Capitolo decimo

Nel suo studio il dottor Ribeiro li fa sedere e li informa delle novità. I risultati dei primi esami indicano che David non ha una reazione allergica – quell’ipotesi adesso può essere scartata – ma ha la sindrome di Saporta, una neuropatia della varietà adinamica, cioè una patologia dei condotti neurali lungo i quali i segnali vengono inviati agli arti. Purtroppo non si sa molto sulle cause di quella sindrome. Si ritiene sia di origine genetica. Può rimanere a livello latente per anni prima di emergere in modo acuto, come è successo a David. Vuole sapere se David ha già accusato quei sintomi, o sintomi analoghi, in precedenza, fin da neonato: contrazioni muscolari involontarie, improvvise e inspiegabili fitte di dolore agli arti. Esiste una storia familiare di malattie neurologiche o paralisi da parte materna o paterna? E ha mai avuto bisogno di trasfusioni di sangue? Sanno che il suo è un gruppo sanguigno raro?

Risponde Inés: – David è stato adottato, è arrivato da noi tardi. Non conosciamo la sua storia familiare e non sappiamo niente del suo gruppo sanguigno. Non ha mai fatto analisi del sangue in precedenza.

– Dunque è stato adottato. Non avete modo di contattare i genitori?

– No.

Il dottor Ribeiro scrive qualcosa nel suo taccuino, poi continua. Al momento il lato sinistro di David è colpito piú gravemente del destro, ma la Saporta è progressiva e se non controllata può portare alla paralisi. Nel caso peggiore – il peggiore e il piú raro – si perde la capacità di ingoiare e di respirare, e il paziente muore. (Non usa la parola muore: il paziente perde le funzioni vitali, dice). Comunque, David è un giovane sano e forte; non c’è motivo di credere che non risponderà al trattamento.

Inés domanda: – Quanto tempo dovrà rimanere in ospedale?

Il dottor Ribeiro si batte la penna sul labbro inferiore. – Señora, faremo del nostro meglio per il bambino. Sorveglieremo la situazione da vicino e lui nel frattempo farà una regolare fisioterapia per mantenere il tono muscolare e contrastare gli effetti della prolungata degenza a letto.

Lui, Simón: – David ci ha parlato di una medicina che deve arrivare da Novilla.

– Siamo in contatto con i colleghi di Novilla. Sarò sincero. È un caso davvero insolito. Non abbiamo molta esperienza di casi di Saporta qui a Estrella. Sarebbe bene mandare il piccolo a Novilla, per le cure? Di sicuro là ci sono strutture migliori, quindi mandarlo a Novilla resta una possibilità. D’altra parte, la sua famiglia è qui – voi –, i suoi amici sono qui, il che dopotutto rende preferibile farlo rimanere qui. Per ora.

– E la medicina?

– Anche quella ha il suo potenziale. Stiamo adottando una risposta articolata al problema di David. Può darsi che debba stare qui per un bel po’. Per fortuna nella nostra squadra c’è una persona che si occupa dei giovani pazienti che perdono le lezioni. È una super energica, un vulcano, ve la farò conoscere.

– Spero che il vostro vulcano non abbia strane idee, – dice Inés. – David ha avuto fin troppi insegnanti con strane idee. Voglio che sia trattato come un bambino normale.

Il dottor Ribeiro le lancia un’occhiata perplessa. – David è un ragazzo in gamba, – dice. – Anche se non abbiamo avuto tempo di parlare abbastanza mi sono reso conto di quanto sia straordinario. Sono certo che andrà d’accordo con la señora Devito.

– David ha già sofferto troppo a essere trattato come un’eccezione, grazie, dottore. Normali lezioni scolastiche, è questo che vogliamo per lui. Se vuole essere un’eccezione, un artista o un ribelle, o quel che adesso va di moda, lo potrà fare in seguito, da grande.

La señora Devito è giovane e cosí piccola, cosí minuta, che arriva appena alle spalle di Inés. I ricci biondi formano come un’aureola intorno alla testa. Li riceve con grande cordialità nel minuscolo ufficio, poco piú che un armadio.

– Dunque siete i genitori di David! Lui mi ha detto di essere orfano ma si sa, i bambini a quell’età raccontano un sacco di storie. Avete visto il dottor Ribeiro, e dunque sapete che David forse dovrà restare con noi a lungo. È importante che mantenga la mente sveglia, come anche che non rimanga troppo indietro con la scuola, soprattutto per quel che riguarda le scienze e la matematica. È cosí facile restare indietro in matematica, e poi si rischia di non recuperare. Sarebbe molto utile se portaste i suoi libri di scuola.

Lui dà un’occhiata a Inés. – Non ci sono libri di scuola, – dice. – Non le starò a spiegare perché: è troppo complicato. Le dirò solo che, pur non essendo orfano, David ultimamente frequentava la scuola dell’orfanotrofio di Las Manos. E i responsabili di Las Manos non credono nella cultura libresca.

– La mia opinione – dice Inés – è che dovrebbe ricominciare la scuola dall’ABC e da uno-due-tre, dalla tabula rasa, come fosse ancora un infante. Avrebbe bisogno di esercitarsi sui rudimenti e allora il suo tempo in ospedale non sarà sprecato. Questo è il consiglio che le darei io, come madre.

