Capitolo diciassettesimo

I giorni passano senza che David migliori. I farmaci che prende per alleviare il dolore gli hanno tolto anche l’appetito; sembra piú emaciato che mai; e lamenta mal di testa.

Una sera, mentre lui e Inés sono insieme al capezzale del bambino, arriva la señora Devito, seguita da Dmitri che spinge una sedia a rotelle. – Vieni, David, – dice la giovane insegnante. – È ora della lezione di astronomia di cui abbiamo parlato. Non sei contento? Il cielo è chiaro e limpido per noi.

– Devo prima andare in bagno.

Lui aiuta il bambino ad arrivare in bagno e lo sorregge mentre fa un filo di urina giallo scuro per via dei farmaci.

– David, sei sicuro di voler sentire questa lezione? Non devi ubbidire alla señora Devito, lo sai. Lei non è un medico. Puoi rimandare a un altro giorno, se non hai voglia.

Il ragazzino scuote la testa. – Ci devo andare. La señora Devito non crede a niente di quello che le dico. Le ho detto delle stelle scure, che non sono numeri, e lei ha detto che non esistono cose cosí, che me le invento. Lei ha una mappa delle stelle e dice che se una stella non è nella sua mappa è extravagante. Dice che anche io sono extravagante quando parlo delle stelle. Dice che devo smettere.

– Che cosa devi smettere?

– Di essere extravagante.

– Non vedo perché dovresti smettere. Al contrario, penso che tu debba essere extravagante quanto vuoi. A me non hai mai parlato delle stelle scure. Cosa sono?

– Le stelle scure sono stelle che non sono numeri. Quelle che sono numeri risplendono. Quelle scure vogliono essere numeri ma non possono. Brulicano come formiche per tutto il cielo ma non le puoi vedere perché sono scure. Adesso andiamo?

– Aspetta. Questo è interessante. Cos’altro hai detto alla señora che lei trova troppo extravagante per crederci?

Malgrado sia sfinito, il bambino sembra rianimarsi quando parla dei corpi celesti. – Le ho detto delle stelle che risplendono, quelle che sono numeri. Le ho detto perché brillano. È perché ruotano. È cosí che producono la musica. E le ho detto delle stelle gemelle. Volevo dirle tutto, ma lei ha detto che dovevo smettere.

– Che cosa sono le stelle gemelle?

– Te l’ho detto l’altro giorno ma tu non mi stavi a sentire. Ogni stella ha la sua gemella. Una ruota in una direzione e l’altra in quella opposta. Non si devono toccare, altrimenti scompaiono e non rimane niente, solo il vuoto, allora rimangono lontane una dall’altra in angoli diversi del cielo.

– Ma è affascinante! Perché pensi che la señora definisca questa cosa stravagante?

– Dice che le stelle sono fatte di roccia, perciò non possono brillare ma solo riflettere. Poi dice che le stelle non possono essere numeri per via della matematica. Dice che se ogni stella fosse un numero l’universo sarebbe pieno di rocce e non ci sarebbe posto per noi che non riusciremmo a respirare.

– E tu cosa le hai risposto?

– Dice che non possiamo andare a vivere sulle stelle perché là non c’è da mangiare né da bere, e le stelle sono morte, sono solo pezzi di roccia che galleggiano in cielo.

– Se pensa che le stelle siano solo pezzi di morta roccia, perché ti vuole portare fuori di notte a guardarle?

– Mi vuole raccontare delle storie sulle stelle. Pensa che io sia un bambino piccolo che capisce solo le favole. Adesso andiamo?

Ritornano. Dmitri tira su il bambino e lo mette sulla sedia a rotelle che spinge lungo il corridoio. – Venite! – dice l’insegnante. Lui e Inés la seguono nel corridoio e fuori attraverso il campo, con il cane alle calcagna.

Il sole è tramontato, cominciano a spuntare le stelle.

