Per trovare Liliana, non posso seguire la pista familiare. Ho perso di vista la famiglia Montoya, che per certi versi era anche la mia, ed è uno dei costi sommersi della mia relazione con Liliana. Il mio amico Rubén Montoya mi caccia da casa sua il giorno che ci trova chiusi in bagno con la gonna alzata e i pantaloni alle caviglie. In quel momento le mie scarpe sono in condizioni scandalose. Ogni volta che ripenso a quella scena mi tornano in mente le mie scarpe sporche, con le stringe sfilacciate. Rubén mi caccia a pedate dal bagno e da casa sua. Quando sa che Liliana frequenta il Pato Vértiz, caccia pure lei. Attribuisce la storia di Liliana con il Pato al fatto che io in precedenza abbia abusato di lei, al mio inconcepibile tradimento fraterno. Nella testa di Rubén sarò sempre la prima pietra della rovina di Liliana. Il primo che va troppo oltre. Un giorno lo incontro in una libreria. Penso che voglia aggredirmi, e invece mi fa un cenno di saluto con la testa. Ci ritroviamo insieme alla cassa, per pagare. Interpreto male i suoi gesti, credo che mi stia lasciando aperto uno spiraglio. Gli chiedo come sta.
«Bene» dice.
Gli chiedo come sta Liliana.
«Non lo so» dice. «Non fa più parte della mia vita, proprio come te».
Allora rivedo nel suo sguardo l’odio freddo, l’incancellabile offesa del mio incesto.
Rubén Montoya combatte per la sorella da quando è bambino finché capisce che Liliana non è roba sua. Lo capisce dopo una rissa con un compagno di classe che lo mette al tappeto due volte durante il combattimento, fissato per l’uscita da scuola, nella piccola rotonda all’incrocio lì accanto. I saputelli della scuola si assiepano tutt’intorno per vedere come combattono i loro compagni, in quella prova di virilità definitiva che è prendersi a pugni senza regole, sotto gli occhi degli altri, dei propri pari. Rubén capisce dai primi movimenti che il suo rivale possiede una superiorità segreta, che è allenato per lottare, per colpire impunemente i candidi compagni di scuola che accettano di darsi appuntamento alla rotonda per fare a botte con lui. Rubén ricorda quel momento come la prima rivelazione che ormai non è più un bambino ma è un adulto, ovvero: può morire, niente lo protegge dalla morte, potrebbe cedere sotto i pugni infantili di quel suo compagno con cui ha accettato di combattere alla rotonda. Con la stessa lucidità con cui capisce questo e la superiorità dei pugni del compagno con cui si azzuffa alla rotonda, Rubén riceve il primo colpo secco e muto in bocca, il secondo forte e sordo alla tempia, il terzo asfissiante e impietoso sul pomo d’adamo, tutti assestati con precisione immutabile dal suo compagno, che si mette poi a cavalcioni sopra Rubén, a terra indifeso, e si dispone a concludere la propria opera, inchiodandolo a suon di pugni contro la ghiaia della rotonda. A quel punto succede qualcosa di inaspettato. Il suo compagno non scarica sul volto di Rubén il pugno che ha in serbo, il pugno che potrebbe fargli saltare un dente o rompergli l’osso della mandibola, ma fa solo finta di farlo, fermando la mano a un centimetro dalla faccia di Rubén. Si alza e fa una finta ma poi trattiene anche il calcio che potrebbe dargli nelle costole, perché Rubén è ancora a terra, inerme di impotenza e lacrime. Quando lo tirano su, Rubén vede che Liliana lo sta guardando dal marciapiede. La presenza di Liliana moltiplica l’umiliazione. Dorotea e i suoi amichetti vanno a prenderlo. Hanno sei anni meno di lui. Si sente un adulto oltraggiato. Lo portano a casa a braccia, lo mettono a sedere sulla poltrona lunga e vecchia che c’è nell’ingresso. Liliana appare con una brocca d’acqua calda e inizia a lavargli le ferite. Gli dice una cosa che Rubén non dimenticherà mai: è arrabbiata con il suo compagno perché gli aveva chiesto di non fare a botte con Rubén, di non colpirlo, perché Rubén, ha spiegato Liliana al compagno, sfida continuamente i suoi pretendenti, ma non bisogna prenderlo alla lettera, perché Rubén non parla a nome di Liliana.
