Capitolo ventunesimo

Lui e Inés siedono in silenzio davanti agli avanzi di una cena.

– È cosí che passeremo i giorni che ci rimangono, io e te? – le dice alla fine. – Invecchieremo in una città che nessuno dei due sente sua, piangendo la nostra disgrazia?

Inés non risponde.

– Inés, posso dirti qualcosa che David mi ha detto poco prima della fine? Pensava – ha detto – che dopo la sua morte io e te avremmo fatto un figlio insieme. Io non sapevo come rispondergli. Alla fine gli ho detto che io e te non avevamo quel tipo di relazione. Ma tu, hai pensato all’ipotesi di adottare un bambino – uno di quelli dell’orfanotrofio, per esempio? O piú di uno? Hai pensato che noi due potremmo ricominciare da capo e mettere su una famiglia vera e propria?

Inés gli dà un’occhiata fredda, ostile. Perché? Le ha fatto una proposta spregevole?

Lui e Inés sono stati insieme per piú di quattro anni, abbastanza per aver conosciuto il peggio uno dell’altra, e anche il meglio. Nessuno dei due è per l’altro un’incognita.

– Rispondimi, Inés. Perché non ricominciare, prima che sia troppo tardi?

– Troppo tardi per cosa?

– Prima di essere troppo vecchi… troppo vecchi per crescere dei figli.

– No, – dice Inés. – Non voglio un bambino dell’orfanotrofio in casa mia, a dormire nel letto di mio figlio. È un insulto. Mi meraviglio di te.

Ci sono notti in cui si sveglia con la voce di David nelle orecchie, ci può giurare: Simón, non riesco a dormire, vieni a raccontarmi una storia!, oppure Simón, sto facendo un brutto sogno!, o Simón, mi sono perso, vieni a salvarmi! Presume che quella voce turbi anche i sonni di Inés, ma non le chiede niente.

Evita le partite di pallone nel parco dietro il caseggiato. Ma a volte nella figura di un bambino che attraversa la strada correndo o sale svelto su per le scale vede per un attimo l’immagine di David e prova un impeto di amaro rancore perché proprio suo figlio è l’unico a essere morto mentre gli altri novantanove sono sani e salvi e giocano allegramente. Gli sembra mostruoso che l’oscurità l’abbia ingoiato senza nemmeno un urlo o una protesta, senza capelli strappati né denti digrignati, mentre il mondo continua a girare sul suo asse come se non fosse successo niente.

Passa all’Accademia per ritirare le cose di David e, senza sapere come né perché, si trova nello studio di Arroyo, a confidargli i suoi sentimenti. – Mi vergogno di ammetterlo, Juan Sebastián, ma vedo i compagni di David e mi ritrovo a pensare che dovevano morire loro, non David… uno di loro, tutti, non fa differenza. Uno spirito maligno, uno spirito del male sembra si sia impossessato di me, e non riesco a liberarmene.

– Non sia troppo duro con se stesso, Simón, – dice Arroyo. – Il tormento che sente passerà, col tempo. Una porta si apre, un bambino entra; la stessa porta si chiude, il bambino non c’è piú, e tutto è com’era prima. Niente è cambiato nel mondo. Eppure non è cosí, non proprio. Anche se non lo vediamo, udiamo, sentiamo, la terra si è mossa –. Arroyo fa una pausa, lo guarda intensamente. – Qualcosa è successo, Simón, qualcosa che non è niente. Quando sente il rancore montare dentro di lei, se lo ricordi.

C’è una nuvola sospesa sul suo cervello, oppure lo spirito delle tenebre è al lavoro, ma in questo momento lui non lo capisce, di certo non è in grado di afferrarlo: il qualcosa che non è niente di Arroyo. Che segno ha lasciato David dietro di sé? Nessuno. Niente di niente. Nemmeno quello che lascia il battito dell’ala di una farfalla.

Arroyo riprende. – Se posso cambiare discorso, alcuni amici hanno suggerito un incontro formale di corpo docente e allievi per onorare e parlare di vostro figlio. Verrete, lei e Inés?

Arroyo mantiene la promessa. Le attività del mattino seguente all’Accademia sono sospese e gli allievi si riuniscono per onorare il compagno morto. Lui e Inés sono gli unici esterni presenti.

