Capitolo settimo
È sabato e lui va in bicicletta fino all’orfanotrofio in tempo per assistere alla partita di calcio. Ma i campi da gioco sono deserti.
In una sala di ricreazione trova tre ragazze che giocano a ping-pong.
– Niente partita oggi? – chiede.
– Sono in trasferta, – gli risponde una di loro.
– Sapete dove?
Lei scuote la testa. – A noi non piace il calcio.
– Conoscete un ragazzino di nome David entrato di recente all’orfanotrofio?
Le ragazze si guardano, e ridacchiano. – Sí, lo conosciamo.
– Allora gli scrivo un messaggio: potete darglielo quando rientra?
– Sí.
Su un pezzo di carta scrive: Sono venuto stamattina nella speranza di vedere la tua squadra in azione, ma non ho avuto fortuna. Ci riproverò il prossimo sabato. Fammi sapere se hai bisogno di qualcosa da casa. Inés ti saluta. Manchi tanto a Bolívar. Con affetto, Simón.
Non sa se davvero Inés lo saluti. Da quando il bambino se n’è andato lei, in preda a una fredda ira, si rifiuta di parlargli.
I giorni passano lenti. Lui balla molto da solo nel suo appartamento. La cosa lo trasporta in uno stato di piacevole noncuranza e quando è sfinito riesce a dormire. Fa bene al cuore, fa bene all’anima, si dice mentre sprofonda nel buio. Di certo meglio che bere.
La cosa peggiore sono i pomeriggi vuoti. Lui porta fuori il cane ma evita le partite nel parco, e le domande dei compagni curiosi (Che è successo a David? Quando torna?) Bolívar ormai è troppo vecchio per le lunghe passeggiate, cosí perlopiú si siedono insieme, lui e il cane, nel vicino giardinetto con la ghiaia, e sonnecchiano per ammazzare il tempo.
Ora che David se ne è andato, riflette, Bolívar è tutto quello che resta a tenere insieme la nostra piccola famiglia. A questo siamo ridotti io e Inés: a fare i genitori di un vecchio cane?
Arriva il sabato. Lui va di nuovo in bicicletta fino all’orfanotrofio. La partita è già cominciata. Gli orfani giocano contro una squadra con le maglie bianconere chiaramente piú abile e meglio allenata della lacera squadretta degli innocenti del caseggiato. Mentre lui si unisce al gruppetto di adulti che guardano da bordocampo, tre della squadra bianconera realizzano una brillante manovra che spiazza la difesa e per poco non si trasforma in rete.
David, che gioca esterno di centrocampo, è bello nella sua maglietta blu col numero 9 sulle spalle.
– Contro chi giochiamo? – chiede al giovanotto accanto a lui.
Il giovanotto lo guarda stupito. – Los Halcones. La squadra dell’orfanotrofio.
– A quanto stanno?
– Nessun gol, finora.
I bianconeri sono molto bravi nel possesso palla. I ragazzi dell’orfanotrofio li sfidano ripetutamente ma finiscono per annaspare. C’è un brutto momento in cui uno dei bianconeri viene attaccato e buttato a terra. Il dottor Fabricante, come arbitro, riprende duramente l’autore del fallo.
Verso la fine del primo tempo un attaccante bianconero trascina il portiere fuori della porta, poi con freddezza gli tira la palla sopra la testa e fa gol.
Durante l’intervallo il dottor Fabricante riunisce gli orfani in mezzo al campo e apparentemente li istruisce sulla strategia da seguire nel secondo tempo. A lui, Simón, sembra strano che l’arbitro faccia anche l’allenatore di una delle squadre, ma nessun altro pare farci caso.
Nel secondo tempo David gioca dalla parte del campo dove si trova lui, che cosí può vedere chiaramente quello che succede l’unica volta in cui la palla lo raggiunge in uno spazio libero. Con naturalezza si porta oltre un difensore, ne supera un secondo. Ma poi, con la strada del gol aperta davanti, inciampa nei suoi stessi piedi e cade faccia a terra. Tra il pubblico corre un’onda di ilarità.
La partita si chiude con la vittoria dei bianconeri. In silenzio, a testa bassa, Los Halcones marciano fuori dal campo.
Lui raggiunge David prima che scompaia negli spogliatoi. – Bella partita, ragazzo mio, – dice. – Vuoi mandare un messaggio a tua madre? È preoccupata, sai, perché non torni a casa.
David gli rivolge un sorriso che lui può solo definire gentile. – Grazie per essere venuto, Simón, ma non tornare piú. Lasciami fare quello che devo fare.