– Cominciamo da là, dall’orizzonte orientale, – dice la señora Devito. – Vedi quella grande stella rossa, David? Quella è Ira, che prende il nome dall’antica dea della fertilità. Quando Ira riluce come un carbone ardente, vuol dire che sta per piovere. E hai notato quelle sette stelle brillanti a sinistra e le quattro piccole stelle in mezzo? Come le vedi? Che immagine vedi in cielo?

Il ragazzino scuote la testa.

– Quella è la costellazione di Urubú Mayor, il grande avvoltoio. Vedi come apre le ali, sempre piú larghe mentre fa notte? E vedi il becco, lí? Ogni mese, quando la luna si rabbuia, Urubú ingoia tutte le piccole stelle che riesce a catturare. Ma quando la luna si fa di nuovo piú forte, gliele fa vomitare. E cosí è stato, un mese dopo l’altro, dal principio dei tempi.

El Urubú è una delle dodici costellazioni nel cielo notturno. Lassú, piú vicino all’orizzonte, ci sono Los Gemelos, i Gemelli, e laggiú c’è El Trono, il Trono, con le sue quattro zampe e la sua alta spalliera. Alcuni pensano che le costellazioni governino il nostro destino, a seconda di dove si trovano nel cielo nel momento in cui mettiamo piede su questa terra. Cosí per esempio, se arrivi sotto il segno dei Gemelli, la storia della tua vita sarà quella della ricerca del tuo gemello, dell’altro a te destinato. E se arrivi sotto il segno della Pizarra, della Lavagna, il tuo compito nella vita sarà quello di insegnare. Io sono arrivata sotto La Pizarra. Forse è per questo che sono diventata insegnante.

– Io stavo per diventare insegnante prima di cominciare a morire, – dice il bambino. – Ma non sono arrivato sotto nessun segno.

– Tutti arriviamo sotto un segno. In ogni momento del tempo una qualche costellazione regna nel cielo. Nello spazio ci possono essere dei vuoti ma non nel tempo: è una delle regole dell’universo.

– Io non devo essere nell’universo. Posso essere un’eccezione.

Dmitri è rimasto zitto dietro la sedia a rotelle. E adesso parla. – L’avevo avvertita, señorita: il giovane David non è come noi. Lui viene da un altro mondo, forse anche da un’altra stella.

La señora Devito ride allegramente. – Dimenticavo! Dimenticavo! David è il nostro visitor, il nostro visitor visibile da una stella invisibile!

– Forse non ci sono dodici costellazioni in cielo, – dice il bambino ignorando la battuta. – Forse ce n’è una sola ma non si vede perché è troppo grande.

– Però tu la vedi, non è vero? – dice Dmitri. – Anche se è troppo grande, tu la riesci a vedere.

– Sí, io la vedo.

– E come si chiama, piccolo maestro? Qual è il nome di questa costellazione?

– Non ha un nome. Il suo nome deve ancora venire.

Lui, Simón, lancia uno sguardo furtivo a Inés. Lei ha le labbra strette, la fronte aggrottata di disapprovazione, ma non dice una parola.

– Gli uccelli hanno le loro mappe del cielo con le loro costellazioni, – dice la señora Devito. – Usano le loro costellazioni per navigare. Viaggiano per distanze immense sopra mari tutti uguali, eppure sanno sempre dove sono. Ti piacerebbe essere un uccello, David?

Il ragazzino tace.

– Se avessi le ali non dovresti piú contare sulle tue gambe. Non saresti schiavo della terra. Saresti libero. Un essere libero. Non ti piacerebbe?

– Ho freddo, – dice il bambino.

Dmitri si toglie la giacca della divisa e la avvolge attorno al bambino. Anche nella tenue luce si vede la folta peluria scura che gli ricopre il petto e le spalle.

– E allora che mi dici dei numeri, David? – chiede la señora Devito. – Ricordi, l’altro giorno, quando abbiamo parlato di numeri, ci dicevi che le stelle sono numeri, ma noi non abbiamo capito bene. Non abbiamo capito, non è vero, Dmitri?

– Ci siamo sforzati ma non abbiamo capito, era troppo per le nostre menti, – dice Dmitri.

– Dicci che numeri vedi guardando le stelle, – dice la señora Devito. – Quando guardi Ira, la stella rossa, per esempio, qual è il numero che ti spunta in mente?