Rubén è un disastro di lividi e sconfitta, buttato sulla poltrona all’ingresso di casa con il corpo e l’anima doloranti, ma non è nulla di paragonabile a come si sente poi, con l’espressione sgonfia, pallida e magra del suo volto, quando Liliana lo prende per le guance dolenti, lo solleva verso di lei, fa in modo che lui la guardi negli occhi e uccide con queste parole la sua giovinezza: «Lui mi piace, Rubén. Non lo vedrò più perché ti ha picchiato. Però mi piace, come mi piacciono altri ragazzi. Puoi perdonarmi? Mi piacciono altri ragazzi, me ne piacciono tanti, mi piacciono tanto, puoi perdonarmi per questo?»
Ed è così che Rubén capisce che sua sorella non è roba sua. Liliana ha tredici anni.
È molto tempo che non so niente della tribù Montoya. Il caso mi viene in soccorso un giorno che vado dal dentista. Nella sala d’aspetto, leggo su una rivista un reportage sul conferimento di diplomi a adolescenti geniali, adolescenti che hanno dovuto vincere la miopia delle proprie paure. Tra i giovani premiati c’è il figlio di Dorotea. Appare con i genitori in una delle foto del reportage. Il suo nome è Arturo Heisler Montoya. È un ragazzo alto e astenico, con lenti da miope che gli ingrandiscono gli occhi tristi.
Quell’adolescente allampanato è un matematico superdotato che da bambino è stato trattato come un ritardato. Suo padre, Arno Heisler Gotze, nato in Messico, è il direttore di un’azienda farmaceutica tedesca. Sua madre, Dorotea Montoya Giner, è la fata che difende suo figlio dalla paura, la madre che vede la luce del genio dove insegnanti e dottori hanno visto solo autismo o sorprendenti varianti della sindrome di Down. Ed ecco Dorotea nella foto. È alta quanto il marito, ma sono entrambi più bassi del figlio. Ha quarant’anni che porta e veste molto bene, le spalle larghe, le braccia lunghe, la fronte tersa, lo sguardo limpido, i capelli neri finemente acconciati che le scoprono le orecchie. Non c’è traccia di Honduras.
Penso al figlio di Dorotea come a un’iridescente anomalia. Sarà come avere un mostro bello in casa. Aguzzo l’ingegno e mi metto sulle tracce degli Heisler Montoya facendo visita al luogo dove si è tenuta la premiazione. Non mi possono dare un indirizzo, ma un numero di telefono sì. Dorotea risponde al primo squillo. Riattacco senza dire una parola. Una settimana dopo chiamo di nuovo. Risponde la donna delle pulizie. Chiedo di parlare con la signora. Chiede chi deve annunciare. Le dico il mio nome e le mie intenzioni. Dico che chiamo la signora perché mi piacerebbe rivederla, dopo tanti anni. Così facendo lascio a Dorotea l’opportunità di negarsi ma anche di accettare. La sua voce è chiara e dolce nella cornetta quando risponde: «Serrano, che onore. A cosa devo l’onore?»
Rispondo che si deve agli onori ricevuti dal figlio. Le racconto il mio racconto della sala d’attesa del dentista, la rivista e il diploma.
«Sei cattivo, Serrano, sei sparito senza salutare».
Le dico che ho fatto i miei saluti a Rubén.
«Ma non a noi, Serrano. Vieni a trovarmi?»
Le dico che sto chiamando proprio per quello. Mi dà un indirizzo, un giorno e un’ora.
Vado il giorno che mi indica, a metà mattina. Vive in una casa enorme in una delle zone più ricche della città. A nord la casa confina con il limitare di un bosco. Mi fa sedere in un salotto con poltrone bianche di pelle. È una donna diversa da quella che ricordo, una donna matura. Io ricordo solo una ragazza. La ragazza è ancora lì quando la donna matura ride di ciò che dice e l’allegria le affiora agli occhi senza la minima ragione. La donna matura invece ha delle ombre sulla fronte per ragioni private incognite quanto la sua allegria.
Mi fa ripetere la storia della rivista, del diploma e della sala d’attesa. Le faccio i complimenti per suo figlio. Annuisce e sorride. Si è dedicata a salvarlo dall’incomprensione del mondo, dice. Lei ha salvato suo figlio, a lei l’ha salvata la fede. Le chiedo se è credente.
«Ho la mia religione».
È un’affermazione anomala. Non ci sono credenti né religioni nella famiglia Montoya, tutta emanazione dei geni e dei libri giacobini del dottor Montoya, un miscredente.
«Non ho niente da dirti, o forse tutto» dice. «Non dovrei vederti dopo quello che hai fatto a mia sorella».
Le dico che non ho fatto niente a sua sorella.
«Non l’hai salvata, Serrano. Ecco cosa le hai fatto. Non sei rimasto con lei».
