lui. Si paga una tangente o una prostituta, in questo modo, non una giacca a tre bottoni. Malgrado la sicurezza magnetica che gli infondeva la sua Mastercard, l’assenso dell’amico gli era assolutamente necessario. Si fidava solo di lui. Daniele se la rideva a osservarlo mentre si crogiolava nei complimenti delle negozianti. Vedere il suo ego salire al cielo per guardare le donne dall’alto. Uno spettacolo cui non voleva mai rinunciare.

In genere chiudevano quei sabati pomeriggio con una partita a biliardo. Erano habitué di un bar abbastanza infame, tutto fumo e bestemmie. Però lì si sentivano a proprio agio – l’isolamento come antidoto a una simulazione continua – padroni fieri del territorio. Non c’erano ragazze. Non c’erano gay. Solo uomini veri da sfidare a colpi di sponda.

A volte continuavano i loro discorsi giocandosi una birra, ma finivano quasi sempre per dimenticare il punteggio. Così decretavano la vittoria su un unico colpo. Due volte su tre vinceva Daniele, per scatenare l’ira furibonda di Rubens, il sangue rosso, la festa di San Firmino che gli bruciava nel petto. Era passionale anche nel gioco e pativa terribilmente l’agonismo.

– Vaffanculo, basta.

– Scusa?

– Vaffanculo. Io con te non ci gioco più.

– Dài, non l’ho fatto apposta. Se vuoi ne facciamo un’altra.

– Non me ne frega. Io volevo vincere questa. Non è possibile, cazzo. A tennis vinci tu, a biliardo pure. Eccheccazzo.

La faccia di Rubens era livida e rabbiosa. Nei suoi cromosomi, il gene dell’infanzia si era sistemato in pianta stabile.

Daniele si divertiva a vedere le sue espressioni di delusione. Un bambino viziato dalla vita, abituato a vincere sempre. Ma Daniele era ancora più abituato di lui a primeggiare.

– Innanzi tutto sono mesi che non facciamo più una partita a tennis.

– Perché mi facevi troppo incazzare.

– Se vuoi, mercoledì ti concedo la rivincita.

– Preparati al massacro.

– Su, pagami ’sta birra e finiamola qui.

Rubens si sentì di colpo perduto. Gli occhi neri all’ingiù, gli occhi di Rocky prima e dopo la sconfitta, o la vittoria.

– Quindi non mi dai un’ultima possibilità?

Daniele si trasformò in fratello maggiore per dare a Rubens un’altra chance. Ma gli fece rimandare solo di qualche minuto la sua ordinazione al bar. Rubens ammutolì. Bevve la birra in silenzio, circondato dai suoi acquisti, le buone azioni della giornata senza aver scomodato il denaro, denaro che corrompe. Daniele sogghignava senza far rumore.

Il broncio durò fino a che uscirono dal locale. Alla prima bionda che incrociarono per strada, ripresero i loro discorsi dimenticandosi il passato.