Capitolo quarto

Il venerdí di quella settimana, di punto in bianco, David fa la sua comunicazione: – Inés, domani vado a giocare al calcio vero. Tu e Simón dovete venire a guardare.

– Domani? Non posso venire domani, caro. Il sabato è un giorno di gran lavoro al negozio.

– Giocherò con una vera squadra. Col numero 9. E con una maglietta bianca. Devi farmi il numero 9 e cucirlo sulla schiena.

Uno dopo l’altro emergono i particolari della nuova era, l’era del calcio, quello vero. Alle nove del mattino un pulmino verrà a prendere i bambini del caseggiato. I bambini dovranno avere le magliette bianche con i numeri neri da uno a undici sulla schiena. Alle dieci in punto, con il nome di Las Panteras, correranno sul campo per l’incontro con Los Halcones, la squadra dell’orfanotrofio.

– Chi ha selezionato la tua squadra? – chiede lui.

– Io.

– Allora sei tu il capitano, il capo?

– Sí.

– E chi ti ha eletto capitano?

– Tutti gli altri. Loro vogliono che sia io il capitano. Ho assegnato io i numeri.

Il giorno dopo il pulmino dell’orfanotrofio arriva, puntuale: alla guida c’è un uomo taciturno con una tuta blu. Non tutti i bambini sono pronti – devono mandarne a chiamare uno, Carlitos, che non si è svegliato in tempo – e non tutti portano le magliette bianche con i numeri neri come gli hanno detto di fare; e poi non tutti hanno veri scarpini da pallone. Comunque, grazie all’abilità nel cucito di Inés, David ha un elegante numero 9 sulla maglietta e ha tutta l’aria del capitano.

Lui e Inés li salutano, poi li seguono in macchina: l’idea di suo figlio leader di una squadra di calcio evidentemente ha la meglio sugli affari del negozio.

L’orfanotrofio è laggiú lungo il fiume, in una parte della città che non ha mai avuto motivo di esplorare. Seguono il pulmino oltre il ponte, attraverso un quartiere industriale, poi lungo una strada stretta e malandata fra un magazzino e un deposito di legname, per emergere in un luogo sorprendentemente gradevole sul fiume: una serie di bassi edifici di arenaria all’ombra degli alberi, con campi sportivi dove si aggirano ragazzini di ogni età con la bella uniforme blu dell’orfanotrofio.

Soffia una brezza pungente. Inés è protetta da una giacca col collo alto; lui, meno previdente, ha solo un maglione.

– Quello è il dottor Fabricante, – dice indicando, – quello con la camicia e i pantaloncini neri. A quanto pare sarà lui l’arbitro.

Il dottor Fabricante fischia, un fischio imperioso dopo l’altro, e agita le braccia. La calca di ragazzini corre via per il campo e le due squadre si allineano dietro di lui, gli orfani con le loro linde magliette blu scuro, i pantaloncini bianchi, le scarpe nere, i bambini del caseggiato con le loro scarpe e i loro indumenti spaiati.

Lui è immediatamente colpito dalla disparità delle due squadre. I ragazzini in blu sono, semplicemente, molto piú grandi. Tra di loro c’è perfino una femmina che lui riconosce, dalle cosce robuste e dal seno prosperoso, come María Prudencia. Ci sono anche ragazzi dall’aspetto decisamente adolescenziale. In confronto gli ospiti sembrano piccoletti.

Fin dal calcio di inizio le giovani panteras si tirano indietro, riluttanti alla mischia con i loro piú pesanti rivali. In un batter d’occhio la squadra in blu si è fatta avanti e ha segnato il primo gol, presto seguito da un altro.

Lui si rivolge a Inés, irritato. – Questa non è una partita di calcio, è una strage degli innocenti!

La palla finisce ai piedi di uno dei ragazzini della squadra di David. Che la tira alla cieca. Due dei suoi compagni la inseguono, ma viene intercettata da María Prudencia, che sovrasta la palla, sfidandoli a portargliela via. Loro si paralizzano. Sprezzante, lei la calcia di piatto a un compagno di squadra.

