Capitolo undicesimo
Porta Bolívar a fare la solita passeggiata nel parco quando gli corre incontro un bambino che gli è sempre piaciuto, uno che abita in uno degli appartamenti sopra il suo – uno che va matto per il calcio ma è troppo piccolo per le partite. Si chiama Artemio, ma i compagni lo hanno ribattezzato El Perrito, il cucciolo.
– Señor, señor! – grida. – È vero che David sta morendo?
– No, assolutamente no. Mai sentita una simile scemenza. David è all’ospedale perché gli fanno male le ginocchia. Appena staranno meglio le sue ginocchia tornerà con noi a giocare a calcio. Vedrai.
– Allora non muore?
– Ma certo che no. Nessuno muore per il male alle ginocchia. Chi ti ha detto che stava morendo?
– Gli altri compagni. Quando torna?
– Te l’ho detto, appena starà di nuovo bene.
– Posso andare a trovarlo all’ospedale?
– L’ospedale è lontano. Bisogna prendere un autobus per arrivarci. Ti prometto che David tornerà presto. La prossima settimana o quella dopo ancora.
Lui cerca di cacciar via dalla mente l’incontro col piccolo Artemio e tuttavia il pensiero lo disturba. Da dove avranno pescato l’idea che David ha una malattia mortale quei ragazzini?
Quando arriva al reparto pediatrico, la mattina dopo, si ferma sulla porta. Un uomo con l’uniforme bianca degli inservienti dell’ospedale è seduto sul letto di David, la sua testa quasi tocca quella del bambino mentre guardano qualcosa sulla sovraccoperta fra di loro. Solo quando l’uomo solleva la testa lui capisce, ed è un colpo, che si tratta di Dmitri, l’uomo che ha ucciso, strangolato, l’insegnante di David, e che è stato condannato al carcere a vita – ora tornato come uno spirito maligno a perseguitare il bambino –, e i due stanno giocando a dadi!
Gli piomba addosso. – Lascia stare il mio bambino! – grida.
Sorridendo placido e rimettendosi in tasca i dadi, Dmitri indietreggia. Gli altri bambini del reparto sembrano sbigottiti; una comincia a frignare, e arriva di corsa un’infermiera.
– Che ci fa qui quest’uomo? – chiede lui, Simón. – Non sapete chi è?
– Si calmi, señor! – dice l’infermiera. – Quest’uomo è un inserviente. Pulisce le stanze.
– Un inserviente! È un detenuto per omicidio! Deve stare nel reparto psichiatrico! Com’è possibile che venga qui liberamente, tra i bambini?
La giovane infermiera indietreggia allarmata. – Ma davvero? – mormora mentre la piccola frigna sempre piú forte.
Adesso è Dmitri a parlare. – Ogni parola pronunciata da questo signore è vera, signorina, ogni parola. Ma consideri, prima di giudicare troppo in fretta. Perché crede che la legge, in tutta la sua saggezza, mi avrebbe affidato non a una delle sue tante prigioni ma a quest’ospedale? La risposta è ovvia. Ce l’abbiamo sotto il naso. Per aggiustarmi, per guarirmi. Perché a questo servono gli ospedali. E io sono guarito. Sono un uomo nuovo. Volete la prova? – Infila la mano nella tasca e tende un biglietto da visita. – Dmitri. È il mio nome.
L’infermiera lo esamina e poi glielo passa. Città di Estrella, Dipartimento di salute pubblica, legge. Dipendente n. 15726 M. Con una foto di Dmitri, testa e spalle, che guarda dritto nella macchina fotografica.
– Non ci credo, – mormora lui. – C’è qualcuno con cui posso parlare? Un responsabile?
– Puoi parlare con chi ti pare, – dice Dmitri, – ma io sono quello che sono. Come credi che un uomo si liberi del demone che per anni gli ha soffiato malvagi consigli all’orecchio? Stando isolato in una cella giorno e notte, cupo e depresso? No. La risposta è offrendosi volontario per i lavori piú umili, quelli che la gente perbene rifiuta. È per questo che sono qui. Lavo per terra. Pulisco i cessi. E cosí mi redimo. Divento un uomo nuovo. Pago il mio debito alla società. Mi guadagno il perdono.
Il vecchio Dmitri, il Dmitri che lui ricorda, era di struttura massiccia, sovrappeso. I capelli gli pendevano senza vita, i vestiti puzzavano di fumo. Il nuovo Dmitri è magro, sta dritto, se ha un odore è quello del disinfettante ospedaliero. Ha i corti ricci aderenti alla testa e il bianco degli occhi, un tempo giallastro, splende di salute. Davvero è diventato un uomo nuovo, si è redento? Cosí sembra. Eppure lui ne dubita profondamente.
