18
I Say a Little Prayer
ARETHA FRANKLIN
Il bar dellaCivette aveva tutti i tavolini al sole. Viola era seduta davanti a unacocà con croque monsieur. La parte vecchia di Nizza la faceva impazzire: quelle case gialle con le persiane da nonna le ricordavano un passato di naturale eleganza. Signore benvestite curiosavano tra le bancarelle del mercatino adiacente. Adornavano le loro case di lampade a olio e tovaglie provenzali. Le avrebbero profumate con l’acqua di lavanda. Dopo mezz’ora arrivò Alice.
– Ciao sorellina, come stai? Stamattina non ce l’ho fatta a svegliarti. Dormivi troppo bene.
– Io quando sono stressata dormo.
Alice inorridì alla vista del croque monsieur, ma si sedette facendo finta di niente. Non voleva rompere di prima mattina.
– Dev’essere stato un esame impegnativo.
– Non è solo l’esame. Sono un po’ di cose insieme.
– Si può sapere cosa ti stressa?
A Viola vennero gli occhi lucidi, di colpo. Alice ordinò un succo d’ananas. Poi chiese ciò che era facile indovinare.
– Mi stai dicendo che si tratta dell’uomo più bello del mondo?
– Se intendi Daniele, sì.
Viola si riprese, dirlo è già un po’ farsi curare.
– È sempre amabile e dolce e perfetto in tutto. Ma c’è qualcosa che non va. Lo sento.
– Un’altra?
– Spero di no, e credo di no. Non so. Sai quando ti fai un’idea che non ha nessuna ragione logica ma te la fai lo stesso? E non sai spiegarti perché te la sei fatta?
– Si chiama intuito femminile, Viola.
– Ecco, appunto. Intuito femminile.
Viola fermò un cameriere e ordinò un frappè alla vaniglia. Non faceva così caldo, ma lei associava quel posto all’estate, alle vacanze. Alice fece finta di non aver sentito.
– Ora ho chiesto a un mio amico di indagare. È uno che mi piaceva, e un po’ mi piace ancora adesso. Poi è diventato più amico di Daniele che mio.
– Capita sempre così. Noi donne ci facciamo sempre troppi scrupoli. Poi le cose passano e ci attacchiamo ai rimpianti.
The saggia sister. Viola aveva bisogno che qualcuno l’ascoltasse senza farla sentire stupida. Non parlava quasi mai con nessuno, lei, solo con se stessa, discorsi lunghi. Ringraziò tutte le cicogne della zona per non essere figlia unica.
– Ma adesso dimmi un po’ di te. Come va il tuo progetto?
– Bene, anche se a volte avrei voglia di conoscere gente diversa. Gli ambienti scientifici sono così chiusi. E mai che un ragazzo azzecchi un abbinamento di colore: sembrano tutti daltonici.
Alice era ricercatrice all’università. Aveva una laurea brillante quanto inutile in Scienze naturali. Ma era talmente portata per queste discipline che aveva fatto man bassa di tutte le borse di studio possibili. A soli trentadue anni era già stata a Edimburgo, Rio de Janeiro e nell’orrenda Detroit. Però faceva sempre la sua bella figura a ogni cena con persone nuove. Lei e Viola erano tanto legate quanto diverse. Alice era più alta, e magrissima, il portamento nobile, amiche di alto rango – ricche di merda, le avrebbero definite – ed era sempre stata con uomini molto più grandi di lei. Avevano pochissimi interessi in comune, ma si volevano un gran bene. Quando poteva, Viola correva a trovarla. Le piaceva l’idea di essere turista e cittadina nei paesi dove Alice lavorava. Ogni volta le faceva scoprire i caffè, i ristoranti, gli angoli amati dalla gente del posto. Così poteva vedere il mondo da un punto di vista privilegiato. L’unica cosa su cui litigavano sempre era il cibo: Alice mangiava solo cose naturali e ricche di fibre, e si curava con l’omeopatia. A ogni patatina fritta che vedeva, trovava modo di intavolare un predicozzo anticolesterolo. Quando vide sua sorella più serena – gli occhi del sangue riescono a capire sempre meglio – poté finalmente prendersela con il croque monsieur.
– Ma non potevi ordinare un’insalata niçoise?
– Avevo voglia di croque monsieur. E poi non sono mica grassa...
– Fai la furba solo perché hai un buon metabolismo. Prima o poi anche tu dovrai fare i conti con fegato e cellulite.
– Ma tiè.
– Io lo faccio per il tuo bene. Poi non venire da me a chiedere se è vero che il succo di carota riduce la ritenzione idrica.
– Aritiè.
Alice non parlava sul serio. Le piaceva giocare a fare la sorella allarmista e protettiva. Ed era contenta nel vedere Viola risponderle a tono. La lasciò serena al suo pomeriggio libero e tornò ai propri doveri col microscopio. Si sarebbero viste la sera per cena.
Viola trascorse il resto della giornata a osservare i pattinatori sulla Promenade des Anglais. Erano piccoli artisti felici di esibirsi agli occhi dei passanti: volteggiavano e facevano piroette al ritmo della musica che ascoltavano nei loro walkman. Non sorridevano mai. Troppo intenti a respirare per non sbagliare. Viola si mise comoda su una delle tante sedie pubbliche, rigorosamente blu, che nessuno si sarebbe sognato di rubare. Guardò il mare, l’esame sembrava lontano anni luce. D’improvviso avrebbe voluto che Daniele fosse lì. Sì, forse aveva costruito troppi castelli. E poi se c’era qualcuno che aveva qualcosa da nascondere era proprio lei. Ripensò ai tarocchi e si sentì come le signore che telefonano ai programmi televisivi.
Ottobre era quasi alle porte: lo annunciava a chiare lettere un tramonto anticipato. Una coppia di scandinavi faceva tranquillamente il bagno. I gabbiani li prendevano in giro.
Viola cominciò a osservare i bambini giocare sulla spiaggia. Si rivide da piccola, guardata a vista dalla tata, mentre raccoglieva le conchiglie. Le piaceva immaginare che ognuna di esse avesse una famiglia, di cui lei doveva ritrovare tutti i componenti. Trascorreva intere giornate a ricostruire i loro gradi di parentela, per poi disporle nelle casette di sabbia che costruiva con le formine. Era l’unica bambina che desse vita ai suoi castelli – la reggia abitata dal mare – e gli altri la guardavano con diffidenza, per questo. Ma lei adorava il suo mondo, e ci giocava sola.