Arroyo si rivolge all’assemblea. – David è arrivato tra noi anni fa come allievo di danza, ma ben presto si è rivelato un maestro, non uno studente, un maestro per tutti noi. Non c’è bisogno di ricordarvi come, quando danzava per noi, tutti fossimo paralizzati dalla meraviglia.

Ho avuto il privilegio di essere suo allievo. Nelle nostre performance a due io facevo la parte del musicista e lui quella del ballerino, ma in verità quando lui cominciava a ballare la danza diventava musica e la musica danza. Da lui la danza fluiva nelle mie mani, nelle mie dita e anche nel mio spirito. Ero lo strumento sul quale suonava. Mi esaltava e, come so dalle vostre parole, esaltava anche voi e tutti quelli di cui sfiorava la vita.

La musica che suonerò per voi oggi l’ho appresa da lui. Quando sarà finita osserveremo un minuto di silenzio e riflessione. Poi ci lasceremo, portando in noi la memoria della sua musica.

Arroyo siede all’organo e comincia a suonare. Subito lui, Simón, riconosce il tempo. È quello del Sette, elaborato con dolcezza e grazia inusuali. Lui cerca la mano di Inés, la stringe, chiude gli occhi, si abbandona alla musica.

Dalle scale giunge improvviso uno strepito, e un mare di giovani corpi irrompe nello studio. In testa a tutti c’è María Prudencia dell’orfanotrofio, con un manifesto attaccato a un bastone. LOS DESINVITADOS, dice: quelli che non sono stati invitati. Dietro di lei, uno a fianco all’altra, ci sono il dottor Fabricante e la señora Devito, seguiti da una schiera di orfani, un centinaio. In mezzo a loro, portata a spalla da quattro degli studenti piú grandi, c’è una semplice bara dipinta di bianco che, con una manovra studiata, portano sul palco e poggiano a terra.

Il dottor Fabricante annuisce, e i quattro con la bara vengono raggiunti sul palco dalla señora Devito. Durante tutto ciò Arroyo non accenna a intervenire: si direbbe divertito.

La señora Devito si rivolge ai convenuti. – Amici! – esclama. – Questa è una circostanza triste per tutti voi. Avete perduto uno di voi; tra di voi c’è un vuoto. Ma io vi porto un messaggio, un messaggio di gioia. La bara che vedete davanti a voi, che è stata portata da Las Manos per le strade della città sulle spalle da questi giovani compagni di David, è un simbolo della sua morte ma anche della sua vita. María! Esteban!

María e l’alto e brufoloso ragazzo suo compagno fanno un passo avanti e, senza una parola, capovolgono la bara e la scoperchiano. È vuota.

Parla Esteban. La voce è incerta, e lui è rosso in volto e chiaramente a disagio. – Noi, orfani di Las Manos, che siamo stati vicini a David negli ultimi dolorosi momenti… – Lancia uno sguardo disperato a María, che gli sussurra qualcosa all’orecchio. – Abbiamo deciso di celebrare il suo trapasso, trasmettendo il suo messaggio.

Adesso è il turno di María. Parla con imprevedibile calma. – Diciamo che questa è la bara di David, e come potete vedere è vuota. Che cosa vuol dire questo per noi? Vuol dire che lui non se n’è andato ma è ancora con noi. Perché la bara è bianca? Perché questo potrebbe sembrarci un giorno triste, ma non è davvero triste. Tutto qui. Questo è quello che volevo dire.

Il dottor Fabricante fa un altro cenno. Gli orfani rimettono il coperchio sulla bara e se la issano in spalla. – Grazie a tutti voi, – grida la señora Devito al di sopra del chiasso. In volto ha un sorriso che si potrebbe solo definire estatico. – Grazie per aver permesso ai bambini di Las Manos, troppo spesso trascurati e dimenticati, di partecipare alla vostra commemorazione –. E, improvvisamente com’erano arrivati, gli orfani marciano fuori dallo studio e giú per le scale portando via la bara.