Per lui, Simón, è venuto il momento di intervenire. Ma prima che possa aprire bocca Inés si fa avanti. – Pensa che non abbia capito, señora? – sibila. – Lei fa la faccina dolce e finge di essere ignara ma tutto il tempo ride di nostro figlio, lei e quell’uomo –. E strappa dalle spalle del bambino la giacca di Dmitri, lanciandola lontano. – Vergogna! – E con Bolívar al fianco va via come una furia spingendo la sedia a rotelle per il campo accidentato. Alla luce della luna lui coglie per un momento il volto del ragazzino. Gli occhi chiusi, i tratti rilassati, un sorriso appagato sulle labbra. Sembra un neonato al seno della mamma.

Lui dovrebbe seguirli, ma non resiste e a sua volta dà in escandescenze. – Perché prenderlo in giro, señora? – chiede. – Anche tu, Dmitri. Perché chiamarlo piccolo maestro e gridare Gloria! dietro di lui? Vi divertite a prendere in giro un bambino? Non avete sentimenti umani?

È Dmitri a rispondere. – Ah, ma tu non mi capisci, Simón! Perché dovrei prendere in giro il piccolo David se è solo lui a potermi salvare da questo buco infernale? Io lo chiamo mio maestro perché è il mio maestro, e io sono il suo umile servo. È semplice. E poi, che dire di te? Non è forse anche il tuo maestro, e non sei anche tu, a tuo modo, un po’ in un buco infernale, a chiedere di essere salvato? O hai deciso di chiudere la bocca e pedalare su quella tua bicicletta in questa città dimenticata da Dio fino al giorno in cui ti potrai ritirare in una casa di riposo col tuo certificato di buona condotta e la tua medaglia di onorato servizio? Vivere una vita irreprensibile non ti salverà, Simón! Quello di cui hai bisogno, quello di cui ho bisogno io, quello di cui ha bisogno Estrella, è che venga qualcuno a scuoterci con una nuova visione. Non sei d’accordo, amore?

– Quello che dice è vero, Simón, – dice la señora Devito. Raccoglie la giacca di Dmitri da dove l’ha lanciata Inés («Mettila, amor, o prenderai freddo!») – Posso garantirlo. Dmitri è il piú sincero seguace di David nel mondo intero. Lo ama con tutto il cuore, con tutta l’anima.

Si direbbe sincera, ma perché mai dovrebbe crederle? Lei può sostenere che il cuore di Dmitri appartiene a David, ma il suo cuore gli dice che Dmitri è un bugiardo. A quale cuore deve credere: a quello di Dmitri, l’assassino, o a quello di Simón el Lerdo, Simón l’Ottuso? Chi può dirlo? Senza una parola torna incespicando verso le luci dell’ospedale, dove Inés nel frattempo ha messo a letto il bambino avvolto nelle coperte ed è intenta a sfregargli i piedi ghiacciati tra le mani.

– Per favore, vedi che quella donna non abbia piú nessun contatto con David, – ordina. – Altrimenti lo portiamo via dall’ospedale.

– Perché hai detto che rideva di me? – chiede il ragazzino. – Io non l’ho vista ridere.

– No, non potevi vederla. Ridono di te di nascosto, tutti e due.

– Ma perché?

– Perché? Perché? Non lo chiedere a me, piccolo! Perché tu dici cose strane! Perché loro sono scemi!

– Mi puoi portare a casa ora.

– Mi stai dicendo che vuoi tornare a casa?

– Sí. Anche Bolívar. A Bolívar non piace questo posto.

– Allora andiamocene subito. Simón, avvolgilo in una coperta.

Ma la loro partenza viene bloccata dalla señora Devito, con Dmitri al fianco. – Che succede qui? – chiede la donna aggrottando la fronte.

– Simón e Inés mi portano via, – dice David. – Mi faranno morire a casa.

– Tu sei un paziente ricoverato qui. Non puoi andare via senza il consenso di un medico.

– Allora chiami un medico! – dice Inés. – Subito!