Le tattiche praticate dagli orfani sono semplici ma efficaci: portano continuamente la palla a fondocampo, facendosi largo tra gli avversari a spallate fino a che non riescono a tirarla in porta oltre il povero portiere. Quando il dottor Fabricante fischia per annunciare la fine del primo tempo sono 10-0. Tremando per il vento pungente, i bambini del caseggiato si assiepano insieme e aspettano che il macello ricominci.

Il dottor Fabricante segnala la ripresa del gioco. La palla rimbalza su qualcuno e finisce a David. Con la palla al piede lui avanza come un fantasma dribblando un primo avversario, poi un secondo, un terzo, e segna.

Un minuto dopo la palla gli viene nuovamente passata. Aggira gli avversari con naturalezza; ma poi, invece di tirare in porta, la passa a un compagno di squadra e lo guarda mentre quello la calcia sopra la traversa.

La partita finisce. Sconfortati, i ragazzini del caseggiato escono trascinando i piedi, mentre i vincitori sono circondati da una folla festante.

Il dottor Fabricante li raggiunge a gran passi. – Spero che la partita vi sia piaciuta. È stata un po’ sbilanciata… mi dispiace. Ma è importante che i nostri ragazzi si misurino contro il mondo esterno. Importante per la loro autostima.

– I nostri ragazzi non sono il mondo esterno, – risponde lui, Simón. – Sono solo ragazzini ai quali piace dare qualche calcio al pallone. Se davvero vuole mettere alla prova la sua squadra, dovrebbe farlo contro avversari piú forti. Non ti pare, Inés?

Inés annuisce.

È abbastanza irritato da non preoccuparsi se il dottor Fabricante si offende. Ma no, Fabricante ignora il rimprovero. – Vincere o perdere non è tutto, – dice. – Quel che conta è che i ragazzi partecipino, si sforzino, diano il meglio. Comunque in qualche caso vincere diventa un fattore importante. E il nostro è un caso di quel tipo. Perché? Perché i nostri ragazzi partono da una posizione di svantaggio. Hanno bisogno di dimostrare a se stessi che possono competere con quelli di fuori – competere e vincere. Di certo questo lo capisce.

Lui non lo capisce per niente; ma non vuole mettersi a litigare. Non gli piace il dottor Fabricante, educador; spera di non vederlo mai piú. – Sto congelando, – dice, – e sono certo che anche i bambini stiano congelando. Dov’è finito l’autista?

– Sarà qui tra un attimo, – dice il dottor Fabricante. Poi tace, quindi si rivolge a Inés: – Señora, posso parlarle un momento in privato?

Lui, Simón, si allontana. I ragazzini dell’orfanotrofio hanno occupato il campo con i loro vari giochi e ignorano gli ospiti sgominati che aspettano tristemente l’arrivo del pulmino che li riporterà a casa.

Il pulmino arriva, Las Panteras si arrampicano dentro e stanno per partire quando Inés bussa perentoriamente sul finestrino: – David, tu vieni con noi.

David, riluttante, si tira fuori dal pulmino. – Non posso andare con gli altri? – dice.

– No, – dice Inés arcigna.

Durante il rientro, in macchina, la causa del suo malumore si rivela. – È vero – chiede – che hai detto al dottor Fabricante che vuoi andare via da casa e vivere all’orfanotrofio?

– Sí.

– Perché lo hai detto?

– Perché sono un orfano. Perché tu e Simón non siete i miei veri genitori.

– Questo gli hai detto?

– Sí.

Lui, Simón, interviene. – Non farti fregare, Inés. Nessuno prenderà sul serio le storie di David, e tanto meno un uomo che dirige un orfanotrofio.

– Voglio giocare nella loro squadra, – dice il ragazzino.

– Vuoi andartene di casa per il calcio? Per giocare nella squadra dell’orfanotrofio? Perché ti vergogni della tua squadra, dei tuoi amici? È questo che ci stai dicendo?

– Il dottor Julio dice che posso giocare nella sua squadra, ma per questo devo essere un orfano. È la regola.

– E tu hai detto, Benissimo, ripudierò i miei genitori e sosterrò di essere orfano, tutto questo per il calcio?