La mattina dopo, mentre lui e Inés fanno colazione, arriva Alëša e bussa alla porta. – Il señor Arroyo mi dice di chiedervi scusa per il caos di ieri. Ci ha colto tutti di sorpresa. E poi avete dimenticato queste –. E mostra loro le scarpette da ballo di David.

Inés le prende senza una parola ed esce dalla stanza.

– Inés è sconvolta, – dice lui. – Non è stato facile per lei. Sono certo che capisci. Vogliamo andare un po’ fuori, io e te? Potremmo fare una passeggiata nel parco.

L’aria è piacevole, fresca, senza vento. Il suono dei loro passi è attutito da uno spesso tappeto di foglie morte.

– David le aveva mai fatto vedere il trucco della moneta? – dice Alëša, all’improvviso.

– Il trucco della moneta?

– Quello in cui lancia una moneta e viene fuori testa, sempre. Dieci, venti, trenta volte.

– Avrà avuto una moneta truccata.

– Riusciva a farlo con qualsiasi moneta gli dessi.

– No, non mi ha mai mostrato quel trucco, ma fino al momento in cui non gliel’ho proibito giocava a dadi con Dmitri, e Dmitri diceva che David poteva fare un doppio sei quando gli pareva… che altri trucchi sapeva fare?

– Quello della moneta è l’unico che ho visto. Non sono mai riuscito a capire come faceva. Era una cosa sorprendente.

– Immagino che, con un buon controllo muscolare, si possano lanciare monete o dadi sempre nello stesso modo. Deve essere questa, la spiegazione.

– Lo faceva solo per divertirci, – dice Alëša, – ma una volta ha detto che se avesse voluto l’avrebbe potuto usare per far crollare le colonne.

– Che cosa avrà voluto dire: far crollare le colonne?

– Non ne ho idea. Sa com’era David. Non diceva mai quello che pensava direttamente. Ti lasciava sempre a interrogarti sulle sue parole.

– L’ha fatto anche per Juan Sebastián il trucco della moneta?

– No, solo per i suoi compagni di classe. L’avevo raccontato a Juan Sebastián, ma a lui non interessava. Ha detto che niente di quello che faceva David lo sorprendeva.

– Alëša, David ti ha mai parlato di un messaggio che portava?

– Un messaggio? No.

– David divideva la gente tra quelli adatti a ricevere il suo messaggio e gli altri. Io ero tra i secondi – quelli che avanzano faticosamente, senza fantasia. Pensavo ti avesse promosso nell’altra squadra, nel campo degli eletti. Pensavo ti avesse rivelato il suo messaggio. Tu gli piacevi e anche lui ti piaceva. Lo vedevo.

– Non è solo che mi piaceva, Simón, io lo amavo. Tutti noi lo amavamo. Avrei rinunciato alla mia vita per lui. Davvero. Ma no, non mi ha affidato il suo messaggio.

– L’ultima notte che ho passato con lui non faceva che parlare del suo messaggio… ne parlava senza però dire in che cosa consisteva. Ora Dmitri sostiene che il messaggio completo è stato rivelato a lui. Come sai, fin dai tempi di Ana Magdalena, Dmitri ha sostenuto di avere un legame speciale con David, un’affinità segreta. Io non gli ho mai creduto: è un tale bugiardo. Ma ora, come ti dicevo, sta mettendo in giro la storia che David avrebbe lasciato un messaggio di cui lui è l’unico depositario.

I bambini dell’orfanotrofio devono essere stati particolarmente colpiti da quella storia, e dev’essere per questo che ieri hanno fatto irruzione durante la cerimonia di commemorazione. Il messaggio di David era destinato loro, dice Dmitri, e a tutti gli orfani del mondo in generale, ma è morto troppo presto per rivelarlo personalmente, cosí solo lui, Dmitri, l’ha ascoltato per intero. Si serve della sua amica dell’ospedale per propagare la storia. L’hai vista ieri: la donna minuta con i capelli biondi. Appoggia tutto quello che dice lui.

– E qual è il messaggio, secondo Dmitri?

– Lui non lo dice. E non mi stupisce. È la sua tecnica: tiene sulla corda gli avversari. A mio parere è tutta una estafa, una truffa. Se pure ha un messaggio, è quello che s’è inventato lui.