L’infermiera prende in braccio la bambina che piange e cerca di confortarla.
Lui si rivolge a Dmitri. – E comunque stai lontano da David, – sibila. – Se ti ritrovo con lui non rispondo delle mie azioni.
Con un dolce, quasi sottomesso, cenno di assenso, Dmitri riprende il suo secchio e se ne va.
Dal suo letto David ha guardato la scena con un sorriso distratto – la scena di due uomini adulti che litigavano per lui.
– Perché sei infelice, Simón? Non sei contento che Dmitri mi abbia trovato? Lo sai come ha fatto? Ha sentito che lo chiamavo. Ha detto che mi ha sentito come una radio nella testa, che gli dicevo di venire.
– Questo è proprio il tipo di cosa che dice un pazzo… che sente le voci nella testa.
– Mi ha promesso di venirmi a trovare tutti i giorni. Dice che è guarito dalla pazzia e non ucciderà piú nessuno.
S’intromette la giovane infermiera. – Mi dispiace interrompere, señor, – dice, – ma è lei il padre di David?
– Sí, gli faccio da padre, al meglio delle mie possibilità.
– In tal caso, – continua la caposala (la targhetta sul camice dice Sister Rita), – può andare in Administración? È urgente.
– Vado tra un attimo, stia tranquilla, – e poi, quando lei non può sentirlo: – Ti piace Sister Rita? È buona con te?
– Tutti sono buoni con me. Vogliono che stia allegro. Pensano che sto per morire.
– Che scemenza è questa? – dice lui con decisione. – Nessuno muore per un’infiammazione alle ginocchia. Ma adesso vado a sentire che vogliono all’Administración. A tra poco.
Dei due sportelli dell’Administración sceglie quello servito dalla donna piú anziana e con l’aria piú gentile.
– Sono venuto per il bambino di nome David, – dice curvandosi per parlare dal buco nel vetro. – Mi dicono che c’è un problema urgente da risolvere.
La donna scartabella i fogli sul suo banco. – Sí, ho la sua cartella da qualche parte… Ecco. C’è da firmare il foglio del consenso, e quello dell’accettazione. Lei è il padre?
– No, ma faccio le veci del padre. Il padre è ignoto. È una storia lunga e complicata. Se è una firma che serve firmerò qualunque cosa mi dia da firmare.
– Mi serve il suo numero d’identità.
– Il suo numero d’identità, se ricordo bene, è 125711N.
– Quello è un numero di Novilla. Ho bisogno di quello di Estrella.
– Non possiamo usare quello di Novilla? Non vorrete rifiutare le cure a un bambino solo perché viene da Novilla…
– È per l’archivio, – dice la donna. – Quando ritorna, la prego, porti la sua tessera di Estrella col suo numero di Estrella.
– Certamente. Diceva che c’è un altro foglio.
– Il consenso. Va firmato dal genitore o dal tutore legale.
– Firmerò come tutore. Ho custodito David per quasi tutta la sua vita.
Lei controlla mentre lui firma. – È tutto, – dice. – Non dimentichi di portare la tessera.
Tornando al reparto, trova una tale calca di corpi attorno al letto che nascondono alla vista lo stesso David: non solo Sister Rita e l’insegnante dai ricci biondi e i lunghi orecchini, la señora Devito, ma anche una manciata di ragazzini del caseggiato oltre a due che riconosce dell’orfanotrofio: María Prudencia e un ragazzo molto alto e magro di cui non sa il nome. C’è anche Dmitri appoggiato alla parete in fondo, che lo guarda sardonico.
David parla: – Il cavallo bianco, Avorio, aveva un potere segreto: poteva farsi spuntare le ali quando voleva. Quando il carro fu sul punto di scendere nel fiume, Avorio spalancò le ali, piú grandi di quelle di due aquile, e il carro volò sull’acqua senza nemmeno bagnarsi.
Il cavallo scuro, Ombra, non aveva le ali ma aveva un potere segreto. Poteva trasformare la sua sostanza e diventare pesante come pietra. Ombra odiava Avorio. Era il contrario di tutto quello che era Avorio. Cosí quando sentí che il carro stava volando nell’aria si trasformò in pietra, talmente pesante che presto il carro dovette scendere a terra.