– No, non ho detto questo. Ho detto, Perché è la regola? E lui ha risposto, Perché sí.

– È tutto quello che ha detto lui: Perché sí?

– Ha detto che se non ci fosse stata una regola tutti avrebbero voluto giocare nella loro squadra, perché sono cosí bravi.

– Loro non sono bravi, sono solo grandi e grossi. Che altro ha detto il dottor Fabricante?

– Io sono un’eccezione, ho detto. E lui ha detto, se tutti sono un’eccezione le regole non funzionano. Lui ha detto, la vita è una partita di calcio, devi seguire le regole. Lui è come te. Non capisce niente.

– Bene, se il dottor Fabricante non capisce niente e la sua squadra è solo un mucchio di bulli, perché vuoi andare via e vivere con lui all’orfanotrofio? Solo per giocare con una squadra di calcio vincente?

– Che c’è di male a vincere?

– Non c’è niente di male a vincere. E nemmeno a perdere. Anzi, in generale, direi che è meglio stare con i perdenti che con quelli che vogliono vincere a tutti i costi.

– Io voglio essere uno che vince. Voglio vincere a tutti i costi.

– Sei un bambino. La tua esperienza è limitata. Non hai visto cosa succede alla gente che vuole vincere a tutti i costi. Perlopiú si trasformano in teppisti e in tiranni.

– Non è giusto! Quando dico qualcosa che non ti piace mi dici che sono un bambino, per cui quello che dico non vale. Vale solo se sono d’accordo con te. Perché devo sempre essere d’accordo con te? Io non voglio parlare come te e non voglio essere come te! Voglio essere quello che voglio essere io!

Che cosa c’è dietro questa scenata? Che cosa ha detto Fabricante al ragazzino? Lui cerca gli occhi di Inés, ma lei fissa la strada.

– Ancora non ci hai risposto, – dice lui. – A parte il calcio, perché vuoi andare all’orfanotrofio?

– Non mi stai mai a sentire, – dice il bambino. – Non stai a sentire e cosí non capisci. Non c’è un perché.

– Cosí il dottor Fabricante non capisce e io non capisco e non c’è un perché. Chi altro c’è, a parte te, che capisce? Inés capisce? Tu capisci, Inés?

Inés non risponde. Non lo aiuta.

– Secondo me, giovanotto, sei tu quello che non capisce, – insiste lui. – Finora hai avuto una vita molto facile. Tua madre e io ti abbiamo assecondato come nessun bambino normale viene assecondato, perché ci rendiamo conto che sei eccezionale. Ma io comincio a chiedermi se capisci cosa vuol dire essere eccezionale. Contrariamente a quanto immagini, non vuol dire che sei libero di fare come ti pare. Non vuol dire che puoi ignorare le regole. Ti piace giocare a calcio, ma se ignori le regole del calcio, l’arbitro ti espelle, e giustamente. Nessuno è al di sopra della legge. Non si può essere al di sopra di ogni regola. Un’eccezione universale è una contraddizione in termini. Non ha senso.

– Ho detto al dottor Julio di te e di Inés. Lui sa che non siete i miei veri genitori.

– Quello che dici al dottor Julio non ha importanza. Il dottor Julio non ti può portare via da noi. Non ha quel potere.

– Lui dice che se qualcuno mi fa del male, mi può dare rifugio. Il male è un’eccezione. Se la gente ti fa del male, puoi trovare rifugio nel suo orfanotrofio, chiunque tu sia.

– Che vuol dire? – interviene Inés, per la prima volta. – Chi è che ti ha fatto del male?

– Il dottor Julio dice che il suo orfanotrofio è un’isola in cui rifugiarsi. Chiunque sia una vittima può andare lí e lui lo proteggerà.

– Chi è che ti ha fatto del male? – chiede Inés di nuovo.

Il bambino tace.

Inés rallenta, e ferma la macchina sul ciglio della strada.

– Rispondimi, David, – dice. – Hai detto al dottor Julio che ti abbiamo fatto del male?

– Non sono obbligato a rispondere. Un bambino non è obbligato a rispondere.