– Credevo che Dmitri fosse stato condannato all’ergastolo. Come mai è di nuovo libero?

– Dio solo lo sa. Sostiene di aver capito il suo errore e di essersi pentito. Dice di essere un uomo nuovo, di essersi ravveduto. È plausibile. La gente vuole credergli, o almeno concedergli il beneficio del dubbio.

– Beh, dovrebbe sentire quello che ha da dire di lui Juan Sebastián.

Quella sera parla con Inés. – Inés, David ti ha mai fatto vedere un trucco che sapeva fare… lanciava una moneta e faceva sempre testa?

– No.

– Alëša dice che lo faceva per i suoi compagni di scuola. E ti ha mai parlato di un messaggio che pensava di lasciare dopo di sé?

Inés si volta e lo fissa. – Bisogna proprio portare sempre tutto allo scoperto, Simón? Non posso avere un piccolo spazio che sia solo mio?

– Mi dispiace, non avevo idea che la vedessi cosí.

– Tu non hai mai idea di come io veda qualsiasi cosa. Hai mai pensato a come mi devo essere sentita quando sono stata cacciata da quella gente all’ospedale – Vogliamo la vera madre, lei non è la vera madre, vada via – come se David fosse un trovatello, o un orfano? A te sembrerà facile mandare giú simili insulti, ma a me no. Per quanto mi riguarda, David mi è stato portato via quando aveva piú bisogno di me e io non perdonerò mai la gente che me l’ha preso, mai, incluso quel dottor Fabricante.

È chiaro che ha toccato un nervo scoperto. Cerca di prenderle la mano ma lei si scosta adirata. – Vattene. Lasciami in pace. Rendi solo tutto piú difficile.

I rapporti con Inés non sono mai stati semplici. Anche se stanno a Estrella da quattro anni, lei continua a essere irrequieta, agitata, infelice. Il piú delle volte è lui quello a cui attribuisce la sua infelicità: è lui che l’ha portata via da Novilla e dalla piacevole vita che conduceva insieme ai suoi fratelli. E tuttavia il fatto è che David non avrebbe potuto avere una madre piú devota. Anche lui, Simón, gli è stato devoto a modo suo. Ma aveva sempre previsto il giorno in cui il ragazzino lo avrebbe liquidato (Non mi puoi dire cosa devo fare, tu non sei mio padre). Quello con Inés sembrava un legame nell’insieme piú forte e piú profondo, e anche da cui era piú difficile sganciarsi.

Inés pativa la perdita di libertà che era il prezzo della maternità, e tuttavia era indiscutibilmente devota a suo figlio. Se questa era una contraddizione, non sembrava le fosse difficile accettarla.

In un mondo ideale lui e Inés, in quanto genitori di David, si sarebbero amati come amavano il loro figlio. Nel mondo meno ideale in cui si erano trovati, la rabbia che sobbolliva in Inés trovava sfogo in accessi di freddezza o di irritabilità nei suoi confronti, accessi ai quali lui rispondeva allontanandosi. Ora che il bambino non c’è piú, quanto possono sperare di rimanere insieme?

Col passare dei giorni, Inés ricorda sempre piú apertamente i vecchi tempi a La Residencia. Le manca il tennis, dice, e le nuotate, le mancano i suoi fratelli, soprattutto Diego, il piú giovane, la cui ragazza aspetta il secondo figlio.

– Se stai cosí, forse dovresti tornare, – le dice lui. – Che cosa ti trattiene a Estrella, dopotutto, a parte il negozio? Sei ancora giovane. Hai una vita davanti a te.

Inés sorride misteriosamente, sembra sul punto di dire qualcosa, ma tace.

– Hai pensato a cosa dobbiamo fare con i vestiti di David? – le dice durante una delle serate che passano insieme in silenzio.

– Se mi stai proponendo di darli all’orfanotrofio, assolutamente no. Piuttosto li brucio.

– Non era quello che volevo suggerire. Se li dessimo all’orfanotrofio probabilmente li metterebbero sotto vetro come una reliquia. No, pensavo di darli via, in beneficenza.

– Fa’ come ti pare, basta che non me ne parli.

