Liliana si prende cura di me finché riesco a farmi la doccia da solo, a camminare per casa, a uscire in strada sulle mie gambe. Quando la cicatrice si è chiusa completamente mi porta a fare baldoria per un’ultima volta. È sempre l’ultima volta. Finiamo all’alba ubriachissimi nella leggendaria locanda di Tlacoquemécatl. Mi concede il suo corpo per il resto della mattinata e io sono in grado di approfittarne. Dormo tutto il pomeriggio.

La sera la trovo seduta in salotto, al buio, che guarda fuori dalla finestra. La luce gialla di un lampione cade su metà del suo corpo e del suo viso. Mi siedo accanto a lei nella parte in ombra. Dice: «Devi lasciarmi continuare la mia strada, Serrano».

Le chiedo dove porta questa strada.

«Affanculo, Serrano. Affanculo».

Le trema un occhio quando lo dice, uno dei suoi grandi occhi neri. Non so se per la prima volta nella mia vita, ma sicuramente per la prima volta da che ho ricordi vedo nei suoi occhi non un invito ma una fragilità. È la donna che ho sempre amato e la donna che non posso amare, ma ora all’improvviso è fragile, meno piacevole nella sua fragilità, meno irresistibile. Abbiamo conti da sistemare, come ogni coppia. Sono esperto in conti di coppia. Ma questa volta c’è una differenza: Liliana non mi chiede nulla se non di andarsene, e io non provo a trattare. Però ha una proposta. La voglio sentire?

Ha fatto un patto con Dorotea. Tornerà in clinica, si sottometterà a un nuovo ciclo di pillole. Vivrà sotto trattamenti che la proteggono da sé stessa. Poi, andrà a vivere a casa di Dorotea, insieme metteranno su un boutique hotel come quello che Liliana aveva preso in gestione per qualche anno ad Antigua. Mi ha mai parlato del suo hotel ad Antigua? Gli ha dato fuoco in una notte di bagordi in cui decise di cambiare vita. Ride, incendiaria. Non brucerà il nuovo hotel. Vivrà a casa di Dorotea e poi all’hotel, come ad Antigua.

Mi chiede se quella vita mi interessa o mi ricorda i miei matrimoni. Dico che mi ricorda i miei matrimoni. Mi dice che non vuole sposarsi con me ma con Dorotea e con l’hotel, come io mi sono sposato con le mie altre donne: per mettersi l’anima in pace. Sa che il matrimonio non funzionerà, come tutti, come non hanno funzionato i miei, e che tornerà in guerra. Dice che la pace delle pillole è solo un modo di mettere insieme le forze per tornare in guerra. Suggerisco la metafora delle caserme d’inverno. Ma questo è il patto che ha fatto con sua sorella Dorotea: vivranno insieme per il tempo che durerà la pace delle pillole. Quando Liliana deciderà di lasciare le pillole e tornare sé stessa, lascerà la casa di Dorotea con la promessa di non tornare fino a quando la guerra non sarà passata. Entrambe sanno che il momento di tornare in guerra arriverà, che Liliana ha ancora l’energia di andarsene e tornare, e anche di andarsene e non tornare più. Dorotea le ha detto che se quello che vuole è morire, che muoia lontano da lei e da suo figlio. Questa è l’unica condizione di Dorotea. Liliana le ha promesso che così sarà. Mi chiede se sono d’accordo con la condizione posta da Dorotea. Dichiaro che non la condivido. Mi chiede allora se quando vorrà uscire dalla pace di Dorotea potrà rivedermi, andare in guerra insieme a me.

Vedo che le sorelle mi hanno finalmente trovato una sistemazione. Non posso dire che sia umiliante. Dichiaro che può venire quando vuole, preferibilmente senza pillole. Suggelliamo il patto tornando a letto con una tristezza che non ci lascia parlare né dormire.

Il grande avvenimento del giorno successivo è la visita di Dorotea. Viene a prendere Liliana per riportarla in clinica. Mi snerva l’immagine del dottor Barranco che riceve di nuovo nei suoi cortili la sua paziente preferita, Liliana Montoya.

Dorotea dice: «Te l’avevo detto che te ne saresti pentito, Serrano. Te l’avevo detto».