– Chiamerò il medico di guardia. Ma l’avverto: sta a lui e a lui solo dire se David può andare via.

– Sei sicuro di volerci lasciare, giovanotto? – dice Dmitri. – Saremo disperati senza di te. Hai portato la vita in questo posto triste. E pensa ai tuoi amici. Quando arrivano domani credendo di vederti e di sedersi ai tuoi piedi, e invece trovano la tua stanza vuota e tu non ci sei piú. Che cosa gli dirò? Il piccolo maestro è scappato? Il piccolo maestro vi ha abbandonato? Gli si spezzerà il cuore.

– Possono venire nel nostro appartamento, – dice il bambino.

– E allora, io? Come farà il vecchio Dmitri? Sarà il benvenuto Dmitri nel bell’appartamento della señora Inés? E la bella señorita, la tua insegnante… sarà la benvenuta?

La señora Devito ritorna con a fianco un giovane dall’aria seccata.

– Questo è il bambino, – dice la señora Devito, – il bambino con la cosiddetta malattia misteriosa. E loro sono Inés e Simón.

– Siete i genitori? – chiede il giovane medico.

– No, – dice lui, Simón. – Siamo…

– Sí, – dice Inés, – siamo i genitori.

– E chi si occupa del caso?

– Il dottor Ribeiro, – dice la señora Devito.

– Mi dispiace ma non posso firmare la dimissione senza l’autorizzazione del dottor Ribeiro.

Inés s’inalbera. – Non mi serve l’autorizzazione di nessuno per riportare a casa mio figlio.

– Io non ho una malattia misteriosa, – dice il ragazzino. – Sono il numero cento. Cento non è un numero misterioso. Cento è il numero che deve morire.

Il medico lo guarda irritato. – Non è cosí che funziona la statistica, giovanotto. Non stai morendo. Questo è un ospedale. Qui non lasciamo morire i bambini –. Si rivolge a Inés. – Torni domani e parli con il dottor Ribeiro. Gli lascerò un messaggio –. Si rivolge a Dmitri. – Riporta il nostro giovane amico in reparto, per favore. E che ci fa il cane qui? Lo sai che non sono permessi gli animali.

Inés non si degna di discutere. Afferra i manici della sedia a rotelle e la spinge, superando il dottore.

Dmitri le sbarra il passo. – Amore materno, – dice. – È un privilegio vederlo, intenerisce il cuore, davvero. Ma non possiamo lasciarle portar via il piccolo maestro.

E si avvia a riprendere la sedia a rotelle quando da Bolívar giunge un ringhio sordo. Dmitri ritira la mano incauta ma continua a sbarrare il passo a Inés. Il cane ringhia di nuovo, un ringhio profondo, di gola. Ha le orecchie basse, schiacciate, e il labbro superiore si è ritirato scoprendo lunghi denti gialli.

– Scansati, Dmitri, – dice lui, Simón.

Il cane fa un primo lento passo verso Dmitri, poi un altro. Dmitri non si sposta.

– Bolívar, fermo! – comanda il bambino.

Il cane si blocca, continuando a fissare Dmitri.

– Dmitri, lasciaci passare! – dice il bambino.

Dmitri li lascia passare.

Il giovane medico si rivolge a Dmitri. – Chi ha permesso a questo animale pericoloso di entrare in ospedale? Sei stato tu?

– Lui non è un animale pericoloso, – dice il ragazzino. – È il mio custode. Mi protegge.

Senza che nessuno alzi un dito a fermarli lasciano l’ospedale. Lui, Simón, prende in braccio il bambino e lo mette sul sedile posteriore della macchina di Inés; il cane salta dentro; lasciano la sedia a rotelle nel parcheggio.

Lui si rivolge a Inés. – Inés, sei stata magnifica –. È vero, non è mai stata piú risoluta, piú imperiosa, piú regale.

– Anche Bolívar è stato magnifico, – dice il bambino. – Bolívar è il re dei cani. E adesso saremo di nuovo una famiglia?

– Sí, – dice lui, Simón, – saremo di nuovo una famiglia.