Lei non vuole discutere il futuro dei vestiti di suo figlio, ma lui non può fare a meno di notare che la ciotola di Bolívar è scomparsa dalla cucina insieme alla sua cuccia.

Mentre Inés è fuori mette i vestiti di David in due valigie, dalla camicia con le ruche alle scarpe con i cinturini che lei aveva comprato quando lo aveva adottato, fino alla maglietta bianca con il numero 9 sulla schiena che portava quel giorno pieno di speranze in cui era andato a giocare a pallone a Las Manos.

Affonda il naso nella maglietta numero 9. È un’impressione o sa ancora leggermente di cannella come la pelle del bambino?

Bussa alla porta del portiere. Gli apre la moglie. – Buongiorno, – dice lui. – Non ci conosciamo. Io sono Simón, abito all’A-13, dall’altra parte del giardino. Mio figlio giocava a pallone con suo figlio. Mio figlio David. Per favore non la prenda male, ma so che avete figli piccoli e con mia moglie ci chiedevamo se volevate avere gli abiti di David. Altrimenti verranno buttati –. Apre la prima valigia. – Come può vedere, sono in buone condizioni. David teneva bene i suoi vestiti.

La donna sembra confusa. – Mi dispiace tanto, – dice. – Voglio dire, mi dispiace tanto per la vostra disgrazia.

Lui chiude la valigia. – Domando scusa, – dice. – Non avrei dovuto chiederlo. È stato stupido da parte mia.

– C’è un negozio di seconda mano tenuto per beneficenza in calle Rosa, accanto all’ufficio postale. Sono sicura che saranno felici di prenderli.

Certe sere Inés non torna a casa fino a dopo mezzanotte. Lui aspetta il suo rientro, tende l’orecchio per la macchina, per il rumore dei suoi passi mentre sale le scale.

Una di quelle sere, i passi si fermano davanti alla sua porta. Lei bussa, è stravolta, lo vede subito, forse ha bevuto troppo.

– Non ce la faccio piú, Simón, – dice, e comincia a piangere.

Lui la stringe fra le braccia. La borsa di lei cade a terra. Lei si libera dall’abbraccio e la raccoglie. – Non so cosa fare, – dice. – Non posso continuare cosí.

– Siediti, Inés, – dice. – Preparo un tè.

Lei si butta sul divano. Un momento dopo è di nuovo in piedi. – Lascia perdere, me ne vado, – dice.

Lui la ferma sulla porta e la riconduce al divano, si siede accanto a lei. – Inés, Inés, – dice, – il tuo lutto è stato terribile, il nostro lutto è stato terribile, tu non sei in te, come potrebbe essere altrimenti? Siamo esseri mutilati. Non ho parole per lenire la tua pena, ma se hai bisogno di piangere piangi, piangi sulla mia spalla –. E poi la abbraccia e lei non smette di singhiozzare.

È la prima delle tre notti che passano insieme, dormendo nel letto di lui. Il sesso è fuori discussione; ma la terza notte, incoraggiata dal buio, Inés comincia, prima esitante e poi sempre piú libera, a raccontare la sua storia, una storia che risale al tempo in cui l’idillio di La Residencia si era bruscamente interrotto con l’arrivo, inaspettato e non gradito, di uno sconosciuto che teneva stretto per mano un bambinetto.

– Aveva un’aria cosí desolata, cosí disperata dentro quei vestiti che gli avevi messo e che non erano fatti per lui… che l’ho subito amato. Mai fino a quel momento mi ero pensata come una madre. Quello che dicevano le altre donne… il desiderio, il bisogno, comunque lo chiamassero, in me non c’era. Ma in quei suoi grandi occhi c’era una tale supplica… non sono riuscita a resistergli. Se fossi stata in grado di leggere il futuro e vedere a quanto dolore mi preparavo, avrei rifiutato. Ma in quel momento non potevo dire altro che: Tu mi hai scelto, piccolino. Sono tua, eccomi.

