Capitolo diciannovesimo

Poiché l’ospedale ha i suoi criteri per stabilire chi vada contattato in caso di emergenza, lui e Inés non vengono chiamati al capezzale di David quando il suo battito cardiaco si fa irregolare e il respiro affannoso e i medici cominciano a prepararsi al peggio. Invece viene chiamato l’ufficio del dottor Fabricante all’orfanotrofio, e da lí la telefonata passa all’infermeria, a Sister Luisa. Sister Luisa sta assistendo un ragazzino con la tigna. Quando arriva all’ospedale, David è già stato dichiarato morto – la causa della morte ancora da accertare; la stanza dove è morto è chiusa fino a nuovo ordine (cosí dice l’avviso sulla porta), per tutti tranne che per il personale autorizzato.

A Sister Luisa viene richiesto di firmare una dichiarazione in cui accetta la responsabilità per le disposizioni funerarie. Lei rifiuta prudentemente di firmare senza aver prima parlato col suo direttore, il dottor Fabricante.

Quando lui, Simón, arriva nel pomeriggio, trova lo stesso avviso stampato: CHIUSO FINO A NUOVO ORDINE. Prova comunque ad aprire, ma la porta è chiusa. Chiede al banco delle informazioni: Dov’è mio figlio? La donna al banco sostiene di non saperlo. Lo avranno spostato: ed è tutto quello che è disposta a dire.

Lui torna nella stanza, prende a calci la porta fino a che non salta la serratura. Il letto è vuoto, la stanza è deserta, nell’aria c’è odore di disinfettante.

– Non è qui, – dice la voce di Dmitri dietro di lui. – E per di piú dovrai pagare per il danno alla porta.

– Lui dov’è?

– Lo vuoi vedere? Te lo faccio vedere.

Giú per una rampa di scale Dmitri lo conduce nel sotterraneo, poi lungo un corridoio ingombro di scatoloni e attrezzature non piú in uso. Dall’anello con le chiavi appeso alla cintura ne sceglie una e apre una porta con su scritto N-5. David giace nudo su un tavolo imbottito, il tipo di tavolo che si usa per stirare il bucato, sopra la testa ha il cordone di lucine festive che si accendono a intermittenza, rosse e blu, e ai piedi un mazzo di gigli. Le membra emaciate, con le articolazioni gonfie, sembrano meno grottesche in morte che in vita.

– Ho portato io le lucette, – dice Dmitri. – Mi sembrava il caso. I fiori vengono dall’orfanotrofio.

È come se gli avessero risucchiato l’aria dai polmoni. È una farsa, pensa, ma sente il panico dietro quel pensiero. Se recito anche io, pensa, se fingo che sia vero, allora finirà e David si tirerà su e sorriderà, e tutto tornerà com’era. Ma soprattutto, pensa, Inés non deve saperne niente, Inés dev’essere protetta, oppure sarà distrutta, distrutta!

– Leva le luci, – dice.

Dmitri non si muove.

– Com’è successo? – dice. Non c’è aria nella stanza, lui sente a malapena la sua stessa voce.

– Se n’è andato, come vedi, – dice Dmitri. – I suoi organi non potevano resistere piú a lungo, povero bambino. Ma in un senso piú profondo non se n’è andato. In un senso piú profondo è ancora qui con noi. È questo che credo. Sono sicuro che anche tu lo pensi.

– Non cercare di parlarmi di mio figlio, – bisbiglia.

– Non tuo figlio, Simón. Lui apparteneva a tutti noi.

– Vattene. Lasciami con lui.

– Questo non posso farlo, Simón. Devo chiudere. È la regola. Ma rimani quanto vuoi. Digli addio. Io aspetto.

Lui si costringe a guardare il cadavere: le membra sciupate, che già diventano blu alle estremità, le mani vuote, abbandonate, il sesso, mai usato, avvizzito, la faccia chiusa, come concentrata. Gli tocca la guancia, di un freddo innaturale. Gli preme le labbra sulla fronte, dopodiché, senza sapere come né perché, si ritrova per terra a quattro zampe.

Fa’ che tutto finisca, pensa. Fa’ che ora mi svegli e che tutto sia finito. Oppure che non mi svegli mai piú.

– Rimani quanto vuoi, – dice Dmitri. – È difficile, lo so.

Dall’atrio telefona a Modas Modernas. È Inocencia a rispondere. Lui non riconosce la sua voce, deve sforzarsi per farsi sentire. – Sono Simón, – dice. – Dica a Inés di venire all’ospedale. Le dica di venire subito. Le dica che l’aspetto nel parcheggio.

Dal suo volto, dalla sua postura, Inés capisce in un lampo quello che è successo. – No! – grida. – No, no, no! Perché non me l’hai detto?

– Stai calma, Inés. Sii forte. Dammi il braccio. Affrontiamolo insieme.

Dmitri si aggira per il corridoio e li tiene d’occhio. – Mi dispiace, – mormora. Inés rifiuta di registrarne la presenza. – Seguitemi, – dice Dmitri, e va avanti con decisione.

Le luci colorate non sono state tolte. Inés le lancia a terra insieme ai gigli: si sente uno scoppiettio quando si rompe una delle lampadine. Lei cerca di tirare su e prendere tra le braccia il bambino morto; ma la testa ciondola da una parte.

– Aspetterò fuori, – dice Dmitri. – Vi lascio al vostro dolore.

– Com’è successo? – dice Inés. – Perché non mi hai chiamato?

