Il Cícero è un ristorante dove si rimorchia. Ci sono tavolate di donne che dopo mangiato bevono, fumano e chiacchierano. Ridono sonoramente delle proprie battute. Le loro risate indicano che stanno aspettando qualcuno che paghi il conto e si sieda al loro tavolo. Il comandante guarda uno di quei tavoli da sopra la sua spalla destra, poi un altro sopra la spalla sinistra: «Che belle che sono le puttane di cuore. Sirene malefiche».

Poi mi guarda come se mi attraversasse. Ha una patina chiara sulle cornee, come staccata. Le sue palpebre sono una pergamena di rughe. Chiede: «Mi metterà su carta?»

Devo fare una faccia da idiota perché sbatte le palpebre con fastidio. Riformula: «Metterà per iscritto quello che le dirò? Userà il mio nome da qualche parte?»

Dico di no.

«Se mi ha visto, non se ne ricorda, intesi?»

Non capisco bene cos’è che mi sta dicendo ma accetto. Continua: «Mi chiamo Neri. Le parlerò senza dire cazzate. D’accordo?»

Annuisco meccanicamente.

«Tutto ciò di cui lei è già a conoscenza sul caso che le interessa, è esatto. Salvo che non ci fu un solo morto. Furono due. Uno era il morto a cui lei fa riferimento, lo straniero. Ma il morto importante era l’altro».

Dico che non si parla di altri morti sulla stampa, né nel fascicolo giudiziario. Risponde: «Il morto serio è stato coperto. Mi ricordo molto bene del caso perché quel giorno sono stato sul punto di morire anch’io. Ero nella zona di Morelos alla ricerca di un sequestratore. Non so come ha fatto ma mi ha scatenato contro l’intero paese. Mi volevano impiccare di fronte alla chiesa. Mi ha salvato il parroco. Per poco non linciano anche lui. Sono arrivato a Città del Messico a notte fonda. Alla base mi hanno detto che c’era un caso di cui occuparsi in un bordello. In realtà non era un bordello, ma un appartamento ben curato a colonia San Rafael. Quando sono arrivato c’era già il morto che dice lei, il proprietario dell’appartamento. L’altro, quello importante, lo stavano interrogando, ma si sono fatti prendere un po’ la mano durante l’interrogatorio e hanno deciso di non portarlo dentro perché nessuno avrebbe potuto spiegare le lesioni. Il comandante Reséndiz ha detto: ‘Qui la storia è che hanno ucciso un magnaccia, intesi?’ Si sono portati via il loro morto e hanno lasciato me a fare da guardia all’altro, cioè: il suo, quello che le interessa, in attesa di istruzioni. La mattina dopo non avevo ancora avuto nessuna istruzione. Sono iniziate quindi le pressioni. È stato un caso su cui si è negoziato molto».

Gli chiedo che cosa vuol dire «negoziato». Mi parla di una rivalità tra l’allora segretario di governo e l’allora reggente della città.

«Il segretario di governo voleva far fuori il reggente. Sapeva che nella nostra divisione si facevano delle porcherie. E sì. In quegli anni, se c’era un caso grave, la procura chiedeva alla parte lesa se voleva il colpevole vivo o morto. Molti lo volevano morto. Esisteva uno squadrone di giustizieri. Tutti quelli della nostra divisione ci passavano prima o poi. Alcuni lo facevano per soldi. Altri per accumulare meriti».

Gli chiedo se lui faceva parte dello squadrone di giustizieri.

«Mai per soldi. Solo se il caso meritava».

Chiedo quando meritava.

«Quando si trattava di carogne, stupratori seriali, pluriomicidi. Ognuno ha il proprio codice. Quello che posso dire è che non ho mai ucciso uno stronzo che non se lo meritava».

Ordina un’acqua minerale. Abbassa la testa, chiude gli occhi, riprende a guardarmi.

«Il segretario di governo voleva provare che c’erano state esecuzioni nella procura della città. Per far fuori il Reggente. Aveva dato ordine di fare luce su tutti i casi che sembravano esecuzioni. Nel caso che interessa a lei, però, abbiamo ignorato quelle direttive. Perché quella è stata un’esecuzione dovuta a ragioni professionali della divisione».