Non è cosí che lui, Simón, ricorda quel giorno. Nel suo ricordo c’era voluta un’opera di supplica e di convinzione per portare Inés a quella decisione. David non ti ha proprio scelto, Inés, vorrebbe dire (ma non lo fa perché l’esperienza gli ha insegnato che non è bene contraddirla); no, lui ti ha riconosciuto. Ha riconosciuto te come sua madre, ha riconosciuto sua madre in te. E in cambio (gli piacerebbe continuare, ma non lo fa) voleva che tu – voleva che tutti e due noi – riconoscessimo lui. Era questo che lui continuava a chiedere: essere riconosciuto. Anche se (gli piacerebbe aggiungere in conclusione), com’è possibile che una persona normale possa riconoscere qualcuno che non ha mai visto, non lo capisco.

– Era (Inés continua col suo monologo) come se all’improvviso tutto il futuro mi si parasse davanti con chiarezza. Fino ad allora, vivendo a La Residencia, mi ero sempre sentita un po’ estranea, un po’ isolata, come sospesa. Improvvisamente venivo riportata a terra. Dovevo lavorare. C’era qualcuno di cui mi dovevo occupare. Avevo uno scopo e ora… – S’interrompe; nel buio lui sente che ricaccia indietro le lacrime. – E ora cosa è rimasto?

– Siamo stati fortunati, Inés, – le dice, cercando di consolarla. – Avremmo potuto vivere le nostre normali vite, tu nel tuo mondo, io nel mio, e di certo entrambi vi avremmo trovato una qualche soddisfazione. Ma che cosa avrebbe significato alla fine quella normale soddisfazione? Invece abbiamo avuto il privilegio di essere visitati da una cometa. Ricordo qualcosa che mi ha detto di recente Juan Sebastián: David è arrivato, il mondo è cambiato, David se n’è andato e il mondo è tornato a essere com’era prima. È questo che io e te non possiamo sopportare: il pensiero che lui sia stato cancellato, che non sia rimasto niente, che potrebbe anche non essere mai esistito. Eppure non è vero. Non è vero! Forse il mondo è com’era prima, ma è anche diverso. Dobbiamo aggrapparci a quella differenza, tu e io, anche se per ora non la possiamo vedere.

– È stato come trovarmi immersa in una favola, quei primi mesi, – continua Inés a voce bassa, sognante; lui dubita che abbia sentito una sola parola di quello che ha appena detto. – Una luna de miel, cosí è stato per me, se è permesso di parlare di luna di miele con un bambino. Mai mi ero sentita tanto completa, tanto soddisfatta. Lui era il mio caballerito, il mio ometto. Per ore e ore lo contemplavo mentre dormiva, bevendo la sua immagine, lo amavo tanto che faceva male. Tu non lo capisci, vero… l’amore di una madre? Come potresti?

– No, infatti… come potrei? Ma fin dal primo momento ho capito quanto lo amavi. Tu non sei una persona espansiva, ma quello era evidente a tutti, anche a chi non ti conosceva.

– Quelli sono stati i giorni piú belli della mia vita. Dopo, quando ha cominciato ad andare a scuola, tutto è diventato piú difficile e lui ha cominciato a staccarsi da me, a resistermi. Ma non voglio tornarci sopra.

Non ce n’è bisogno. Lui ricorda quei giorni fin troppo bene, ricorda bene lo scherno: Non mi puoi dire cosa devo fare, non sei la mia vera madre!

Attraverso l’abisso spalancato fra il suo lato del letto e quello di lei, oltre il sipario del buio, Simón parla: – Lui ti amava, Inés, qualunque cosa abbia detto nella sua impulsività. Era il tuo bambino, tuo e di nessun altro.

– Non era il mio bambino, Simón. Lo sai bene quanto me. E ancora meno era il tuo. Era una creatura selvaggia, una creatura uscita dalla foresta. Non apparteneva a nessuno. Di certo non a noi.

Una creatura selvaggia: le sue parole lo fanno sussultare. Non la pensava capace di tanto intuito. Inés, piena di sorprese.

Questo segna l’epilogo della lunga confessione di Inés. Senza toccarsi, mantenendo una distanza di sicurezza, si abbandonano al sonno tutti e due. Quando lui si sveglia lei se n’è andata e non ritorna.

Giorni dopo trova un foglio sotto la sua porta. La grafia è quella sua. «C’è un messaggio: chiamare Alëša all’Accademia. Per favore non mi coinvolgere in niente».