Sono nel micro ufficio della señora Devito solo da pochi minuti, ma già non si respira, e a lui gira la testa. – Le dispiace se apro la porta? – dice, e la apre.

I ricci d’oro della señora Devito brillano sotto la luce. – Farò del mio meglio per vostro figlio, – dice. – Ma devo dirvi, perfino ora… – Si piega sulla sua piccola scrivania, dove non c’è altro che un uccellino di fil di ferro e perline posato su uno stecco, che punta loro addosso gli occhietti neri e brillanti. – Devo dirvi…

– Cosa ci deve dire? – chiede lui.

– Devo dirvi che in un momento difficile come questo… – Scuote la testa. – Certo che David ha bisogno del suo ABC e cosí via. Ma in un momento come questo un bambino ha bisogno di qualcosa di piú dell’ABC. Ha bisogno di un braccio su cui appoggiarsi.

Aspetta, guardandoli intenta, aspetta che le parole facciano il loro effetto.

È Inés a rispondere. – Señora, nella sua breve vita David ha avuto tante braccia su cui appoggiarsi, e le ha rifiutate tutte. Quello che non gli è stato dato è un’istruzione adeguata. È facile per una persona che non ha figli… lei non ha figli, vero?

– No.

– È facile per una persona come lei dirci di cosa ha bisogno o non ha bisogno David. Ma io lo conosco meglio di lei, e le dico che quello di cui ha bisogno è imparare le sue lezioni come ogni bambino normale. Tutto qui. Ho detto la mia –. Afferra la borsa e si alza. – Buon proseguimento.

Lui raggiunge Inés che percorre il corridoio a gran passi. È magnifica. Presuntuosa forse, pervicace forse, belligerante forse, ma comunque magnifica, lei, di cui ha capito subito, al solo vederla, che era la vera madre del ragazzo.

– Inés! – grida.

Lei si ferma, fa dietrofront e marcia su di lui. – Che c’è? – chiede. – In che modo pensi di sabotarmi adesso?

– Non penso di sabotarti. Al contrario, voglio dirti che sono al tuo fianco, assolutamente al tuo fianco. Dove decidi di andare, ti seguirò.

– Davvero? Sei sicuro di non volerti schierare con la bella fanciulla che hai adocchiato?

– È con te che mi schiero, a te che mi rimetto, e a nessun altro. Che cosa posso aggiungere?

Avvicinandosi al reparto pediatrico, sentono la voce di David, pacata, sicura. – Lui sapeva che era una gabbia e non un cocchio, ma permise al mago di rinchiuderlo comunque, – sta dicendo. – Perché sapeva che quando avesse voluto…

Lui e Inés si fermano sulla soglia. Appoggiata ai piedi del letto di David, ad ascoltarlo c’è una giovane donna pingue come una quaglia, con la divisa da infermiera. Intorno alla donna sono assiepati gli altri bambini del reparto.

– Sapeva che in qualsiasi momento avesse deciso di fuggire, sarebbe riuscito a farlo, perché non era ancora stato inventato il lucchetto capace di sconfiggerlo. Poi il mago fece schioccare la frusta, e i due grossi cavalli cominciarono a tirare il carro con la gabbia che rinchiudeva il nobile cavaliere. I cavalli erano Avorio e Ombra. Avorio era bianco e Ombra era nero, ma avevano la stessa forza, solo che Avorio era tranquillo, con la mente altrove, sempre intento a pensare, mentre Ombra era impetuoso e ribelle, cioè voleva andare dove gli pareva, cosicché il mago a volte doveva usare la frusta per farlo ubbidire. Ciao, Inés! Ciao, Simón! State ascoltando la mia storia?

La giovane infermiera salta su e, a testa bassa, con aria colpevole fila via sfiorandoli.

I bambini, tutti con i pigiami celesti dell’ospedale, non fanno caso a loro ma aspettano con impazienza che David ricominci. La piú piccola, una bambinetta con le treccine, di quattro o cinque anni al massimo; il piú grande un ragazzo robusto, già una peluria sul labbro.

– Cavalcarono, cavalcarono fino a che non giunsero al confine di una terra nuova e sconosciuta. «Qui ti abbandono, Don Chisciotte, – disse il mago. – Dopo comincia il regno del Principe Nero, dove perfino io ho paura di mettere piede. Lascerò che sia il cavallo bianco, Avorio, e quello scuro, Ombra, a condurti oltre nelle tue avventure». Quindi il mago fece schioccare di nuovo la frusta e i due cavalli partirono, trascinando Don Chisciotte dentro la sua gabbia nella terra sconosciuta.

David fa una pausa, guardando lontano.

– E? – pigola la bambinetta con le treccine.

– Domani vedrò di piú, e vi dirò cosa è successo dopo a Don Chisciotte.

– Ma non gli è successo niente di male, non è vero? – dice la bambinetta.

– Niente di male succede a Don Chisciotte perché è padrone del suo fato, – dice David.

– Meno male, – dice la bambinetta.