– Me lo hanno nascosto. Ce lo hanno nascosto. Credimi, ti ho telefonato appena l’ho scoperto.

– E allora era solo? – dice Inés. Lascia andare il corpo afflosciato sul tavolo, avvicina i piedi, gli mette le mani conserte. – Era solo solo? E tu dov’eri?

Dov’era lui? Non riesce a pensarci. Nel momento in cui il bambino rendeva l’anima lui era assente, distratto, forse profondamente addormentato?

– Ho chiesto di parlare al dottor Ribeiro, ma a quanto pare lui non è disponibile, – dice. – Nessuno è disponibile. Non vogliono affrontarci. Si nascondono, aspettano che ce ne andiamo.

Uscendo dal sotterraneo intravede di sfuggita la figura della señora Devito che si allontana. Istigato dalla rabbia la rincorre. – Señora! – grida. – Posso parlarle?

Lei finge di non sentire. Solo quando la prende per un braccio, si volta verso di lui con una smorfia. – Sí? Che c’è?

– Non so se è al corrente, señora, ma mio figlio è morto stamattina. Io e sua madre non eravamo con lui alla fine. Lui è morto da solo. Perché non eravamo lí, si chiederà. Perché non siamo stati chiamati.

– Sí? Non è responsabilità mia chiamare i familiari.

– No, non è responsabilità sua. Niente è responsabilità sua. Il suo amico Dmitri chiude il povero piccolo lontano da noi ma nemmeno quella è responsabilità sua. E però lei lo ha portato fuori al freddo l’altra sera, perché non perdesse una lezione di astronomia, pensi un po’. Perché? Perché ha ritenuto sua responsabilità insegnare a un bambino malato gli stupidi nomi delle stelle?

– Si calmi, señor! David non è morto per una ventata di aria fredda. Lei e sua moglie, in compenso, lo avete sottratto con la forza alle nostre cure, contro la sua volontà e contro il nostro parere. Di chi è la colpa di quello che è successo?

– Contro la sua volontà? David voleva disperatamente sfuggire alle vostre grinfie e tornare a casa.

– Si sieda, señor. E mi ascolti. Adesso è ora che stia a sentire la mia verità, per quanto sgradevole possa essere. Conoscevo David. Ero la sua insegnante e la sua amica. Lui si fidava di me. Abbiamo passato ore insieme, e lui si è aperto con me. David era un bambino fortemente combattuto. Lui non voleva tornare a quella che lei definisce casa sua. Al contrario, voleva liberarsi di lei e di sua moglie. Si lamentava in particolare del fatto che lei lo soffocava, che non voleva lasciarlo crescere e diventare la persona che lui voleva essere. Se non gliel’ha detto in faccia è perché non voleva ferirla. Dovremmo sorprenderci se questo tormento interiore ha finito per manifestarsi anche a livello fisico? No. Il dolore e le contorsioni del suo corpo esprimevano il dilemma che doveva affrontare, un dilemma che lui trovava letteralmente intollerabile.

– Che scemenze! Lei non è mai stata amica di David! Sopportava le sue lezioni solo perché era inchiodato al letto, e gli era impossibile scappare. E quanto alla sua diagnosi della malattia, è semplicemente ridicola.

– Non è solo la mia diagnosi. Su mio consiglio, David ha fatto una serie di incontri con uno specialista di psichiatria, e ne avrebbe fatti altri se la sua condizione non fosse peggiorata. Quello specialista sostiene fino in fondo la mia interpretazione di David. Quanto all’astronomia, è il mio lavoro mantenere vivi gli interessi intellettuali dei nostri ragazzi. David e io spesso abbiamo scambiato le nostre idee su stelle, comete e cosí via.

– Scambiato idee! Lei si faceva beffe delle sue storie sulle stelle e le chiamava extravagantes. Gli ha detto che le stelle non hanno niente a che fare con i numeri, sono solo ammassi di roccia che galleggiano nello spazio. Che razza di insegnante è, lei che distrugge le illusioni di un bambino a quel modo?

– Le stelle in effetti sono ammassi di rocce, señor. I numeri, viceversa, sono un’invenzione umana. I numeri non hanno niente a che fare con le stelle. Niente. Abbiamo creato i numeri dal nulla per usarli quando calcoliamo pesi e misure. Ma tutto questo non c’entra. David mi ha raccontato le sue storie e io gli ho raccontato le mie. Le sue storie, che gli erano state evidentemente inculcate all’accademia musicale, mi sembravano astratte ed esangui. Le storie che gli ho raccontato io erano piú adatte all’immaginazione infantile.

Señor Simón, lei ha attraversato un momento difficile. Mi rendo conto che è stravolto. Anche io lo sono. La morte di un bambino è una cosa terribile. Riprendiamo questa conversazione quando saremo piú capaci di dominare i nostri sentimenti.

– No, al contrario, señora, concludiamo questa conversazione ora che non dominiamo i nostri sentimenti. David sapeva che stava morendo e trovava conforto nella convinzione che dopo la morte sarebbe stato portato nei cieli, tra le stelle. Perché disilluderlo? Perché dirgli che la sua fede era stravagante? Non crede nella vita a venire?

– Sí. Sí. Ma la vita a venire sarà qui sulla terra, non fra le morte stelle. Moriremo, tutti noi, e ci disintegreremo, e diventeremo la materia da cui sorgerà una nuova generazione. Ci sarà un’altra vita dopo questa ma io, l’entità che chiamo io, non sarà qui a viverla. E nemmeno lei, e nemmeno David. Adesso, per favore, mi lasci andare.