Allora Don Chisciotte fu trascinato sempre piú dentro il deserto dai due cavalli al galoppo, il nero e il bianco, fino a che non si levò un gran vento, e nuvole di sabbia li coprirono e loro non si videro piú.
Una lunga pausa. Il piccolo Artemio, quello che chiamano El Perrito, parla: – E poi?
– Non si videro piú, – ripete David.
– Ma il cavallo bianco e quello nero avevano litigato? – insiste il bambino.
– Non si videro piú, – gli sibila María Prudencia. – Non capisci?
– Ma lui ritorna, – dice il ragazzo alto dell’orfanotrofio. – Lui deve tornare dal deserto, sennò non sapremo mai come va a finire la storia. Non sapremo mai come è invecchiato e poi morto.
María tace.
– Lui non è morto, – dice Dmitri.
Tutti si voltano a guardarlo. Dmitri se ne sta tranquillo appoggiato al suo mocio, contento di aver suscitato l’attenzione.
– Quella della morte è solo una storia, – dice, – una storia scritta da qualcuno in un libro. Non è vera. È scomparso nella tempesta, sul suo cocchio, tirato da due cavalli, come ha detto David.
– Ma se, – ribatte il ragazzo alto, – se non è vero che è morto, se è solo una storia, allora come sappiamo che c’era la tempesta, come sappiamo che anche la tempesta non è una storia inventata?
– Perché David ce l’ha appena detto. Il cocchio, il deserto, la tempesta – tutto questo viene da David. Invece che invecchia e muore viene da un libro. Chiunque l’avrebbe potuto inventare. Non è vero, David?
Alla sua domanda David non risponde. Ha in faccia quel sorriso che lui, Simón, conosce fin troppo bene e che lo ha sempre tanto irritato.
Si sorprende a dire: – E se raccontassi tutta la storia di Don Chisciotte? Don Chisciotte è il titolo di un libro che ho trovato sullo scaffale di una biblioteca a Novilla dove noi – David, sua madre e io – vivevamo allora. Presi in prestito il libro per farlo leggere a David. Invece di restituirlo alla biblioteca come avrebbe fatto un bravo cittadino, David se l’è tenuto. Lo usava per fare esercizio di lettura in spagnolo perché, come tutti noi, doveva padroneggiare il suo ABC spagnolo. Lo lesse cosí tante volte che gli si depositò nella memoria. Don Chisciotte divenne parte di lui. E attraverso la sua voce il libro cominciò a parlare.
Dmitri lo interrompe. – Perché ci fai questo recital, Simón? A noi non interessa. Vogliamo sentire la storia di David, non la tua.
Dai bambini si leva un mormorio di approvazione.
– Molto bene, – dice lui, – mi ritiro. Taccio.
David riprende la sua storia. – Tutto intorno era buio. Poi in lontananza Don Chisciotte vide una luce. Quando si avvicinò vide che era un roveto ardente. Dal roveto uscí una voce. «È venuto il momento di scegliere, Don Chisciotte, – disse la voce. – Ti devi affidare al cavallo bianco, Avorio, o a quello scuro, Ombra».
«Andrò dove mi porta il cavallo scuro», disse Don Chisciotte coraggiosamente.
Subito caddero le sbarre della gabbia che lo rinchiudeva. Il cavallo bianco, Avorio, si liberò delle sue tirelle, dispiegò le ali, e volò in cielo, dove scomparve, mentre quello scuro, Ombra, rimase a tirare il cocchio.
Il bambino ammutolisce di nuovo, con una smorfia in volto.
– Che c’è, David? – chiede il piccolo Artemio, che sembra non aver paura di domandare.
David non gli dà retta.
– Ssh, – dice Sister Rita. – David è stanco. Venite via, bambini, David deve riposare.
I bambini la ignorano. David guarda in lontananza, sempre aggrottando la fronte.
– Gloria! – dice Dmitri. – Gloria, gloria, gloria!
– Che vuol dire, gloria? – chiede Artemio.
Dmitri, col mento appoggiato al mocio, divora David con lo sguardo.
C’è qualcosa – questo è chiaro per lui, Simón –, qualcosa tra Dmitri e David. Ma cosa? Forse Dmitri sta riprendendo l’ascendente che aveva anni prima sul bambino?
Con una fermezza che lo sorprende, Sister Rita spinge fisicamente via i bambini dal letto di David e tira le tende. – Oggi le storie finiscono qui, – dice brusca. – Se ne volete ancora tornate domani. Anche lei, señor Simón.