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Family Affair

MARY J. BLIGE

Per Alice, Viola rappresentava la libertà. Perché era giovane e irresponsabile. Perché aveva quel tocco di follia che un po’ le invidiava. A ogni visita della sorella ne approfittava quindi per concedersi qualche stravaganza: beveva alcolici, mangiava patatine fritte, l’ordinario che diventa straordinario, la trasgressione all’acqua di rose. Una sera prese addirittura una mousse al cioccolato. Per una salutista come lei, era già un’infrazione grave. Intanto teneva d’occhio la sorella. Si era preoccupata nel vederla tesa l’ultima volta. Le parole dette quando si erano sentite al telefono l’avevano giustamente allarmata. Ma quando Viola le aveva confessato di essersi fatta leggere le carte da Madame Germaine, aveva avuto una reazione quasi isterica. Una vera dichiarazione di guerra a tutti i suoi anni dedicati alle scienze. Viola ne rideva – ma dimmi tu che sorella retrò mi doveva capitare – e cercava di sdrammatizzare.

Ad Alice, Daniele era piaciuto subito. Lo trovava interessante, intelligente, sicuro. Solo, troppo bello. La bellezza aiuta la conquista ma non la stabilità, teorizzava. Così non si era stupita più di tanto quando era accaduto il disastro. Certo, un altro uomo non se l’aspettava. Fosse dipeso da lei, lo avrebbe mandato a stendere, o bianco o nero. Però ammirava il suo coraggio.

– E tu non hai mai pensato di tradirlo?

– In realtà stavo per precederlo.

– E con chi?

– Proprio con Rocco.

Alice smise di annaffiare la pianta di limoni che curava nel suo piccolo terrazzo.

– Rocco il bastardo?

– Rocco quello. Siamo anche usciti insieme una sera. Siamo andati a vedereRomeo e Giulietta in inglese. Ci siamo baciati e basta. Poi l’ho invitato a cena da noi, e ha cambiato idea. Il resto lo sai.

– Stai scherzando? E perché non lo aspetti sotto casa e gli tagli le gambe?

– A che servirebbe? Io non voglio perdere Daniele. Non posso permettermelo.

Alice posò l’annaffiatoio e strinse Viola tra le sue braccia. Un gesto un po’ antico, ma sincero, Alice viveva in un mondo tutto suo, forse per via del nome.

– E ora come va?

– Non ci crederai, ma bene. Facciamo l’amore più spesso, mi chiama di continuo. Solo che a volte mi sembra di avere una spada di Damocle sulla testa.

– Stavo per dirtelo io.

Viola si staccò dall’abbraccio, non ha detto niente, non è successo niente.

– Dài, non fare così. È solo un problema di forze. Guarda il lato positivo. Tu eri in una posizione statica. Di dominio, ma statica. Ora sei stata messa in discussione da una forza esterna con cui ti devi confrontare. L’equilibrio lo puoi ritrovare solo tu, ponendoti limiti, recinzioni e regole ferree di non interazione con l’altra forza. È questo che ti renderà invincibile.

Come spiegazione, a Viola sembrò un po’ generica e approssimativa. Tra fisica e metafisica. Ma Alice sembrava crederci davvero, mentre parlava: teoria, astrazione e regole, il suo mondo. Anche lei era, a suo modo, passionale. In quel momento Viola sentì veramente il valore del sangue. Non disse niente. Si limitò a vaporizzare l’acqua sulle foglie.

Finirono la serata a preparare la marmellata di mele biologiche. Viola era estasiata nel vedere quelle procedure per lei sconosciute, come la cottura a bagnomaria. Mentre operavano, sparlavano dei loro parenti. Non risparmiarono nessuno, ma raggiunsero l’apice della cattiveria con gli abiti di zia Lauretta: un elenco di tinte pastello inferiore solo a quello della regina Madre quando era ancora viva.

Intanto, il manuale di Psicologia sociale aspettava che Viola lo degnasse di uno sguardo. Da un paio di giorni era appoggiato su un davanzale con vista sulla città vecchia. Viola gli passava vicino senza rivolgergli mai la parola. Era come se non esistesse. La mattina dopo fece i conti con la sua coscienza e lo prese in mano.

Alice era all’università per il suo progetto di ricerca, quindi non aveva alcuna distrazione.

Dopo un paio di capitoli, suonò il campanello. Era Mathieu, il vicino di casa. Aveva conosciuto Viola qualche mese prima e le piacevabeaucoup. A ogni suo arrivo, sperava di conoscerla meglio. Ma Alice lo teneva debitamente a distanza. Ne aveva intuito le intenzioni: solo una persona con qualche interesse chiede di tua sorella ogni volta che ti incrocia,comment ça va, Violà?

La scusa usata da Mathieu poteva quasi essere imbarazzante: finito lo zucchero. Un argomento degno di una tesi di laurea, insieme al sale e alla cipolla.

Nel suo italiano stentato, Mathieu invitò Viola per un caffè – un altro classico, ti offro un caffè – a casa sua. Per la studentessa svogliata fu una vera benedizione.

Mathieu aveva quarant’anni portati benissimo, solo qualche ruga di espressione, intorno agli occhi. Single. Faceva il cuoco in un ristorante. Lavorava tre sere a settimana. Dedicava la maggior parte del tempo alla cura del corpo e all’altra sua passione: la pittura. Tele perse nei colori più accesi animavano le stanze. Dal suo piccolo studio vedeva il mare. Viola arrivò con la zuccheriera e Mathieu le servì quello che in Francia chiamano ancora caffè: acquamaròn dal sapore accennato, ma presentata molto bene. Fecero i banali discorsi degli stranieri che non si conoscono – o delle persone che non si conoscono in generale – aiutati dai sorrisi, che si scambiavano con un po’ di pudore.

Prima di lasciarla tornare al suo esame, Mathieu chiese a Viola se avrebbe potuto ritrarla, un giorno.

Pourquoi pas? Ma non stavolta. Non sono in forma, sono sciatta e devo studiare un sacco. Domani, chissà. Comunque grazie per il caffè.

– Cos’è “sciatta”?

– “Sciatta” vuol dire un’altra volta. Okay?

A bientôt, alors.

A bientôt.

Viola fece un sorriso da scema e tornò dall’altra parte del pianerottolo. Era di nuovo Lolita. Innocente e spregiudicata, sfuggente, impalpabile. Colto al volo l’invito sottinteso, lo aveva lasciato cadere con grande abilità. Al suo ego, per ora, bastava soltanto sentirsi desiderata. Studiò di filato fino a sera, il libro non la sopportava più. Quando Alice si mise a cercare la zuccheriera, fece finta di non sentire. Il giorno dopo bussò alla porta di Mathieu con i suoi occhi di cerbiatta.