Chiedo quali erano le ragioni professionali della divisione. Il comandante Neri si dilunga: «Guardi, in quegli anni, ogni tre o quattro mesi veniva fuori un gruppo di rapinatori che non era nella lista della polizia. Se nessuno sapeva niente di quella banda, era un’anomalia e bisognava estirparla. All’epoca noi poliziotti eravamo padroni della strada. Stabilivamo noi le regole, decidevamo quali crimini valevano la pena e quali no. Eravamo l’autorità e la mala ci temeva. Un comandante di una corporazione qualsiasi si presentava a Tepito, per esempio, e quei topi di fogna arrivavano come mosche: ‘Cosa le possiamo offrire, capo? In cosa possiamo esserle utili?’ ‘Dunque, c’è stato un furto e hanno stuprato la donna della casa rapinata, ma la famiglia della signora è gente perbene, quindi chi ha fatto questa cazzata si fotte. Trovatemi chi è stato’. E loro andavano e lo trovavano. A volte ci portavano perfino i colpevoli. La divisione consegnava i colpevoli alle autorità, ed eravamo tutti contenti. Nel caso che dice lei, la divisione aveva scoperto una di quelle bande. Avevano verificato che il capo era diretto all’appartamento del suo morto, il morto che interessa a lei. Sono andati all’appartamento, hanno ucciso il proprietario e si sono messi ad aspettare il capo della banda. Quando è arrivato, l’hanno interrogato. Però si sono fatti prendere un po’ la mano e quello ci è rimasto secco durante l’interrogatorio, come le ho detto».

Gli chiedo chi ha fatto l’interrogatorio.

«La gente del vecchio servizio segreto. Io avevo appena iniziato, dovevano addestrarmi, ero un apprendista. Mi hanno fatto andare sul luogo del delitto per coprire i fatti. Bisognava dare una pulita e aspettare istruzioni. La tortura del capo li ha portati agli altri membri della banda. La mattina dopo hanno recuperato la merce rubata e li hanno uccisi tutti. Poi mi hanno ordinato di chiamare il pubblico ministero e dare una versione alla stampa. La versione è stata che alcuni clienti avevano ucciso il magnaccia, e li stavamo cercando perché facevano parte di una banda. Non abbiamo cercato niente, ma nessuno ha battuto ciglio e la cosa è finita lì. Mi ricordo molto bene di tutta questa storia perché come le ho detto ero appena scampato a un linciaggio, ma anche perché è stato lì che mi sono spaventato e ho abbandonato la corporazione. Sono diventato di nuovo poliziotto più avanti, quando hanno ripulito la DIPD. Dopo quella pulizia, bisogna dirlo, praticamente non c’era più polizia in città. Siamo stati costretti a reinventarcela da capo, dall’inizio alla fine. È stato un fallimento totale. La verità, non è uno scherzo, è che l’unica polizia che c’è stata in questo paese è quella di allora, quella dei comandanti che erano padroni dei criminali. Erano l’autorità e il crimine insieme. Padroni della mala e parte della mala. Questa storia non la conoscono in tanti, nessuno ne parla mai. Ma era così, è stato così».

La risata di una donna lascia nel ristorante l’eco del verso di un pappagallo. Il comandante cerca l’origine di quella risata al di sopra della sua spalla destra. Dice: «Gran risata».

Anche i suoi occhi ridono, ricordano qualcosa. Gli chiedo se si ricorda bene di quella sera, di quelle ore. Risponde: «Me ne ricordo molto bene. Il mio difetto e la mia salvezza in questo mestiere è che mi ricordo tutto. Così era la pula di allora: pura memoria, zero scartoffie».

Gli chiedo se si ricorda qualcosa di strano di quella notte, se qualcuno ha visto il cadavere oltre a lui.

«Sì, come no. Mi hanno chiamato dall’ufficio del mio capo, il procuratore, per ordinarci di far vedere il cadavere a della gente mandata da lui. È arrivata una ragazza molto bella, con il suo galoppino, un avvocato. Era strano che una ragazza così giovane passasse il tempo così, a guardare cadaveri. Ma la portava quest’amico del mio capo, un tizio dell’università».

Gli chiedo se la ragazza era da sola. Se c’era una ragazza sola o due.