Lo dice con una voce sottile che sembra sul punto di scoppiare in una risata, come se facesse una parte che solo io e lei possiamo capire e fosse vinta dall’essenziale ridicolaggine del suo fingere. Ha gli occhi di un’eroina dei fumetti, con grandi ciglia separate e un taglio felino allungato da una precisa punta di rimmel. Il naso termina con delle narici rotonde da madonna. Ha labbra piccole ma ben marcate. A riposo hanno la forma dell’inizio o della fine di un sorriso. La bella bambina che è stata persiste nella donna esperta, ironica e tersa che è.

«Dimmi che verrai a trovarci» dice Dorotea.

«Ho già fatto il mio patto con lui» spiega Liliana. «Sarà il mio cimitero di sicurezza».

«Avrei voluto che qualcuno mi amasse così nella vita» dice Dorotea. «Che mi avesse amato».

Mi dà un bacio sulla guancia. Ha labbra umide e fredde. Sento la sua saliva liquida.

Passano le settimane. Il giorno che lascia la clinica e si trasferisce a casa di sua sorella, Liliana mi telefona. Ha avuto notizie da Rubén, vuole che vada a trovarle. Quando voglio, come voglio: non mi dimentica. Lei e Dorotea sono in pace.

Non è la pace delle due sorelle che mi interessa, ma la guerra. E anche il fatto inaspettato che, dietro l’ombra enorme e dominante di Liliana, cresca ora quella di Dorotea.

Un giorno vado a fargli visita. La ragazza che si occupa della casa è stata avvisata e mi lascia entrare. Dice che le signore mi aspettano in giardino. Mi aspettano ma sono sedute di spalle, sotto l’ombrellone, al tavolo di ferro battuto. Guardano verso il retro del giardino, dove ci sono il boschetto e la stalla. Sono vestite di bianco, il vento agita leggermente i capelli di Liliana, quelli di Dorotea non si muovono minimamente. Chiacchierano in modo pacifico e misterioso. Mi fermo a guardare la scena. Mi chiedo se sarà vera quella tranquillità, quella serenità, la pace che emanano le sorelle. Mi chiedo se posso completare la loro pace dicendogli quello che ho già detto a Liliana, senza sortire alcun effetto. Ovvero: «Voi non avete ucciso Honduras. L’avete fatto uccidere ma non l’avete ucciso. Avete desiderato la sua morte e avete fatto in modo che morisse, ma con mezzi triviali, a differenza delle vostre emozioni». Non so se quello che ho da dirgli è del tutto vero. Non ho in realtà altro che la versione del comandante Neri a confermarlo, macchiata ora ai miei occhi dal suo ruolo di complice di Antúnez in questa storia. È possibile, penso di colpo, che la verità del caso non importi per la domanda che mi ronza in testa fin dall’inizio. Che la cosa importante per rispondere a quella domanda non sia ciò che è successo realmente, ma ciò che le sorelle hanno creduto fino a oggi. Credono di aver ucciso il fidanzato di Dorotea, l’honduregno Clotaldo. Credono di averlo ucciso grazie ai loro ordini. Liliana lo ha chiesto al Pato e fino a oggi ha creduto che il Pato abbia eseguito i suoi ordini. Dorotea è andata a vedere il cadavere del suo amante e ha creduto che giacesse lì morto di fronte a lei come compimento di un suo desiderio. È stata implacabile con lui mentre era vivo: ha detto che l’aveva fatta prostituire e vessata quando l’aveva solo delusa. Ed è stata ancora più dura quando è morto: ha voluto vedere il cadavere e gli ha mosso la testa da una parte all’altra con la punta del piede per verificare la sua condizione inerte.

La domanda che mi ronza in testa dall’inizio dei tempi è se le sorelle l’hanno fatta franca. Se queste due leggendarie donne della mia vita possono aver ucciso qualcuno che amavano e non averne sofferto per il resto dei loro giorni. Le sorelle Montoya che vedo sedute di spalle nel giardino della casa di Dorotea sembrano dire di sì, che potrebbero averlo fatto, che l’hanno fatta franca. La vita delle sorelle, almeno le loro vite con me, sono segnate dalla risonanza di quel crimine. A modo loro, sono una specie a parte. Un aldilà mitologico, amoroso, irresistibile. Un aldiqua irrequieto, oscuro, impenetrabile.