Dico che non sono stato voluto: una bugia. Aggiungo una verità: Liliana mi fa paura.
«Eppure vieni a cercarla» dice Dorotea. «Perché sei qui se non per cercarla?»
Non rispondo alla sua domanda, le chiedo come sta.
«Lo vedi?» dice. «Lo vedi? Sei venuto a cercarla. E vuoi che parliamo di lei. Del Pato e di tutto il resto. Ma io non ne voglio parlare».
Eppure finisce a parlare di ciò che definisce «il resto», salvo che il suo «resto» è diverso dal mio. Il suo «resto» è l’amore tra il Pato e Liliana. Dice con strana allegria: «Credo che fossero felici finché mia sorella non ha perso il primo bambino. Quando ha perso il secondo, è finito tutto. Non poteva più vedere il Pato. Non te l’ha mai raccontato? Mai? Che tonta, si sarebbe consolata. La consolava pensare a te, diceva che tu e lei eravate come un esame ancora da dare. Tu e lei. L’uno per l’altra. E che quando tutto sarebbe stato perduto, ci saresti stato comunque tu. Ma te ne sei andato, Serrano. E lei ti ha lasciato andare. Che stupida. Io ti avrei incatenato».
Le chiedo se ho sentito bene, se è vero che Liliana ha perso un bambino.
Le chiedo quando.
«Quando stava con il Pato. Uno, a due mesi di gravidanza. Un altro ancora peggio, a quattro mesi. Ne è rimasta molto segnata».
Le chiedo se li ha persi o se ha abortito.
«Li ha persi, Serrano, ed è offensivo che tu lo metta in dubbio. Nella mia famiglia non si fanno queste cose».
Le chiedo che cosa significa che «ne è rimasta molto segnata».
«Non può avere bambini. Non ha potuto. Non ne ha».
Alla fine le chiedo dov’è Liliana.
«Non lo so. Non so niente di lei».
I suoi occhi si riempiono di lacrime. Piange bene, Dorotea, in modo commovente. Eppure le sue lacrime mi irritano.
Le propongo di parlare di Honduras.
«Honduras?»
Glielo ricordo: il suo amico Honduras.
«Non ho nessun amico honduregno, Serrano. Di cosa stai parlando?»
Non è un amico, piuttosto un fidanzato. Perché non mi parla del suo fidanzato honduregno?
Mi ride in faccia: «Quale fidanzato, Serrano. Non ho nessun fidanzato, sono una donna sposata».
Insisto sul suo fidanzato dell’adolescenza, Honduras.
«Non ho avuto un fidanzato da adolescente. Di che parli, Serrano. Il mio primo fidanzato ce l’ho avuto a vent’anni, ed è il mio attuale marito. Cosa ti sei fumato?»
Le dico che ho verificato la storia di Honduras, che conosco tutti i dettagli. La data, il fascicolo giudiziario, la versione del poliziotto che ha seguito il caso.
«Che caso, Serrano? Che data? Che poliziotto?»
Lascio perdere l’argomento. Mi rendo conto che la visita si è conclusa nel modo peggiore, ma Dorotea decide di prolungarla in modo insopportabile. Dice che vuole mostrarmi la casa. Mi fa strada. Al piano di sotto c’è la sala dove stiamo, poi un altro salotto, poi una sala da pranzo nello stesso ambiente della cucina, con un’anticamera. Di fronte alla sala da pranzo c’è uno studio con librerie alte fino al soffitto. Lo studio è di Arno, spiega Dorotea. C’è un paravento indù. La cucina si affaccia su una terrazza che dà sulla piscina e il giardino. Alla fine del giardino inizia un bosco. Attraversiamo il giardino. All’estremità ci sono una stalla, un maneggio e una dépendance per gli ospiti. Il figlio di Dorotea monta un cavallo che si chiama Perelman. Mi parla di tutto questo, una cosa alla volta, come una guida turistica. Rincasiamo parlando del suo figlio genio. Vive per lui, pensa che ci sia qualcosa di suo padre, il dottor Montoya, in quel ragazzo, anche se Dorotea non ha mai conosciuto il padre. Siamo sulla porta. Mi ringrazia della visita. Sbatte le palpebre quando mi stringe la mano per salutarmi. Sbatte le palpebre di nuovo quando chiude la porta. Sbatte le palpebre nei miei ricordi.
Quella sera, dopo aver fatto visita a Dorotea, faccio un sogno che appunto su uno dei miei taccuini. «Vedo Dorotea che si infila in un bar infimo per uscirne con un uomo infimo e infilarsi in un hotel infimo dal quale ritorna tutta composta a casa sua».