«Solo una. Insieme a questo tizio. Una volta sapevo come si chiamava, ha avuto diversi incarichi, ma l’ho proprio scordato. Meno male che le ho appena detto che mi ricordo tutto».

Gli chiedo se lui era presente quando gli altri hanno visto il cadavere.

«No, non c’ero. Li ho lasciati soli. Sono rimasto di guardia alla porta. Il tizio mi stava sulle palle. All’uscita ha voluto mettermi una banconota in mano. Gli ho detto: ‘Non sono un cameriere, signore’. Non ho accettato. Perché le interessa tanto questo caso?»

Gli dico che me l’aveva raccontato la ragazza.

«Quindi sapeva già com’erano andate le cose? Mi stava mettendo alla prova?»

Gli dico che stavo mettendo alla prova la ragazza.

Ride. Le rughe delle sue palpebre comprimono la lucentezza degli occhi. Si guarda di nuovo intorno verso le tavolate di donne.

«Uscire da qui in compagnia sarebbe il minimo. Offriamo da bere a qualcuna?»

Non aspetta la mia risposta. Si alza e cammina sistemandosi i pantaloni in vita. Porta degli stivali e dei jeans attillati. Ha gambe robuste anche se arcuate, come due parentesi, e cammina come se gli facessero male. Le sue prime parole fanno scoppiare a ridere qualcuna ai tavoli di donne che abborda, due quarantenni dai capelli biondi, truccate come non mai. Il comandante Neri mi indica e mi guarda mentre dice altre cose che fanno ridere le donne. Una è vestita di verde, l’altra di giallo. Hanno entrambe seni grandi e grandi scollature.

Di ritorno al mio appartamento, mi chiedo quanto credere al comandante Neri. La sua frivolezza è ovvia quanto le sue doti affabulatorie. Altrettanto chiara è la sua posizione neutrale nel caso, rispetto ai miei interessi. Niente di quello che dice sull’assassinio di Honduras ha come protagonisti Liliana e il Pato Vértiz. Liliana e il Pato sono incidenti di percorso non di una vendetta familiare, ma di un’esecuzione della polizia. La versione di Neri, tuttavia, chiarisce alcune cose. Prima di tutto, che Liliana non è presente durante l’esecuzione di Honduras né può, pertanto, dirigerla. E poi, che Dorotea non si presenta sul luogo del delitto, ma solo Liliana.

Non mi rendo subito conto dell’enormità della conferma che mi dà il comandante. Ovvero, che l’omicidio c’è stato davvero e che il Pato ha portato Liliana a verificare l’accaduto. Peggio ancora: che Liliana aveva rabbia e fegato sufficienti da decidere di andare a vedere il cadavere del quale aveva ordinato l’esecuzione.

La versione del comandante Neri sulla morte di Honduras non spiega una cosa fondamentale per me, e cioè: come fa il Pato Vértiz a eseguire l’ordine di Liliana di far uccidere Honduras. Secondo il comandante Neri, la morte di Honduras ha un’altra spiegazione. I comandanti che fanno fuori Honduras non stanno cercando lui, ma il suo amico o cliente venereo, a capo di una banda di rapinatori che i comandanti vogliono punire. Honduras viene ucciso perché si trova lì. Non so come il capriccio omicida di Liliana possa rientrare nel percorso della vendetta poliziesca.

Un testimone fondamentale per fare chiarezza su questo sarebbe il procuratore dell’epoca di cui parla Neri, l’amico del Pato. Ma il procuratore è morto, vecchio e incoronato d’alloro. Posso tornare da Neri, ma né il Pato né Liliana rientrano nei suoi ricordi come agenti del crimine. Inoltre, il comandante Neri non è una persona che mi farebbe piacere continuare a frequentare.

Chiedere ad Antúnez è un’altra possibilità, ma non voglio mostrargli le mie carte e dirgli cosa sto cercando esattamente. Tra le altre cose, perché non so molto bene cos’è che sto cercando, se non che voglio che la mia ricerca mi porti da Liliana. Questo è quello che voglio davvero, quello che non oso dire. La mia storia di sempre con lei.

Non mi resta che affrontare il Pato e tirargli fuori la verità. Ma non sono ancora pronto a questo. Il mio disprezzo per lui supera di gran lunga la mia curiosità.