Chiedo dopo averle salutate se gli dà fastidio che scriva la storia di Honduras.

«Scrivi quello che vuoi, scrittore» dice Liliana.

«Quello che vuoi» dice Dorotea. «Ma chi è Honduras? Di che parli? Sei già venuto una volta a vessarmi con questa storia. Mi hai detto delle cose un po’ folli, Serrano. Vuoi della panna fresca? Oggi hanno portato la panna dall’allevamento».

Mi dice che hanno trovato l’ultimo allevamento rimasto in questo angolo della città, invaso da case enormi, con ambiziosi giardini campestri. Dorotea non ha voluto che chiudessero l’allevamento e suo marito Arno ho fatto in modo che lo comprasse un ristorante di cibo biologico. I vecchi proprietari sono rimasti come impiegati, molto grati dell’affare e della casa di Dorotea. Ogni tanto mandano latte crudo, panna fresca, burro non pastorizzato.

Dorotea si dilunga su questo punto. Poi dice: «L’ultima volta che sei venuto ti ho fatto vedere i miei cactus, vero?»

Non ha ancora finito di dirlo che sta già camminando verso la stalla. Accanto alla stalla c’è il suo angolino segreto, dice, l’angolo dei suoi cactus. Mi spiega mentre cammina: «I cactus non hanno il prestigio dei cipressi messicani o delle jacaranda, ma sono il vero sapere della terra. Hanno bisogno di poca acqua e nessuna cura, sono desertici, non si lasciano morire perché non seccano mai. Hanno l’umidità dentro. Nella peggiore delle siccità, si chiudono in sé stessi: si ritirano, si trincerano. Quando arriva l’acqua, non ne prendono mai troppa, solo quella di cui hanno bisogno. Ne esistono di tutte le forme e dimensioni. Possono avere le spine o non averle. I cactus senza spine si chiamano piante grasse. Possono essere in miniatura o giganti. Nel deserto ci sono saguari di trecento anni alti settanta metri. Ci sono piante grasse di trecento anni grandi come una pallina di vetro. Io sono un cactus, Serrano, Liliana è una jacaranda. Sboccia come una pazza ogni anno, e poi appassisce. Non si risparmia. Sono bellissimi gli alberi di jacaranda. Niente da dire. Ma i cactus sono il sale della terra».

Inizia a mostrarmi la sua collezione di cactus intorno a uno stagno minuscolo, quasi una pozzanghera. È un’esuberante collezione di piante del deserto, una lussuria di secchezza in piccoli vasi di echinocactus, fichidindia, agavi, sempervivum. Mi mostra un vaso con quattro germogli spinosi e rotondi come peni. È un cactus che chiamano vecchietto, perché ha un ciuffo di peli bianchi. Una volta gli diede troppa acqua e il vecchietto iniziò a marcire per eccesso di cure. Quando si rese conto del putridume, metà della pianta era marcita. Allora capì cosa significava tagliare per risanare. Tagliò a metà i quattro peni del vecchietto, fino a dove erano marci, ci buttò sopra uno strato di cenere e si dispose a vederli morire. L’indifferenza e la mancanza d’acqua fecero sì che il vecchietto rinascesse dalle proprie ceneri.

«Questo vecchietto mi ha insegnato che la vita è così, Serrano. Così cresce la vita. Bisogna tagliare per sopravvivere».

Mi guarda con quello sguardo cinese, un po’ sonnambulo, dei suoi occhi socchiusi, ironici, magistrali.

Torniamo in silenzio all’ombrellone dove ci aspetta Liliana. Dorotea si avvia in casa per lasciarmi da solo con Liliana, che non ha detto una parola. È il momento in cui possiamo parlare, lei può raccontarmi di Rubén, io della mia vita senza lei. Ma non voglio parlare con Liliana in quel momento, voglio guardare Dorotea. E questo faccio. La guardo proseguire lungo il giardino verso le vetrate della casa dove si riflette il bosco. Scopro che è scalza. Cammina dritta, con elegante e narcotica lentezza.

Ah, che io finisca per guardare Dorotea e non Liliana, che sia Dorotea la donna che posso guardare con l’innocenza infantile con cui ho guardato sua sorella, come il corpo enigmatico che apre le porte del mondo.