Lui, Simón, parla. – Sono confuso. Hai detto o non hai detto al dottor Julio che Inés e io ti facciamo del male?

– Non sono obbligato a dirlo.

– Non capisco. Non sei obbligato a dirlo a me o al dottor Julio?

– Non sono obbligato a dirlo a nessuno. Posso andare nel suo orfanotrofio e lui mi darà rifugio. Non devo dire perché. Questa è la sua filosofia. Non c’è un perché.

– La sua filosofia! Sai cosa significano le parole, cosas malas, il male di cui parli, cosa comportano, o ti limiti a raccoglierle come sassi e le lanci intorno a te per ferire le persone?

– Non sono obbligato a dirlo. Lo sai.

Inés lo interrompe di nuovo. – Che cos’è che Simón sa, David? Simón ti ha fatto qualcosa?

È come se gli avessero dato un colpo. All’improvviso tra lui e Inés si è aperta una crepa.

– Fai inversione, Inés, – dice. – Dobbiamo affrontare quell’uomo. Non possiamo permettergli di versare veleno nelle orecchie del bambino.

Inés riprende. – Rispondimi, David. Questo è un discorso serio. Simón ti ha fatto qualcosa?

– No.

– No? Non ti ha fatto niente? Allora perché lanci queste accuse?

– Io non spiego. Un bambino non deve spiegare niente. Voi volete che segua le regole. Questa è la regola.

– Se Simón scende dalla macchina, me lo dirai?

Il ragazzino non risponde. Lui, Simón, scende dalla macchina. Sono arrivati al ponte che collega il quartiere sudest della città con il quartiere sudovest. Lui si sporge dal parapetto sul fiume. Un airone solitario, appollaiato su una roccia lí sotto, lo ignora. Che mattinata! Prima la farsa di una partita di pallone, adesso questa accusa sconsiderata e devastante del bambino. Non sono obbligato a dirti quello che hai fatto. Lo sai. Che cosa ha fatto? Non ha mai messo un dito impuro sul ragazzino, mai ha fatto un pensiero impuro.

Bussa sulla macchina. Inés tira giú il finestrino. – Possiamo tornare all’orfanotrofio? – dice lui. – Devo parlare a quell’uomo odioso.

– Stiamo facendo una chiacchierata, io e David, – dice Inés. – Ti farò sapere quando abbiamo finito.

L’airone è volato via. Lui scende giú per la scarpata, si inginocchia, beve.

Poi da sopra il ponte David lo chiama agitando la mano: – Simón, che stai facendo?

– Bevo un po’ d’acqua –. Risale. – David, – dice, – tu sai bene che non è vero. Come puoi credere che potrei farti del male?

– Le cose non devono essere vere per essere vere. Tu non sai dire altro che: È vero? È vero? È per questo che non ti piace Don Chisciotte. Perché pensi che non è vero.

– A me piace Don Chisciotte. Mi piace anche se non è vero. Solo non mi piace nello stesso modo in cui piace a te. Ma che c’entra Don Chisciotte con tutto questo… questo casino?

Il bambino non risponde, ma gli lancia un’occhiata divertita, insolente.

Lui torna alla macchina, parla con Inés nel modo piú calmo possibile. – Prima di fare una qualsiasi cosa avventata, rifletti su quello che hai sentito. David dice che, poiché è un bambino, non deve seguire gli stessi standard di sincerità che seguono gli altri. Perciò è libero di inventarsi storie – su di me e su chiunque altro al mondo. Pensaci. Pensaci e stai attenta. Domani inventerà storie su di te.

Inés guarda davanti a sé. – Cosa vuoi che faccia? – dice. – Ho buttato via l’intera mattinata per assistere a una partita di calcio. Ho da fare al negozio. David ha bisogno di un bagno caldo e di vestiti puliti. Se vuoi che ti riporti all’orfanotrofio per un faccia a faccia con il dottor Fabricante, dimmelo. Ma in quel caso dovrai arrangiarti da solo per ritornare. Io non ti aspetto. Quindi dimmi che vuoi fare.

Lui riflette. – Andiamo a casa, – dice. – Lunedí andrò a far visita al dottor Fabricante.